(segue) "... Caro mio, la paga all'inizio non c'è. Puoi contare sul vitto giornaliero e una stuoia nel retro cucina insieme agli altri. Poi in futuro vedremo".

Una settimana dopo iniziai a lavorare per lui. La prima cosa che feci appena arrivato fu una bella doccia. Ma il piacere più grande fu quello di poter disporre e indossare vestiti puliti e stirati. Sajjan mi ordinò subito di tagliare i capelli e la barba che nel frattempo era cresciuta come non mai. Ma il lavoro non fu difficile per me. E diede un ritmo completamente diverso alla mia vita. Ogni martedì pomeriggio Sajjan si assentava da casa e quando tornava era sempre di buon umore e mi allungava una banconota da 1000 rupie strizzandomi l’occhio e io capivo perché.

Un giorno Sajjan mi prese in disparte e mi propose di prendere il posto del giovane bengalese che serviva a tavola – avere servitù europea mi darebbe un gran lustro – disse tutto gongolante, un impegno che avrei potuto assolvere solo a patto di fare qualcosa con i miei denti. A questo proposito mi consigliò di andare dal dott. Sazit, un dentista onesto con il suo studio poco distante. Non feci in tempo a rispondere ricordandogli le mie scarse risorse economiche che Sajjan era già scomparso risucchiato da una delle sue telefonate chilometriche delle quali ignoravo il contenuto.

Così nel mio giorno libero andai dal dott. Sazit. Il suo studio si trovava in una zona incolta tra case in costruzione e fabbriche dismesse, un posto tutt’altro che facile da trovare. Quando individuai la baracca con l’insegna dipinta a mano con il suo nome stentai a credere che potesse trattarsi di uno studio medico. La costruzione interna era costituita da un’unica stanza, regnava un caos indescrivibile, c’erano libri dappertutto, resti di cibo, sculture in legno, addirittura una capretta viva.

Dietro a un paravento vidi una vecchia poltrona da dentista con i sedili rattoppati col nastro adesivo e accanto il piano di un tavolo quasi invisibile per la quantità di carta impilata sopra. Fu allora che in mezzo a tutto quel caos vidi il dott. Sazit, un uomo dal volto scavato, con un turbante verde in testa e la folta barba grigia. Riposava disteso sopra a un divanetto con i braccioli in bambù. Sopra la sua testa capeggiava il ritratto di un santone, un po' come in camera di Giacomo, ecco che cosa mi ricordava quello spazio pieno di libri e cose dove spesso mi immergevo con il mio amico, lui aveva cominciato già da ragazzo a interessarsi di filosofie orientali, chissà dove si trovava ora Giacomo, chissà se aveva provato a cercarmi o forse si era presto arreso immaginandomi aggredito, derubato, ucciso in uno di quei vicoli fetenti dove ci eravamo perduti.

Mentre rimuginavo i miei pensieri il dott. Sazit si è alzato, ha descritto due ampie volute con le braccia e poi si è voltato verso di me per nulla sorpreso dalla mia presenza in casa. Con il suo inglese fluente mi ha subito messo a mio agio, mi ha fatto distendere sulla poltrona e quando è venuto il momento di aprire la mia bocca non è parso per nulla impressionato, anzi, mi ha consigliato di procedere al più presto con una completa abrasione dei monconi rimasti al fine di creare una base solida per una eventuale protesi, soluzione che secondo lui avrebbe risolto ogni aspetto, da quello funzionale a quello estetico, ma che io ho istintivamente aborrito dentro di me prima di tutto all’idea di mettermi una dentiera e poi, traumatizzato da tutte le mie esperienze passate, in allarme per la prospettiva di una nuova spesa, che con i modesti introiti del mio lavoro a casa di Sajjad non avrei mai potuto affrontare.

Il dott. Sazit ha immediatamente percepito il mio disagio e forse anche il mio dissenso e prima ancora che potessi replicare alla sua proposta mi ha chiesto di chiudere gli occhi e di fare dei lunghi respiri con la bocca aperta cosa che ha prodotto dei curiosi fischi – a causa delle fessure e degli spazi presenti tra i denti. Immediata è stata la sua reazione divertita la quale a sua volta ha scatenato in entrambi una esilarante voglia di ridere con la conseguenza che alla fine mi ha convinto in tutto, soprattutto di stare facendo le cose giuste per me, per il lavoro e per il mio futuro. Pertanto fu alla fine facile accordarsi e come se non avessi mai osteggiato le sue soluzioni decidemmo di procedere.

Una settimana dopo mi ripresentai, non senza timore e con la testa piena di pensieri e ricordi legati alle passate esperienze dentistiche. Il dott. Sazit questa volta mi accolse con indosso un impeccabile camice bianco, il suo studio appariva tirato a lucido, con i libri allineati in ordine di grandezza, le carte ben impilate sul tavolino, addirittura un incenso acceso e niente capretta belante. Anche questa volta mi fece sdraiare sulla poltrona, ma appena vidi il trapano azionato a pedale chiusi gli occhi e gli chiesi con voce ferma di essere anestetizzato con una o più punture nelle gengive, al che lui bloccò il basculamento della pedaliera, si alzò e scomparve per un attimo dietro la tenda.

Udii vari rumori misteriosi e poi improvvisamente si levò una musica famigliare, un Beethoven totalmente inaspettato in quel luogo nel cuore dell’India e riconobbi la nona sinfonia e qualcosa s’acquietò nel mio cuore e la sensazione di pace parve perdurare anche quando il dott, Sazit alzò improvvisamente il volume, tornò da me, afferrò il trapano e solo allora capii che quella musica sarebbe stata la mia anestesia. Dopo un lasso di tempo indefinibile durante il quale urlai in tutte le lingue possibili il mio indicibile dolore crollai svenuto.

Fui svegliato da uno scroscio d’acqua fresca e mi ricordai improvvisamente di tutti quei secchi vuoti visti in occasione della mia prima visita. Per quanto tempo ero rimasto privo di sensi? La mia bocca era tornata gonfia e sanguinolenta come dopo il pestaggio dei teppisti milanesi e il primo sguardo benevolo del dott. Sazit non mi procurò lo stesso sentimento di simpatia e fiducia del primo momento. Sulle note di Schumann, evitando di assecondare la mia richiesta di uno specchio, il dott. Sazit mi consigliò degli sciacqui con acqua e curcuma e una alimentazione rigorosamente fatta di cibi freddi e ben frullati.

Tornai altre quattro volte dal dott. Sazit e ogni volta fu un calvario dolorosissimo e a nulla mi servì riconoscere i vari autori delle sinfonie che via via il dott. Sazit mi propinava al solo scopo di distrarmi e in tal modo – secondo lui – attenuare il dolore. Alla fine dell’ultima seduta dovetti riconoscere il buon lavoro di questo dentista dal fisico segaligno e fachiresco anche se persistevano in me molti dubbi, soprattutto su come e dove avrei potuto procurarmi una buona dentiera. Ma ancora una volta il dott. Sazit mi rassicurò dandomi il nome di un certo Hari, a sua detta un esperto di dentiere, la persona giusta a cui affidarsi con fiducia. Parlai anche con Sajjan di quel Hari e anche lui mi confermò che quel nome era una garanzia, di procedere senza esitazioni. Ma il problema era non se ma come trovare il Hari poiché sprovvisto di telefono e senza fissa dimora. L’unico indizio risultò essere il luogo dove lavorava e questo era il campo santo.

Mi recai laggiù due volte a vuoto e la terza lo trovai ma ad attendermi c’era anche una brutta sorpresa. Innanzitutto va detto che Hari era il nome del becchino del quartiere e in quanto becchino aveva anche il compito di cremare i defunti ma come mi disse lui stesso la prima volta che lo vidi – non tutti gli indiani si possono permettere di andare a Varanasi, città sacra per gli induisti – che insomma lui si prendeva cura degli ultimi, dei reietti e dei disperati e per questo servizio riceveva mensilmente un obolo dal comune e di quello viveva.

Hari diceva di avere quarant’anni ma ne dimostrava molti di più. Indossava un turbante nero e un elegante vestito color grigio. I suoi occhi, scurissimi, avevano una luminosità misteriosa. Quando mi accolse nel cortile del cimitero era un giorno umido e le mosche sembravano più nervose del solito. Espressi il desiderio di trovare una dentiera e lui mosse la testa affermativamente e così fece anche quando gli dissi di non poter pagare. Poi mi fece cenno di seguirlo e insieme ci recammo dietro a un piccolo tempio dove notai una salma avvolta in un telo bianco e una catasta di legna pronta per costruire una pira funebre, altre volte avevo sentito parlare di questa pratica della religione induista e seppur con la massima apertura e fiducia stentai inizialmente a trovare un nesso tra la mia richiesta e ciò al quale stavo assistendo.

Notando le piccole dimensioni del morto chiesi per curiosità chi fosse e Hari mi disse trattarsi di un certo Suan, uno dei tanti bambini dimenticati che sovente gli capitava di trovare agli angoli delle strade, abusati e poi trucidati ma a volte semplicemente morti di stenti a causa di infezioni e malattie. Mi sentii crollare il mondo addosso e scoppiai a piangere. E quasi il cielo si fosse accorto del mio inconsolabile dolore in quell’istante cominciò a piovere. Fu allora che Hari, pur vedendomi in difficoltà, senza fare domande, mi fece cenno di accelerare e in poco tempo riuscimmo a costruire la struttura sulla quale deponemmo la salma del povero Suan, prima di accendere il fuoco. Mentre osservavo le fiamme avvolgere il corpo del mio piccolo amico, Hari mi si fece accanto con in mano un logoro sacchetto di tela e mi disse tieni, questo è ciò che ho trovato insieme al bambino.

Lo afferrai con le mani tremanti e dentro vi trovai un libro dalle pagine ingiallite e assottigliate dal tempo, un libro di poesie del grande Tagore, una traduzione italiana del 1961, sapeva solo Dio dove Suan fosse riuscito a trovare un simile gioiello e che potente risonanza avesse quell’oggetto in quel momento della vita. Crollai in ginocchio e lì rimasi in totale devozione indifferente di fronte alla pioggia e al fumo, fino alla fine del rito. Solo dopo aver aiutato Hari nella pulizia del cortile gli chiesi della dentiera. Fu allora che mi venne indicato un punto del tempio dove Hari aveva steso sopra a un telo una montagna di protesi evidentemente cavate ai morti. Quando le vidi ci mancò poco che vomitassi e ci volle un po' prima che assecondassi le insistenze di Hari nel provare a mettere in bocca una di quelle protesi.

Ma lo feci, lo feci con la forza della disperazione, in fondo che cosa avevo da perdere ormai, mi sentivo così solo in quel posto assurdo e al tempo stesso sacro e sacra era la vita e quella che stavo vivendo era una imperdibile chance che la vita mi stava offrendo. E non volevo perderla.

Per questo le provai tutte quelle dentiere incrostate e quando ne trovai una che si agganciava bene al palato chiesi a Hari qualcosa per specchiarmi e lui tirò fuori da non so dove un pezzo di specchio ossidato e semi opaco e il volto che vidi lì dentro, che si sforzava di sorridere mi ricordò terribilmente un film con Alberto Sordi nella parte di un uomo con dei dentoni fuori misura che partecipa a una selezione per un posto di giornalista/annunciatore della Rai e grazie alla sua impeccabile preparazione sbaraglia tutti i colleghi e nonostante il suo sorriso fosse mostruoso e grottesco alla fine va in onda e il pubblico lo ama dal primo istante, un film che guardavo da bambino con mio padre che i romani non li poteva soffrire ma l’Albertone nazionale guai, quello lì non glielo dovevi toccare. A tutto questo ero giunto in quell’indimenticabile giorno, fatto più di sogno che di realtà, tra tristezze indicibili ed esaltazioni mai provate così intense prima di allora.

Ritornare in possesso di una dentatura, seppure artificiale e alquanto sproporzionata rispetto a quella originaria mi permise immediatamente di elevare il mio ruolo professionale passando dalla mansione di uomo di pulizie a quello di cameriere e responsabile dell’accoglienza di eventuali ospiti. La casa di Sajjan era molto ben frequentata, soprattutto da uomini di affari indiani che venendo da fuori città spesso si fermavano per qualche giorno. Imparai ben presto usi e consuetudini indiane, soprattutto riguardo al cibo. Una volta sola tentai timidamente e non senza orgoglio di introdurre qualche variante italiana nel menù di qualche pranzo ufficiale ma Sajjan mi disse subito di non insistere perché riteneva la tradizione culinaria indiana superiore a qualsiasi altra e quella italiana costituita da piatti scipiti e mai sufficientemente speziati. In compenso fui io a cambiare la mia alimentazione e sperimentai combinazioni di carne con frutta e pesce con burro di cocco che se non fossi venuto in India mai avrei conosciuto.

I pranzi e le cene erano sempre e solo cosa maschile, la moglie di Sajjan presenziava solo ed esclusivamente nelle occasioni di famiglia e queste capitavano molto di rado. Quando servivo a tavola collaboratori e clienti di Sajjan pur non capendo una parola delle loro conversazioni tutte rigorosamente in lingua indiana imparai a percepire le atmosfere, intendo con questo riferirmi agli stati d’animo e questi ultimi potevano variare moltissimo. Sajjan ogni tanto mi raccontava che con i suoi conoscenti spesso si parlava di politica e questo soggetto era capace di infiammare gli animi lasciando lunghi strascichi anche dopo pranzo quando gli ospiti si trasferivano in giardino per oziare intorno alla piscina.

Tra gli ospiti di Sajjan c’era spesso un certo Anand, un giovane uomo dallo sguardo tenebroso e dalla bocca carnosa. Ignoro cosa facesse in mezzo a quelle tavolate di panzoni molto più avanti negli anni rispetto a lui però una cosa ho potuto notare e questa era la presenza del signor Anand nella casa anche in assenza di Sajjan e il giorno in cui l’ho visto uscire seminudo dalla camera da letto padronale ho intuito qualcosa. Ogni martedì quando Sajjan usciva di casa e io sapevo dove andava arrivava Anand e la signora mi prendeva in disparte e mi allungava mille rupie facendomi gli occhi dolci. Così tra i suoi mille e quelli di Sajjan alla sera integravo il mio magro stipendio riuscendo a mettere via qualche soldo, non avevo progetti, non provavo alcuna nostalgia per l’Italia, vivevo alla giornata, mi bastavo e in qualche modo, per la prima volta nella vita, mi sentivo felice.

Un giorno di fine estate venne a pranzo un europeo, un inglese, un uomo di bella presenza e dai modi eleganti sempre vestito di lino bianco panna e con scarpe stringate chiuse nonostante la calura. Si chiamava Stanley, Sir Stanley per la precisione. La prima volta che mi vide apparire in sala da pranzo mi squadrò con una espressione mista tra incredulità e disprezzo e poi, sorprendendomi, mi fermò e mi chiese ma lei che ci fa qua? Dissi di essere a servizio in quella casa da alcuni mesi, di essere felice di fare quel lavoro ma interiormente di sentirmi un poeta.

—Un poeta? Il mondo ha sempre bisogno di poeti! —rispose con un sorriso. —Vieni avanti, fatti vedere, italiano? Ah, ma questo è bellissimo. Amo il tuo paese, per anni ho soggiornato a Taormina, avevo un amico laggiù, un certo Douglas, chissà come se la passa il vecchio Doug. Sei del nord? Di Milano? Si trova dell’ottimo gin a Milano e club privati con piscine in luoghi inaspettati, cosa darei per avere un po' di quel refrigerio, qui il caldo a volte è così appiccicoso. Per favore potrei avere ancora un po' di ghiaccio? Ma dimmi un po' ragazzo, perché non vieni a trovarmi, ho degli scritti di Tagore, tu conosci Tagore vero? Beh, sarebbe incredibile se fosse il contrario, noi siamo stati amici, purtroppo solo negli ultimi anni, venne a stare da me che era già vecchio, un uomo assai colto e fine. Vieni a trovarmi, dopo lascio al signor Sajjan il mio indirizzo. Io mi chiamo William Stanley, ma puoi chiamarmi tranquillamente Widdy.

Mi decisi ad andare a trovare Sir Stanley in un giorno tra i più caldi di cui si abbia avuto memoria a Delhi e questo nonostante uno piovasco breve ma intenso avesse fatto sperare in una tregua. La mia visita fu preannunciata da una telefonata del buon Sajjan che per l’occasione mi concesse un giorno extra di libertà. La residenza dell’anziano diplomatico era situata dall’altra parte della città, nella zona di Connaught Place e mi ci vollero tre ore di viaggio per raggiungerla. Era la prima volta che uscivo dalla “mia zona” e fui colpito dalla vastità e dalla varietà della città indiana, un unico cuore pulsante formato da milioni di esseri umani.

La villa di Sir Stanley era una costruzione candida in stile coloniale, a differenza del palazzetto di Sajjan non aveva muri di cinta ma solo una grande siepe che delimitava il giardino. All’interno, al posto della foresta c’era un prato immenso finemente tagliato e in fondo spiccava un gazebo di legno rialzato da terra. Varcato il confine della proprietà vidi venirmi incontro due cani labrador nerissimi inseguiti da un uomo a torso nudo non meno nero di loro. Sulla testa portava un turbante bianco che creava un forte contrasto. Quando mi fu vicino notai che il suo petto era completamente lucido dal sudore.

Chiesi del padrone di casa e fui immediatamente invitato a raggiungere il retro della casa. Il contatto con la morbidezza del manto erboso donava una irresistibile sensazione di piacere. Raggiunta la zona con il gazebo scoprii la presenza di una vasca d’acqua ricoperta da un mosaico verde azzurro e due altri uomini neri a torso nudo, tutti vestiti con lo stesso tipo di turbante e pantaloni di lino sventolante che davano aria di fresco. Quasi non mi accorsi che sul bordo della piscina c’era Sir Stanley sdraiato. Completamente nudo. E anche quando gli fui accanto non si mosse lasciando che io indugiassi nell’osservazione del suo corpo, un fisico ascetico, senza un filo di grasso, pelle abbronzatissima, il pube curiosamente rasato e quel pene enorme che certo non passava inosservato, come un cetriolo appoggiato sulle gambe.

Uno dei cani improvvisamente si mise ad abbaiare e fu allora che Sir Stanley aprì gli occhi e la prima cosa che fece fu sorridere per poi dire subito dopo che bella sorpresa, non capita a tutti di venire svegliati da un poeta. Detto ciò, con incredibile elasticità si alzò in piedi e rimase in posa plastica per qualche minuto, sentii il suo respiro, pensai a qualche pratica yoga come mi era capitato di vedere in altre occasioni. Poi Stanley fece un piccolo cenno con la mano e subito uno dei suoi ragazzi si affrettò a porgergli una vestaglia di cotone sulla quale spiccavano ricamate le iniziali del suo nome.

—Gradisci una tazza di tè?
Ci spostammo a quel punto verso il gazebo dove c’era una tavola riccamente imbandita con caraffe di succo di frutta in varie tonalità di giallo e arancio oltre a tegami con pancetta arrostita, omelette e strani fagioli in salsa rossa. Sopra ad una elegante alzatina facevano bella mostra sandwich con cetriolo e altri al pollo e insalata.
—Prego —disse Sir Stanley, grattandosi non proprio elegantemente tra le gambe prima di afferrare il suo bicchiere di succo. —Sono molto contento di vederti. Hai fatto bene a venire. Quella volta che ci siamo visti da Saj mi chiedevi di Tagore, beh allora io ti dico che stavamo spesso qui, all’ombra di questo gazebo, il mio caro Gurudev, soprattutto negli ultimi tempi, amava dipingere qui i suoi acquarelli, una passione che avevamo in comune. Però lui amava soggetti e tinte scure e io solo più tardi ho capito perché, lui non aveva bisogno di luce, lui era luminoso in sé, lui emanava luce, con il suo sorriso e la sua presenza.

—Non sapevo che fosse anche pittore esclamai io incuriosito sbocconcellando un delizioso tramezzino con cetrioli e osservando i due cani liberi di tuffarsi nella vasca poco distante.
—Adorabili bestiacce —fece Stanley sorridendo, mentre uno dei suoi camerieri si preoccupava di versargli del tè caldo.
—Ma era già anziano, intendo dire Tagore, quando l’ho conosciuto. E mi dispiace, avessi potuto incontrarlo prima... ma è stato giusto così. Un privilegio in ogni caso. Lui godeva non solo del giardino ma soprattutto della mia collezione di libri, moltissimi libri di Byron e Shelley e altre edizioni rare, impossibili da reperire in India. Li divorava come tu stai facendo con i miei sandwich. Ma Saj ti dà da mangiare?
Ridemmo.

Più tardi ci trasferimmo nel salotto di casa, anche Sir Stanley aveva una tigre ma nel suo caso in forma di tappeto ricavato dalla pelliccia di un vero animale con la testa imbalsamata. Mi fece accomodare sopra ad un divano super comodo e diede ordine ad uno dei servitori di seguirmi sempre con l’alzatina dei sandwich in modo che potessi sempre rifornirmi ogni qual volta ne sentissi il bisogno. Accanto alla porta d’entrata notai un porta ombrelli ricavato da una zampa di elefante svuotata.

Sir Stanley stava seduto davanti a me, con la sua vestaglia candida e intonsa mentre io ero riuscito a sbriciolarmi addosso e forse a fare anche peggio a causa della maionese copiosa nascosta sotto le uova sode. Non c’era l’ombra di un libro in quel salotto, solo un enorme quadro di un ufficiale inglese in divisa che insieme alla tigre imbalsamata non mi perdeva di vista, e in fondo tra tavoli e tavolinetti un grande armadio-vetrina pieno di fucili e altre armi da fuoco. Notando il mio sguardo spaziare in giro per la stanza Sir Stanley cominciò a guardarmi con fare interrogativo e poi disse:

—La mia casa è sempre stata ben frequentata. Uomini di affari, politici. Anche il Governatore venne una volta a un tè. Non solo poeti. Poi si andava a caccia di tigri nella foresta. Ah, bei tempi quelli. Ma era un’altra India. Non è rimasto nulla. Ora mi restano solo i cani e le mie amate orchidee. Ne ho creata una che porta il mio nome e recentemente la RBSE (Royal Botanical Society of England) l’ha inserita nella lista ufficiale. Sono le mie piccole soddisfazioni. Non mi interessa altro. E tu? Quali sono i tuoi programmi? —mi domandò a bruciapelo, esibendo uno di quei suoi sorrisi, tra l’ironico e l’annoiato.
Io gli risposi onestamente dicendo che sentivo che la mia esperienza a casa di Sajjan stava volgendo al termine ma non avevo ben chiaro cosa fare. Gli raccontai anche alcuni episodi della mia vita precedenti al viaggio in India e anche dei mesi vissuti in strada, con Saud e gli altri bambini.

—Parrebbe un percorso iniziatico —disse Sir Stanley, sinceramente interessato alle mie storie. —Perchè non vai a Goa? Laggiù ci sono tanti ragazzi come te e si pratica dell’ottimo yoga. Anche le spiagge non sono male. Penso che ti farebbe bene trascorrere un periodo da quelle parti e poi è pieno di ashram, certo non tutti i maestri sono illuminati ma qualcuno di valore ancora c’è.
Poi rivolgendosi ad uno dei suoi servitori chiese qualcosa in lingua Hindi e tra loro nacque per un istante una breve conversazione alla quale assistetti incuriosito.
—Maihguru! Sì, qualche volta capita anche lui a Goa, me lo ha appena confermato il mio caro Siggy. Conosci Maihguru? No? Ah, ma tu devi conoscerlo! Assolutamente.
—Ma quanto dista Goa da qui?
—Intorno ai 2000 km.

—Agh! Certo non è dietro l’angolo. Non riesco a immaginare di fare un simile viaggio. E poi i soldi…
—Sciocchezze. Pensa piuttosto a quello che sei riuscito a fare fino ad oggi!
—In effetti…
—Ecco, bravo, non perdere di vista le cose essenziali. Lascia che parli io con Mai, il modo per mandarti a Goa si trova. I soldi non devono essere un problema.
—In effetti è tutto relativo.
—Bene. Vedo che lo spirito dell’India ti sta ben forgiando. Ma ora mi è venuto caldo e ho bisogno di fare un tuffetto. Tu vieni con me?
—Veramente non ho pensato di portare il costume da bagno, non credevo che…

—Il costume non serve — e così dicendo Sir Stanley si alza in piedi lasciando cadere la vestaglia sul divano e rimanendo completamente nudo davanti a me.
—Io la ringrazio Sir Stanley, anzi signor Widdy, ma credo sia ora di rincasare. Oggi sono in arrivo degli ospiti e…
—Quali ospiti? Saj mi ha detto che ti avrebbe dato tutto il giorno libero.
A quel punto virai lo sguardo altrove per sfuggire al potere ipnotico di Sir Stanley che stava immobile come un serpente davanti alla sua preda e incappai nel sorriso dei tre giovani servitori che si godevano la scena. Per un attimo mi sentii perduto. Fui salvato dai due cani che proprio in quel momento si misero ad abbaiare e attraversarono il salotto al galoppo diretti in giardino, rompendo di fatto la tensione spessa che si sarebbe potuta tagliare con un coltello.

—Non insisterò —disse a quel punto Sir Stanley, compiaciuto dall’esibizione del suo corpo flessuoso e abbronzato e sufficientemente appagato dal mio turbamento. —Salutami Saj e tu, non dimenticare Goa e il grande Maihguru.
Dopo essersi educatamente congedato da me lo vidi correre attraverso il prato e lanciarsi in acqua con l’agilità di un giovinetto.

Lasciai Delhi la sera del solstizio di primavera diretto a sud. Il mio cuore palpitante era pieno di gratitudine, la mia anima piena di fiducia e curiosità, pronta a lasciarsi stupire da quello che la vita aveva ancora in serbo per me. Viaggiai in treno fino a Jainpur e là ricevetti il primo dono del cielo, una massa di persone completamente ricoperta di pigmenti colorati salì sul treno occupando tutti i posti disponibili, altri, scoprii lungo il percorso, rimasero aggrappati esternamente, altri ancora si sistemarono sul tetto. Seppi così per la prima volta della celebrazione del Holi festival, un rito antico di assoluto fascino, milioni di persone che si riversano nelle strade di tutto il paese in mezzo a nuvole di colore, canti e danze. Mi venne in mente il look nero della gente nella metropolitana milanese e provai sincera compassione per loro.

Ogni paese del mondo avrebbe bisogno almeno di un Holi festival all’anno per ricevere una sferzata cromatica. Non mi fu permesso sottrarmi e la mia testa divenne presto turchese mentre busto e braccia acquistarono un nuovo carattere con l’amato viola combinato con arancioni e gialli. Finalmente fui un pappagallo della foresta e forse per questo non mi trattenni dal cantare, svolazzando da un vagone all’altro per liberare la mia gioia e condividerla con gli altri.

A Mumbai, la capitale dell’India, il treno si fermò in una rimessa per una urgente opera di manutenzione. Le carrozze furono subito circondate da venditori ambulanti di cibo e bevande ma arrivò la polizia per evitare che salissero sul treno. Per recuperare il tempo perduto il viaggio riprese a velocità spedita e in piena notte arrivammo a Puna dove moltissime carrozze furono liberate lasciando spazio a famigliole con bambini, coppie di anziani con animali a seguito, uomini di affari dalle camice bianche tutte alonate sotto le ascelle e con scarpe a punta decisamente troppo grandi per i loro piedi.

Mi addormentai e svegliai decine di volte. In una di queste, mi ritrovai nel mio scompartimento una famiglia in abiti tradizionali, il padre era Sajjan spiccicato e la donna accanto avrebbe potuto tranquillamente essere sua moglie Arya. Quello che mi colpì fu però la somiglianza dei loro due figli con Suan e sua sorella Mahika. Fui tentato di chiedere loro qualcosa ma mi trattenni. In quel momento entrò il controllore, non c’erano dubbi era il dott.Sazit travestito. Nel corso del viaggio li rividi tutti e capii che mi stavano seguendo, che non volevano lasciarmi o forse desideravano solo proteggermi. Loro erano ormai diventati parte integrante del mio mondo interiore, come una nuova costellazione.

Un centinaio di miglia prima di giungere a Goa ci fu un altro guasto. Il treno si fermò all’improvviso in una zona di risaie. Vidi il sole sorgere nel riflesso dell’acqua. Molti passeggeri non esitarono e scesero dal treno per rinfrescarsi, pregare o semplicemente lavare la frutta. Nel frattempo nello scompartimento era cambiata completamente la scena, ora di fronte a me avevo un fachiro seminudo, due giovani soldati e una vecchietta con una enorme valigia dalla quale colava un liquido odoroso non meglio identificato. Arrivare a destinazione fu doloroso perché dovetti lasciare il treno con tutta quella preziosa umanità alla quale sentivo ormai di appartenere perchè io non conoscevo altra India che quella di Delhi, mentre quel viaggio infinito mi aveva messo di nuovo a confronto con l’ignoto.

Alla stazione di Goa ad attendermi trovai un cane. In tutta la mia vita non avrei mai pensato di avere un cane così come non avrei mai immaginato di ritrovarmi a Goa. Forse bisognerebbe soffermarsi di più sull’impossibile, perché poi l’impossibile succede e ci sorprende. Shiva, questo è il nome che gli diedi immediatamente dopo averlo letto sulla copertina di un vecchio giornale, era un meticcio di mezza taglia dal manto curiosamente tigrato. Avevo cercato inizialmente di scansarlo, come viene naturale fare coi randagi, poi avevo notato che non smetteva di puntarmi e di cercare le mie attenzioni, fino a quando ci siamo guardati negli occhi e quell’attimo è stato fatale.

Non avevo mai neppure pensato di entrare in un ashram, per lungo tempo non ne capivo il senso, mentre Giacomo il mio amico lui li conosceva bene quei mondi, ne aveva fatto esperienza e non perdeva occasione di tesserne le lodi. Il mio esordio non fu dei più promettenti, il ragazzo tedesco che raccolse la mia iscrizione ebbe da dire sulla presenza di Shiva e ci fu un momento in cui pensai che quella fosse la mia salvezza e provai sollievo all’idea di venire rifiutato poi, all’improvviso la situazione si ribaltò, intervenne una ragazza australiana di bianco lino vestita con una capigliatura rasta e prese in mano la situazione e così fui accettato.

Pareva un’altra India quella di Goa, ripulita della miseria, dei mendicanti, dei bambini di strada in favore di una massa eterogenea di giovani occidentali decisamente pasciuti ed eleganti, tutti con il pallino dell’illuminazione, sicuramente senza il problema della sopravvivenza. Fui alloggiato in una casetta prefabbricata di legno insieme ad altri 5 ospiti e fornito di un libretto con il calendario e gli orari delle varie pratiche, dallo yoga alla meditazione. Tutto era fortunatamente gratuito, compresi i pasti rigorosamente vegetariani, in cambio veniva richiesto solo un aiuto nelle cucine e la pulizia regolare degli spazi comuni. Mi buttai sulla mia branda insieme a Shiva e cominciai a sfogliare svogliatamente il libretto. Nel calendario spiccava una data ed era quella dell’incontro settimanale con Maihguru. Realizzai subito trattarsi di quello stesso giorno e quella scoperta provocò una inaspettata emozione dentro di me.

Pareva una versione ridotta del festival di Woodstock ma senza pioggia. Tutto il resto c’era, i cappelloni, le chitarre, i gruppetti avvolti in nuvole di cannabis, un senso di fratellanza diffuso, le danze spontanee, i canti, le preghiere. Mi ritrovai in un prato enorme circondato da cespugli fioriti. Intorno a me ci saranno state almeno mille persone. Mi sforzai di non essere troppo giudicante anche se c’era qualcosa lì in mezzo che non mi convinceva, qualcosa di forzato, di fintamente armonioso. Mi concentrai ripensando a Stanley e alle sue raccomandazioni ma continuai lo stesso a chiedermi se quello fosse il posto giusto per me... oppure no.

Immerso nei miei pensieri venni risvegliato da uno scroscio di applausi, alzai lo sguardo e vidi l’agognato guru a pochi metri da me, aveva un turbante dorato e una barba lunghissima e folta che contrastava con il volto scuro. Nonostante la distanza riuscii a intravvedere i suoi occhi scintillanti e il suo sorriso benevolo. L’impatto fu molto forte, mi sentii avvolgere da una forza invisibile che mi fece crollare ogni tensione. Quando Maihguru cominciò a parlare – si trattava per lo più aneddoti e parabole dalle note umoristiche – fui tra i primi a ridere di gusto e dopo altre battute fui seguito da quelli accanto a me, un minuto dopo tutti ma proprio tutti si stavano sbellicando dalle risate. A furia di ridere si creò un clima così leggero e gaudente come mai nella vita avevo provato prima.

In mezzo a questa esilarante atmosfera mi voltai e nel guardarmi intorno vidi un ragazzo dalla testa rasata tipo bonzo e mi parve di riconoscere Giacomo. Guardai meglio e vidi accanto a lui una ragazza con i capelli lunghi raccolti a coda di cavallo e con mio grande stupore riconobbi senza dubbio la mia amata Chiara. Accanto a quei due volti noti – che già sarebbero bastati a emozionarmi sufficientemente ne riconobbi altri due o tre, accanto a Chiara per esempio vidi Antonio che noi chiamavamo “Dracula” perché aveva i canini sporgenti. Notai che Chiara e “Dracula” ci davano dentro con le effusioni e non so come mi venne in mente una sceneggiata che avevo fatto anni addietro a Chiara proprio a causa sua, secondo me la tampinava ma lei negava di essere interessata.

Invece eccoli là, pensai tra me e me. E anche Giacomo eccolo là, chissà se ha poi trovato il suo Nirvana? Ancora oggi mi piacerebbe sapere che ne era stato di lui il giorno dell’incidente. E Chiara? Quante storie avrei da raccontarle, forse potrei anche mostrarle la mia dentiera coi dentoni. Mi venne da ridere. Rimasi a guardare nella loro direzione tentennando ancora un po' fino a quando sentii un profondo batticuore e uno strano calore diffondersi in tutto il corpo. Fu in quel momento che capii che quelle persone che avevo riconosciuto appartenevano al passato, un tempo che non sarebbe mai più tornato. Quello che era stato, era stato giusto per ognuno di noi. Accarezzai il fidato Shiva e decisi in quell’istante la direzione che avrebbe preso la mia vita.