Ha uno sguardo così risoluto che verrebbe voglia di farsi condurre da lui nelle danze della vita. Potesse orchestrare le nostre giornate, Roberto Tedesco, ne vedremmo delle belle.

Giovanotto splendido, supera gli elogi dello specchio ed è concentrato sul districare i viluppi dell’animo umano. Legge, riflette, traduce in coreografie.

Nel 2021, dopo dieci stagioni con Aterballetto, si è licenziato:

Sì, direi che ormai sono un ex danzatore e mi piace il mio ruolo di adesso, pensarmi come una guida. Non ho più il desiderio di andare in scena.

Anche se da poco ci sei tornato.

Dopo quattro anni. Ho danzato per un progetto interessante di Aterballetto che si chiama Impromptus. Arie, danze e improvvisazioni per due danzatori e due musicisti. Cristoforetti, il direttore, ha pensato a me e io ho accettato per sfidare il timore del ritorno sul palcoscenico che subentra, credo, naturalmente.

Com'è andata?

Benissimo. Due performance a Ravenna e a Reggio Emilia, a distanza di un giorno l’una dall’altra. Avevo veramente un'ansia da prestazione incredibile, che mi stava stretta. Ripetevo a me stesso: “Hai ballato per vent’anni, in tutto il mondo, per dieci nella compagnia più importante d’Italia. Devi superare la paura”. Ed è stato come se avessi danzato fino al giorno prima. Una sensazione piacevole che, nelle ultime occasioni, non provavo, per lo stress.

Da molto giovane ero freddissimo e andavo in scena senza nessuna preoccupazione. Con emozione, ma non di quelle che paralizzano. Invece più progredivo nella carriera e più diventavo bravo - perché diventi più bravo, esperto, maturo - e meno ero sereno.

Ora sei a posto per altri quattro anni?

(Sorride n.d.r.) Mi piace essere dall'altra parte. Gli do tanta importanza e mi dà tante soddisfazioni.

Sempre avuto il temperamento della guida?

È una domanda che mi faccio anche da solo. Sì. Per carattere, sono più adatto al ruolo di coreografo che a quello di danzatore. Sono preciso, disciplinato, avendo una visione esterna di quello che deve accadere. Sono una guida, e apprezzo questo termine. Affidabile perché uso un metodo che mi porta a ottenere un risultato senza imprevisti, sia in condizioni ottime, che disastrose (capita).

Sono super quadrato, a volte anche tanto chiuso, e ho una visione chiarissima. Certo, strada facendo le cose possono cambiare, magari una convinzione iniziale si può trasformare, però di solito so esattamente quello che voglio e mi pongo un obiettivo giornaliero per fare in modo che alla fine ciò che ho immaginato si materializzi.

Per i danzatori è faticoso o d’aiuto?

Dipende. È d'aiuto solo se lo accetti. Se non lo accetti è frustrante. Mi succede quotidianamente di avere davanti delle persone che fanno fatica a sopportare tutte le mie regole. La sensazione dall'interno è totalmente diversa ed è giusto averla, però è singola. Mentre io sono fuori e vedo le sensazioni messe insieme. Nel momento in cui tu, danzatore, accetti che c’è chi ha la responsabilità si riesce a lavorare in maniera sicuramente dura che, però, a lungo andare porta il beneficio. Se invece ti scontri con questo approccio diventa faticoso l’intero processo.

Non ti puoi permettere di dire "io farei così” sennò quell'altro si permette pure e il mio ruolo passa in secondo piano. Non metto in dubbio che ad alcuni serva quel "io farei così, io farei così”, ma non è il mio caso.

Hai una compagnia?

No, ho un grande sogno. Ho danzato da professionista per dieci anni, mi piacerebbe fare il coreografo freelance per dieci anni e a quaranta avere la mia compagnia. Ne ho ancora 33, mi posso godere la libertà altri sette anni.

Saranno beghe…

Quando mi confronto con persone che hanno la propria compagnia quasi tutti mi consigliano di lasciare perdere.

Dove sei nato?

A Paola, ma ho vissuto fino ai diciassette anni nel comune di Amantea sulla costa tirrenica. In un paesino che si chiama Campora San Giovanni, 6000 abitanti, proprio sul mare. A undici anni ho iniziato a studiare danza in una delle scuole private del paese, facendo stage estivi con Eugenio Scigliano ed Eugenio Buratti che erano insegnanti del Balletto di Toscana ed ex danzatori della compagnia. Io ero a un livello bassissimo, da scuoletta di danza, però hanno visto un maschietto di talento, con delle doti fisiche.

E un aspetto smagliante.

Poteva aiutare. Mi hanno detto: potresti fare il ballerino di mestiere ed è stato un incoraggiamento. Io, già da piccolissimo, lo sognavo. Anche se di un altro genere perché ero fissato con l'hip-hop, con i video musicali. Guardavo quei film americani con la break dance, ero da street, diciamo, ma la vita m'ha portato a studiare tutt’altro. Dai diciassette ai diciannove anni, sono andato a Firenze dove Cristina Bozzolini mi ha dato subito l'opportunità di danzare con lo Junior BDT.

È stato fantastico perché, da studenti, ci ha insegnato il mestiere, come si vive il teatro, facendoci andare in scena tanto, a livelli alti. Già allora ho ballato coreografie di Mauro Bigonzetti, Fabrizio Monteverdi, Francesco Nappa, Scigliano, Buratti. Roba seria, insomma. È stato bello e formativo.

Il classico non è mai stato un mio forte, ho iniziato a studiarlo seriamente solo tardi, invece il contemporaneo mi è venuto abbastanza naturale.

Dai 19 anni Aterballetto?

Sì, fino ai 29. Con la direzione della Bozzolini e poi di Cristoforetti.

Il primo esperimento coreografico?

S’intitolava Prendimi per mano ed era un trio per tre colleghi di Aterballetto, Valerio Longo, già grandissimo quando ha fatto questa cosa con me e per me, Damiano Artale e Giulio Pighini. Dieci, dodici minuti su musica di Chopin.

Con la direzione di Cristina Bozzolini, ogni anno c'era la serata in cui i giovani danzatori della compagnia si cimentavano nella coreografia.

Avrei voluto partecipare subito, però mi sentivo piccolo, non volevo dirigere i miei colleghi e ho temporeggiato.

La prima creazione da coreografo, smessi i panni di ballerino?

Mi considero un po' ufficialmente coreografo da quando ho avuto una grande occasione, nel 2021. Alla serata dei giovani coreografi di Aterballetto, nelle ore rubate alla giornata di prove della compagnia, tutto si fa in maniera molto superficiale. Nonostante questo, con un assolo per un collega, vengo selezionato al concorso coreografico di Hannover, uno dei più importanti d’Europa.

Entriamo in semifinale, ma non in finale, quindi io mi siedo in platea, guardo i dieci pezzi finalisti e mi dico: "È giusto che tu non sia lì” perché a ognuno, forse tranne uno, riconoscevo un valore maggiore rispetto al mio. Più spessore, più ricerca. Son tornato a casa da quell'esperienza con una “lista della prossima volta”.

Qualche punto della lista?

Numero uno, non fare la coreografia con i colleghi che sono poco interessati e ti fanno un favore. Piuttosto trova due studenti bravi che sono lì solo per te. E infatti sono andato nella scuola di Michele Merola a Reggio Emilia, che ha tantissimi allievi e ne ho selezionati due: con loro rimanevo a provare ore, dopo i miei impegni professionali. Sedicenni, diciassettenni, quindi avevano fame di danza, no?

Con quel pezzo, per la seconda volta di fila, vengo selezionato per lo stesso concorso di Hannover dove prendo il premio della critica. E Stephan Thoss, coreografo tedesco molto famoso, direttore della compagnia di danza del Teatro di Mannheim, mi dà l'opportunità di andare a rimontare quel duetto, con danzatori della sua compagnia. È successo due anni dopo perché c'è stato il Covid di mezzo.

Considero quel pezzo la mia prima coreografia con il metodo che utilizzo ancora oggi.

Come si intitolava?

AGR Duet, dalle iniziali dei due danzatori e del coreografo.
Per Mannheim l'ho poi trasformato in Line-Up che significa allineare. La coreografia era strutturata a livello geometrico con l'uomo che danzava intorno e la donna che stava sempre al centro, finché il giro non li portava ad allinearsi e da quel momento partiva la seconda parte in cui erano una cosa sola. Mi piaceva l’idea che impiegassero del tempo per allinearsi.

A giugno hai inaugurato il festival Nutida, con un trittico, al Castello dell’Acciaiolo di Scandicci.

È la prima volta che ho fatto una serata d‘autore tutta mia!
We Are Our Roots, radici intese come provenienza, bagaglio, albero genealogico, tradizione, famiglia, è un un assolo per una danzatrice che sono fortunato ad avere nella vita - non possedere - perché a oggi è l'unica che ha, spero, un po' sposato il mio linguaggio. Laila Lovino. Dove decido io, Laila c’è. Pugliese, 26 o 27 anni, da cinque mi sta dietro. È la mia musa, mi sopporta e, credo, mi voglia anche bene.

La ricambi?

Assai e le devo tanto perché è talmente adatta al tipo di lavoro che faccio col corpo che attraverso lei ho capito, approfondito, trovato tanti aspetti che riporto su altri danzatori che mi sono meno vicini. In We Are Our Roots Laila è accompagnata dal vivo da Luca Pizzetti, che ha composto apposta la musica e suona l’handpan, strumento a percussione di materiale ferroso, uno dei più rari e più recenti: inventato nel 2000 da degli svizzeri per l’utilizzo nelle sedute olistiche. Il nome originale, brevettato, è hang. Sembra un disco volante.

Lo strumento rappresenta il bagaglio che a qualsiasi età, ma soprattutto in un’età matura, ti porti dietro e ti condiziona, condizionerà sempre e poi lo tramanderai a qualcun altro, in maniera volontaria o involontaria. Magari scopri che hai una fobia perché ce l’aveva un tuo antenato.

Gli altri due pezzi?

Sono una commissione di Nutida. Saverio Cona, direttore artistico con Cristina Bozzolini, mi ha chiesto di creare un assolo, Rebecca, per Rebecca Intermite, giovanissima ex danzatrice del Balletto di Toscana. Ultimamente si sente parlare molto di resilienza, non se ne può più della parola, e con questo lavoro vorrei indicare il contrario della resilienza perché, quando se ne sente l’esigenza, è altresì un atto di coraggio chiedere una mano.

È una danza ricca, carica, difficile che arriva a un culmine, poi c’è un crollo e diventa affaticata: Rebecca entra nel pubblico, cerca un contatto fisico e non ha paura di chiedere aiuto. La musica è delicata alla fine, elettronica all’inizio. Mi piace la resilienza rilanciata in questo modo.

E il terzo?

Simbiosi. Mi ha dato un sacco di soddisfazioni perché in questi due anni 2023-24 è andato in scena già venti volte. Tante, per me, che non sono ancora così affermato. Potrei dire che fa parte del mio repertorio, se lo voglio riprendere è lì.

Simbiosi nasce da una scoperta, un po' banale, che ho fatto leggendo quello che scrivono gli psicologi. Io avevo sempre pensato che definire due persone in simbiosi avesse una connotazione positiva. E invece una relazione simbiotica è malsana perché c'è sempre uno dei due che prevale e l'altro che si annulla per amore e che, a un certo punto, si rende conto che non sta vivendo la vita che vorrebbe vivere e non è la persona che vorrebbe essere.

Da che volevo fare un pezzo sulla simbiosi per come la conoscevo io, ho cambiato idea.

Ho scelto una coppia composta da due donne, ho diviso il pezzo per fasi e scelto brani molto vari.

Prima fase: il colpo di fulmine con una musica da “farfalle nello stomaco”. Seconda fase: la decisione di intraprendere un viaggio insieme. Siamo innamorati, andiamo. Chiara a livello coreografico con un sacco di parti in unisono. Terza fase: l’intimità profonda dove non c'è più imbarazzo per nessun aspetto, nemmeno gli odori. Resa con gli intrecci, i corpi che si toccano. Una quarta fase con l’assolo di Laila che comunica il disagio della relazione simbiotica.

Però cosa succede, dalle letture che ho fatto, nelle relazioni simbiotiche? Subentra una dipendenza affettiva. E allora il finale, sapendo questo che vi sto raccontando, per me è chiarissimo, e non voglio mettere i sottotitoli perché ognuno lo interpreti come vuole: si urlano contro, poi si girano verso l’uscita e mano nella mano con questo atteggiamento un po' costretto vanno via insieme.

Progetti?

Il 28 agosto in Basilicata, nel parco archeologico di Venosa, dopo l’anteprima a Nutida, ci sarà il debutto di We Are our Roots, nel cartellone dell’Art Fest organizzato da Michele Merola (ha una compagnia di dieci danzatori che si chiama MM Contemporary Dance Company e fa tantissimi spettacoli) e Carmen Vella. Merola mi ha nominato coreografo residente per il triennio 2025-2027 e ogni anno presenterò una nuova creazione: mi pareva carino dargli un debutto.