Quando parliamo di fragilità facciamo riferimento a qualcosa che può rompersi, spezzarsi. Qualcosa di fisico ma anche qualcosa di non fisico, per esempio di tipo psicologico. Questa condizione non sempre è correlata ad un’immagine positiva: se il riferimento sociale prevalente è l’uomo forte, competitivo, coraggioso è chiaro che l’attributo fragile va a definire una certa predisposizione alla malattia, alla debolezza morale, alla paura, alla timidezza… Se è vero che questo è quello che il modello social prevalente ci porta a vedere, è anche vero che esiste una connotazione diversa di fragilità legata ad una certa sensibilità, empatia, flessibilità, elasticità, plasticità. Mi è sempre piaciuta un’affermazione di Vittorino Andreoli: “la fragilità rifà l’uomo”. Questo perché questa condizione permette all’uomo di prendere coscienza dei propri limiti, dei propri difetti e in questo modo diventare umile.

Ho fatto questa premessa per parlare di una realtà che si muove in modo opposto rispetto al sistema dell’arte e che per tanti aspetti esprime la condizione di cui sopra. Si tratta di do ut do, un contenitore di iniziative culturali dell’Associazione Amici della Fondazione Hospice che ha lo scopo di raccogliere fondi a favore della Fondazione Hospice Seràgnoli Onlus che opera con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita e alleviare la sofferenza dei pazienti con malattie inguaribili o in fase avanzata. Ogni due anni do ut do propone eventi dedicati all’arte, al design e alle eccellenze della cultura coinvolgendo artisti, gallerie, istituzioni, imprese, collezionisti. Alla base di questo mondo c’è il “dono”, le opere vengono donate. Gli artisti, le gallerie e i collezionisti se ne privano per destinarle a un fine altamente umano. L’intera collezione è costituita come “atto d’amore”. Si dona un’opera non per avere qualcosa in cambio, non si da per ricevere ma si da per il solo gusto di dare. Ed è un qualcosa di straordinario.

“La "fragilità" non è altro che la "agilità dei frammenti". Agilità dell'umana fragilità. L'abilità della labilità (fallabile, disabile, domabile, "super-abile", permeabile, malleabile, quindi amabile, con cura come l'inequilibrio umano e la sua bellezza. Diffido sempre di una persona tutta d'un pezzo... E quando la vedo a pezzi (siamo nell'Età del pezzimismo) non posso non dire: do! Nota musicale generosa e generante ad arte”, Alessandro Bergonzoni.

Tema della nuova edizione di do ut do è appunto la fragilità e in anteprima, in occasione di Artefiera 2023 è stata presentata l’opera Fragil, un’imponente opera in vetro di Joan Crous. La grande scultura è la composizione di sei opere uniche realizzate in fusione di vetro con interventi manuali dell’artista che ha dichiarato: “Il vetro è sicuramente uno degli elementi che ci accompagna nella nostra quotidianità. È un materiale che presenta due aspetti: la durezza ma anche la fragilità nel suo insieme. Un vetro può durare mille anni ma se cade a terra dura un secondo. Anche l’uomo è un po’ così… L’uomo dura mille anni nel concetto della sua durezza ma ha anche tantissime fragilità. E con do ut do abbiamo voluto rappresentare questo doppio concetto”.

Alessandra D’Innocenza, fondatrice e presidente di do ut do, ha individuato questo tema proprio incontrando e studiando il lavoro di Joan Crous: “Siamo fragili, tutto è fragile intorno a noi: uomini, animali, piante, la vita sulla terra, le nostre relazioni, i nostri sentimenti, i nostri amori, le nostre idee, la sostenibilità del nostro modello di sviluppo, la nostra idea di progresso, la nostra presunta centralità nell’universo – ha dichiarato Alessandra D’Innocenzo – Se però accettiamo la nostra fragilità possiamo trasformare l’apparente vulnerabilità nel suo opposto, la storia umana lo ha dimostrato, la nostra fragilità diventa agilità consapevole, che se crea una comunità può produrre innovativi e potenti risultati, la vulnerabilità dei singoli diventa forza collettiva per difendere valori condivisi e il bene comune”.

Come scrive Gianluca Riccio, uno dei curatori del progetto espositivo “Lungo il filo di questa trama insieme etica, morale ed estetica, i protagonisti dell’ultima edizione di doutdo, riuniti dallo sguardo partecipe di Giovanni Gastel intorno a un lungo tavolo, sono evocati dagli oggetti e dai residui di cibo cristallizzati sulla superficie dei sei tavoli che compongono la grande scultura realizzata da Joan Crus per l’edizione 2023; come se la scena – e il significato di cui è portatrice – fossero restati intatti nel corso di questi anni, ma il punto di vista si fosse ribaltato dall’esterno verso l’interno, con tutti quegli oggetti ordinari dispiegati sul piano orizzontale del tavolo-scultura a incarnare il senso di un messaggio che, anno dopo anno, resta custodito nella forma dell’opera chiamata a interpretarlo”.