Bisogna stare attenti a ciò che si desidera ardentemente, perché si potrebbe ottenerlo. Zucche che diventano carrozze, lampade che sprigionano geni, manne che cadono dal cielo: sono tutti eventi che le tradizioni del racconto biblico e della narrazione fiabesca hanno chiamato, nel corso dei secoli, ora “magia” ora “prodigio”. Ciò è quello che è noto, per lo meno ai più.

Ciò che è meno noto, invece, è che a fondamento di molti eventi favolosi e prodigiosi la scienza antica poneva una precisa dottrina: la teoria dell’immaginazione attiva. Negli anni più recenti questa teoria è stata divulgata soprattutto con il nome di legge di attrazione.

Quando pronunciamo la parola “immaginazione”, oggi commettiamo due errori dettati dal nostro attuale sistema di credenze. Siamo indotti, cioè, a ritenere che il luogo deputato ad ospitare in via esclusiva l’immaginazione sia la mente. Siamo, inoltre, ignari o incuranti del fatto che “immaginazione” e “magia” nascano da una stessa radice.

Risale al IX secolo d.C. il trattato De radiis stellarum, “Sui raggi delle stelle”, del filosofo e scienziato arabo al-Kindī, conosciuto in Occidente con il nome latinizzato di Alchindus. Il titolo del libro potrebbe trarre in inganno e indurre a credere che il tema sia l’astronomia - e in parte è così. Ma il vero oggetto di analisi non sono le leggi che governano il cielo, ma quelle che governano la terra: ovvero, l’astronomia “inferiore”, lo studio dell’essere umano in quanto astro raggiante.

Una delle espressioni che tutti abbiamo appreso come una formula nelle lezioni sul Rinascimento è che l’uomo è un microcosmo. Se è vero che questa visione trova ampio spazio nella filosofia tra Quattrocento e Cinquecento, è però assai prima che la nozione di un uomo come “minor mundus” trova la sua piena esplicazione. E proprio in testi come il De radiis stellarum di al-Kindī che viene in genere sbrigativamente liquidato in quanto trattato di arti magiche.

L’uomo, ci dice il filosofo, è un piccolo cosmo, un astro che emette raggi in ogni direzione. Ad avere questa prerogativa di emanazione radiale non sono infatti solo gli oggetti, le piante e gli animali né i soli pianeti dell’universo. L’uomo replica la stessa anatomia di un astro e dunque è capace di emettere energia tale da renderlo simile ad un piccolo sole. Ciò che conferisce all’uomo questa capacità è quello che il filosofo chiama spiritus ymaginarius, una forza immaginativa in grado di mettere in movimento la materia e produrre cambiamenti nella realtà. E tuttavia, le cose non sono così semplici come potrebbero apparire ad una prima lettura. Tutto infatti emette raggi. Anche le nostre parole, le nostre azioni e, purtroppo, i nostri pensieri. L’immaginazione di cui parla al-Kindī non si trova propriamente nella testa, se non in minima parte. Ma, come attributo di un mondo che ruota attorno al proprio asse, è collocata nel centro spirituale dell’essere umano in quello che è l’organo più sconosciuto e insondato, retoricamente derubricato in via crescente nel corso dei secoli a malfido custode di sentimenti confusi o di oscure passioni: il cuore.

Perché allora il desiderio si trasformi in realtà, dice il filosofo, c’è bisogno che tre magici ingredienti si incontrino nel cuore: l’immaginazione, l’intenzione e la fede. Tutti e tre tesi a realizzare ciò che l’uomo ha “concepito” grazie ad un’immagine che lo guida (ago) dal profondo (imo), cioè appunto una imago. Se la forza dell’intenzione si nutrirà della purezza dell’immaginazione e sarà sostenuta da una fede incrollabile, allora l’armonia che fa ruotare le sfere celesti potrà esaudire il desiderio concepito dalle sfere terrestri. Sulla stessa scia di al-Kindī, nel XVI secolo il filosofo e medico Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus Paracelsus, per lo più noto come maestro di alchimia, spiegherà la medesima dottrina dell’immaginazione nei termini di una teoria del seme in testi, ad esempio, come il De generatione hominis.

L’immaginazione, spiega infatti Paracelso, funziona come un seme che ha sede nel cuore. L’anima, che esprime la potenza siderale all’interno dell’uomo, ha bisogno di un’immagine in cui trasfondersi, in cui colare come in uno stampino per poter compiere pienamente la sua natura e definirsi in una forma. Ecco, allora, che il seme dell’immaginazione, sorretto sempre dalla fede, genera un astro allo stesso modo in cui da un seme nasce un albero con le sue ramificazioni o nel modo in cui dal seme maschile si genera un bambino.

Siamo fatti della stessa materia di cui è fatto il cielo, sostiene Paracelso, che non è altro che “immaginazione”, configurazione di pianeti e stelle coreograficamente atteggiati in figure che imprimono corsi e ricorsi agli eventi. Allo stesso modo, tutta la materia e tutto lo spirito sono concentrati nel “piccolo mondo” che è l’uomo come forme latenti del possibile e dell’impossibile all’interno di un seme dormiente che può creare attraverso la forza dirompente del desiderio.

Chi ha tradotto in latino i testi biblici conosceva assai bene il valore del participio futuro con cui l’uomo è stato designato: “creatura”, cioè “colei o colui che è destinato a creare”. La scienza di filosofi come Paracelso e al-Kindī non faceva, infatti, che porre a commento tutta la dottrina che Cristo aveva enunciato mediante l’assioma di una fede che, grande come un granello di senape, avrebbe potuto spostare una montagna. Prodigio, miracolo, favola.

Nel corso del tempo, però, da creatori di conoscenza quali siamo, abbiamo “immaginato” un mondo in cui il cuore offuscato fosse diviso dalla mente luminosa e abbiamo separato in appartamenti stagni i due inquilini del sentimento e della ragione impartendo loro il sacramento del divorzio. Creato l’albergo dove i due non potessero incontrarsi, abbiamo chiamato “scienziati” gli abitanti della ragione e “sognatori” gli inquilini dell’immaginazione. Ai primi abbiamo dato onorificenze, ai secondi manicomi.

Oggi, con il trascorrere dei secoli e col trascolorare delle conoscenze, di tutta l’antica scienza dei filosofi ci restano improbabili mutazioni di zucche in carrozze, di ranocchi in principi, di piombo in oro e simili bizzarre conversioni che abbiamo provveduto a sprangare dentro le favole per non destare il sospetto che le “immagini” alla lunga possano diventare “cose”. Come civiltà, infatti, noi non concediamo più l’ingresso né a magici semi né a stelle raggianti. Senza di essi il mondo è avvolto nell’ombra, ma non lamentiamocene, perché è così che noi lo abbiamo “immaginato”.