Quante lezioni avrebbe potuto dare Totò agli italiani di oggi. Lezioni di tolleranza, di amicizia, di solidarietà, di realismo, di disincanto. Lui, Totò, il più conosciuto, il più idolatrato per decenni da un intero popolo e che solo dopo morte ha avuto il giusto tributo dai critici, “vil razza dannata”; lui, ma anche suo alter ego, Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, che viveva nell'ombra e nella riservatezza.

Eppure questo ineguagliabile personaggio della cultura (non solo del cinema) italiana ha dovuto aspettare che, per essere apprezzato, si spegnessero le risate che accompagnavano le sue folgoranti battute, che uscisse dal recinto della commedia, lui che, con quel volto asimmetrico, avrebbe potuto essere una maschera tragica, come è stato purtroppo poche volte.

Dagli inizi della sua carriera, cominciata quando gli altri bambini pensavano a giocare, tra i vicoli poveri della sua Napoli, e lui che voleva dimostrare a tutti d'essere capace di attirare l'attenzione con la sua innata comicità.

Ma sarebbe ingiusto ridurre il Totò artista ad un principe della risata (che forse, lui che rivendicava la sua ascendenza molto più che nobile, regale, non amava troppo) perché ha impresso la sua orma su intere generazioni, anche quelle di cui facevano parte intellettuali snob che, alimentandosi di cinefilia, forse non potevano ammettere che, se c'era da ridere, si andavano a sedere in platea a sbellicarsi nel seguire le strampalate elaborazioni “filosofiche” di Totò, che gli sceneggiatori costringevano ad adattarsi a cliché di grana grossa, che ricalcavano la quotidianità degli italiani, che, negli anni '60, pensando di avere richiuso le ferite della guerra, vivevano cullando i loro sogni.

Totò, in fondo, era quel che la gente voleva, diventando, senza fare avvertire lo stacco da un personaggio all'altro, il ladruncolo (mai violento e spesso imbranato), il padre di famiglia (vessato dalle sue donne, alle quali augurava il peggio, ma solo per un istante), il funzionario perseguitato dai superiori, il rottame di una società che correva troppo in fretta per le sue gambe non certo da atleta.

Ma Totò era un catalizzatore di incassi e siccome anche lui “teneva famiglia” interpretò decine di film anche di infimo ordine, necessari non a lui, attore, ma all'altro, il Principe, che, nel silenzio e nella riservatezza, aiutava tantissima gente della sua Napoli, quella più povera, quella più disperata. Un canone doppio per un solo uomo che, nel suo essere pubblico, incarnava il “bersaglio” della società arida e cattiva, ma che riusciva a venirne fuori sempre, magari ammaccato, magari più povero, ma con la forza della dignità.

Certo, il suo mestiere era quello di fare ridere, ma senza mai cadere nel degrado, senza mai essere sul lato veramente oscuro della legge, a meno di interpretare un ladruncolo, un piccolo truffatore, qualcuno capace di fare tutto per potere pranzare o cenare, non necessariamente nella stessa giornata.

A questo artista di elogi postumi ne sono arrivati tanti, come accade quando interviene la morte a fare riflettere sullo spessore di una persona. Quella morte che, per lui, era una “livella”, facendo giustizia di cose malevole e artificiosi atteggiamenti.