Nell’ambito della copiosa quantità di film, 223, che l’edizione 2025 ha offerto, ho scelto d parlare di due, molto diversi, che trattano la malattia mentale, perché è un argomento fondamentale, ancora fonte di equivoci.

Il Cinema, che spesso ci fornisce aspetti della mentalità corrente, o, anche, interpreta la realtà in modo originale, è un potente mezzo di indagine sociologica. Ed è trasformatore degli stereotipi, quando ne è immune, attraverso i messaggi subliminali del racconto per immagini.

Blue Heron

Nel primo film, Blue Heron (Canada, Hungary 2025), premiato con il Swatch First Feature Award nella sezione Cineasti del presente, la regista Sophy Romvary riprende con grande maestria la natura dell’isola di Vancouver, dando l’idea dello stupore che il personaggio principale del film, la piccola Sasha, ultima sorella di 4 figli, prova, appena trasferitasi con la famiglia dall’Ungheria. A Sasha il compito di farci vedere coi suoi occhi questa storia autobiografica.

Fine anni Novanta: Sasha svela gradualmente le dinamiche fra i 6 membri della sua famiglia. Ben presto appare la figura problematica del fratello maggiore, da cui la divide una decina di anni. È chiaro che lei non vede in lui la malattia, ma descrive gli screzi fra i genitori su come comportarsi con il primogenito, che, per citarne solo una delle iniziative, si stende immobile sui gradini d’ingresso alla casa, suscitando la telefonata di un vicino che avverte i genitori che dalla sua finestra vede loro figlio morto nel giardino! Cosa che dà l’idea della spietatezza di un vicinato che non sopporta nessun comportamento imprevisto.

Il fratello maggiore fa anche cose molto pericolose, come camminare sul tetto, muovendone la copertura a rischio di precipitare a terra, oppure, al mare con mamma e fratelli, non vuole più tornare a casa. Una girandola di assistenti sociali, forse psicologi (il film non ce lo dice) propone rimedi assurdi, l’ultimo dei quali è di spingere i genitori a fare adottare questo figlio da un’altra famiglia, visto che gli altri tre suoi fratelli, due maschi e Sasha, crescono bene e senza traumi.

Mettere in evidenza la incapacità dei servizi pubblici nell’aiutare il ragazzo chiaramente in difficoltà può avere un senso dal punto di vista storico, ma il film termina con una lettera scritta da Sasha in cui sostiene che il fratello aveva subito un’ingiusta accusa, per atti non commessi da lui a scuola, ma di cui era stato incolpato, e questo lo aveva sconvolto a tal punto da farlo diventare “strano”.

Essendo un film autobiografico, racconta le reazioni di una bambina, che però è oggi la regista. Sono passati più di 20 anni, ma il messaggio del film, non essendo stata elaborata la storia, è fuorviante. La psichiatria ha fatto grandi passi da allora. Che senso ha presentare un ragazzo come perseguitato, invece di farsi domande di quanto i genitori, inesperti al primo figlio, possano aver influito sulla sua sanità mentale? Dare un nome alle cose, parlare di disturbo del pensiero e di malattia mentale, farebbe sì che ogni genitore cerchi ancora e ancora una cura, mettendosi da parte perché troppo implicato nella relazione malata con il figlio.

La regista afferma che, facendo questo film, voleva parlare delle imperfezioni nella rappresentazione cinematografica della memoria. Questo lo sa lei, ma allo spettatore non risulta. Quello che si percepisce è l’idea della sacralità della famiglia, per cui i problemi che in essa sorgono debbono essere stati causati da fattori esterni. Il film è un’autobiografia acritica, pericoloso nella misura in cui porta nel presente l’impossibilità della cura della malattia mentale, anche oggi difficile ma non impossibile se si è in grado di riconoscerla.

Rosemead

Il secondo film, Rosemead (USA 2025), vincitore del Prix du Public UBS, è diretto da Eric Lin, direttore della fotografia al suo primo lungometraggio. Il nome nel titolo è una parte della California dove vive una comunità sino-americana. Il regista spiega l’ispirazione a fare questo film. Ha letto la cronaca di una storia vera, svoltasi a Rosemead, che ha continuato ad ossessionarlo. Una madre malata terminale si accorge a un tratto che il figlio adolescente nasconde vicino a sé oggetti contundenti per difendersi da nemici da cui si sente minacciato.

Lei respinge l’aiuto dello psichiatra scolastico, che ha notato il passaggio del ragazzo da bravo studente a non frequentante e che le parla di schizofrenia. Lei si adopera in tutti i modi, con una presenza continua, a difenderlo da se stesso e da questa spirale di paura che può portarlo a ledere gli altri. Alterna l’impegnativo lavoro che svolge con un forte controllo del figlio. Sola e malata, ad un certo punto si costringe a permettere che lo psichiatra incontri il figlio e ascolta una seduta del figlio con lo psichiatra.

Qui la reazione dell’adolescente ad una domanda dello psichiatra, permette agli spettatori di ipotizzare il modo in cui lui vive la madre. Terrorizzato, alla domanda dello psichiatra si vede apparire un ragno sulla spalla e contemporaneamente rivive la scena del padre che cade a terra dopo urla fra i genitori.

Il ragno è da sempre un simbolo di madre che avvinghia il figlio con una vicinanza ossessiva. E, in più, poiché il padre è morto da poco, quella scena che il giovane vede può indicare che lui vede la madre come la persona che lo ha ammazzato. Quello che è certo è che il figlio ha iniziato con le sue ossessioni dopo la morte del padre.

Ho chiesto al bravo attore Lawrence Shou, interprete del figlio, come avesse vissuto quella sequenza. Mi ha raccontato che, secondo il regista, quelle immagini alludono al senso di colpa del ragazzo, convinto di essere responsabile della morte del padre. Anche in questo caso, però, la figura materna resta intoccabile e l’amore della madre non viene mai messo in discussione. Ma l’idea che un figlio adolescente possa addossarsi la colpa della morte del padre non regge. Questo può succedere solo quando il figlio è molto piccolo, e non per la morte, ma per la separazione fra i due coniugi.

Non voglio raccontare come finisce la storia. Volevo mettere in luce i vecchi stereotipi di amore materno, di famiglia come protezione dal mondo invece che come generatrice di malattia mentale, il non voler riconoscere come genitori la malattia. Se non riconosci la malattia, non cerchi la cura in modo costante ed accanito, né accetti che si può, da genitori convinti di amare il figlio, essere invece una concausa della sua malattia.

I due principali protagonisti, Lucy Liu e Lawrence Shou, sono bravissimi come interpreti. Il motivo per cui il film ha vinto il premio del pubblico è dovuto, a mio parere, alla super valutazione dell’amore materno.

Anche questo film, sebbene in modo meno assertivo del precedente - perché, a ben guardare, permette due ipotesi possibili - tende a preservare questo pericoloso stereotipo.