Il cambiamento a volte è così lento che non ti accorgi di lui, a volte è così veloce che lui non si accorge di te. Tutto cambia in continuazione: tu, le persone che ti stanno accanto, il contesto i cui vivi, le relazioni che intessi con quel telaio sghembo che ti è dato alla nascita e che continui a manutenere con piccoli aggiustamenti quotidiani agli ingranaggi. Ogni singola cellula del tuo corpo è in costante evoluzione, perenne avvicendamento di nascita e di morte. Tu sei in metamorfosi, tu sei la metamorfosi, componente di quel potente mutamento di forma che assume da millenni Gea, la Madre Terra, di cui ti ritrovi a essere parte infinitesimale e ininfluente allo sviluppo del tutto.

Le parole del cambiamento, le singole parole che lo rappresentano, sono anch’esse crisalidi, anch’esse in transizione, anch’esse nel flusso del divenire, di passaggio, efemeridi se rapportate ai tempi delle lingue. Cambia, todo cambia, cantava Mercedes Sosa, in uno dei brani più struggenti, malinconici e dannatamente autentici che siano mai stati composti. Ecco, todo cambia, la superficie, il profondo, il modo di pensare, tutto quello che si affaccia in questo strano, incerto, imprevedibile mondo sul quale ogni giorno passeggi con andatura dinoccolata, con il tuo sacchetto di speranze e di ricordi, di perché e di affinché, di morbidezze e di spigoli.

Cambiare tra i tornanti della vita

Cambiamo in continuazione. A volte rendiamo diverso e quindi trasformiamo, a volte sostituiamo, come avviene quando cambi aspetto e non ti riconosci più in quello precedente.

Il latino cambiāre, da cui derivano in italiano il cambiare e il cambiamento, è di provenienza gallica, si attesta al di là delle Alpi, profuma di lavanda e si può confrontare con l’antico irlandese camb, camm, che vuol dire ‘ricurvo’ e profuma di birra. Il cambiare ha dunque una forma ricurva, sinuosa, arcuata e ritorta, come le pieghe di un cervello pensante, come le increspature delle viscere che ti fanno emozionare quando il solo logos non basta più, come il becco del corvo che è metafora e origine dell’essenza della curva. Anche nella Grecia classica, i parlanti usavano una parola affine a cambiare per indicare ciò che non è diritto: il verbo kampto significava ‘curvo’, ‘piego’, ‘ricurvo’, ‘svolto’, ‘giro intorno’. Come le navi che ruotano attorno ai promotori, anche tu ruoti attorno alle asperità della vita, talvolta entrando nella tempesta, talvolta schivando i fortunali o le bufere (portatrici, queste ultime, di sbuffi di vento a cui sono etimologicamente legate).

E allora cambiare è assumere la consapevolezza che la vita non è un rettilineo, né una sequenza di segmenti ma un continuo inerpicarsi sulla fiancata della montagna, in un susseguirsi di tornanti che ti portano in un altrove più alto consentendoti di scorgere e talvolta ammirare panorami inattesi e sorprendenti. Siamo tutte e tutti in perenne cambiamento: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

La transizione per andare più in là

Il cambiamento è transizione e la transizione è il passaggio da un modo di essere a un altro, da una condizione a una nuova e diversa. Nella transizione incappiamo in guadi soterici, grazie ai quali possiamo attraversare i corsi d’acqua che si appalesano nel nostro cammino. Il sostantivo transizione deriva dal verbo latino transīre, che voleva dire ‘passare’, ‘oltrepassare’, ‘attraversare’, a sua volta da īre ‘andare’, con il prefisso trans-, che significa al di là.

Nella transizione intravvediamo dunque un passaggio, un oltre, un orizzonte che ci spinge più in là, più avanti. Nella parola cogliamo anche la dimensione del transitorio, del transeunte, del transeat, locuzione che odora di passato e che vuol dire ‘sia pure’, ‘vada pure’, ‘lasciamo correre’, espressione che usiamo quando, sollevando le spalle e allargando le braccia, concediamo a ciò che ci circonda di assumere la forma che il destino desidera. Transeat, passi.

Parente della transizione è la trance, parola entrata nella lingua italiana solo a inizio del Novecento per indicare uno stato ipnotico, una sorta di estasi e di sospensione dalla realtà di ogni giorno, un rapimento che conduce anche in questo caso a un altrove dai contorni incerti. Siamo tutte e tutti in perenne transizione: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

Metamorfosi, la forma che cambia

“Il mio intento è quello di raccontare i mutamenti di forme in corpi nuovi: o dèi, dal momento che anche questa è opera vostra, favorite la mia impresa e tessete un carme continuo dall’origine dell’universo fino a tempi recenti”.

Inizia così il libro delle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, l’autore latino che ha cantato le trasformazioni degli esseri umani e degli immortali.

Le metamorfosi sono trasformazioni, trans-formazioni, cambi di forma. Nella parola, di origine greca, si annida proprio la forma, che in greco si diceva morphḗ, con il prefisso meta- affine al latino trans-. Il filosofo Emanuele Coccia, di origine italiana ma francese per produzione intellettuale, ha intitolato proprio Metamorfosi il suo saggio recente (consigliato!) in cui mette in relazione le trasformazioni individuali, di noi avvolti nel bozzolo del cambiamento, con le trasformazioni del pianeta Terra.

La stessa parola pianeta per altro deriva dal verbo greco planáō, ‘faccio errare’, ‘fuorvio’, ‘svio’, che al passivo significa ‘erro’, ‘vado errando’. Il mondo è dunque l’essere della metamorfosi, non solo il teatro di una trasformazione ma la causa, la forma, la materia della metamorfosi stessa e del suo moto. Il mondo in quanto entità planetaria è un corpo alla deriva, secondo Coccia, e il fatto di essere alla deriva è il primo attributo di tutti i corpi, celesti e terrestri, di questo universo. Noi restiamo in questo ciclo metamorfico, con la nostra piccola esistenza, consapevoli del legame che collega il nostro individuale transito terrestre con la dimensione planetaria dell’esistenza. E la nostra consapevolezza diventa costante ondeggiamento, un po’ vertigine e un po’ piedi ben piantati al suolo.

Siamo tutte e tutti in perenne metamorfosi: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

Tra conversione e rivoluzione

Il già citato Emanuele Coccia nel suo memorabile Metamorfosi spiega che esistono due forme diverse di cambiamento del soggetto quando questo si rapporta con il contesto in cui vive. Due forme che sono distinte dall’idea di metamorfosi la quale presuppone invece sia un mutamento del soggetto che del contesto. Una prima forma di cambiamento è la conversione. Nella conversione a cambiare è esclusivamente il soggetto: le sue opinioni, i suoi atteggiamenti, il suo modo di essere si trasformano ma il mondo resta e deve restare identico a sé stesso. Solo un mondo che non è stato toccato dalla conversione può testimoniare l’avvenuto cambiamento del convertito. La conversione è quanto vi sia di più lontano dalla metamorfosi, che presuppone mutazione profonda sia del soggetto che del contesto in cui questo abita e che presuppone un rapporto di interdipendenza tra la persona e la situazione. Ego non sum ego dice il convertito: non sono più la stessa persona di prima.

Il secondo modello è quello della rivoluzione: è il mondo a cambiare mentre il soggetto non può trasformarsi perché è l’unico testimone della trasformazione in corso. Nella rivoluzione, il cambiamento non può e non deve interessare il soggetto che di quel cambiamento è attore, motore, innesco e artefice. La rivoluzione è per questo la forma di cambiamento prediletta dalla tecnica e dalla politica.

Conversione e rivoluzione sono dunque due forme di mutazione speculari. Nella prima cambia la persona per lasciare immutato il mondo, nella seconda cambia il mondo perché la persona che lo cambia possa dire: ho fatto sì che la mia volontà e la mia essenza sia rimasta sempre la stessa. Siamo tutte e tutti in perenni conversione e rivoluzione: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

Spostare per un nuovo posto

Osservi l’oggetto appoggiato sul piano, lo afferri e lo muovi da qui a lì. Compi quindi l’atto dello spostare, del far cambiare luogo, di trasportare da un posto a un altro. Sì, perché la materia prima dello spostare è il posto, a cui anteponi il prefisso di sottrazione s- per ribadire che la stasi del posto iniziale è certa mentre la nuova dislocazione si ammanta di incertezza, l’incertezza propria di qualunque novità.

Il posto è il luogo, il punto, la sede, la collocazione l’ubicazione in cui ciascuna persona sta. Il posto porta con sé anche l’idea della posizione in una graduatoria, in un elenco, l’idea di un ordine: sei arrivato al settimo posto, sei arrivato al terzo posto, sei arrivato al primo posto (e in quest’ultimo caso, puoi festeggiare, con un vino con le bollicine).

La parola posto è una formazione latina di origine indoeuropea: nella lingua dell’Ovidio delle Metamorfosi, pŏsĭtu(m) era il participio passato del verbo pōnĕre, che significava ‘mettere’, ‘collocare’ e che ha generato in italiano il verbo porre.

Quel verbo antico ha prodotto il posto ma anche la posta, quella che usiamo per spedire una lettera da un luogo a un altro, e il positivo, aggettivo che assume un significato diverso a seconda del contesto nel quale lo collochiamo: uno stato d’animo positivo è affine al bene, l’esito positivo di un tampone è affine al suo contrario.

Ancora una volta dipende dal posto. Se sposti un contenuto da un contesto a un altro ne trasformi la forma, ne cambi il significato, ne produci una metamorfosi. Siamo tutte e tutti in perenne spostamento: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

Mutare è cambiare pelle

A intervalli regolari, alcuni animali cambiano la pelle. Percepiscono che l’involucro che li protegge e li avvolge non fa più per loro, si sentono racchiusi in una scatola troppo stretta, in un rivestimento che non è più congruente con la loro essenza in evoluzione. E quindi si predispongono per la muta. Prima di cambiare pelle, si contorcono, sbattono contro le rocce, strappano l’epidermide facendosi male ad ogni colpo inferto contro un oggetto duro e tagliente. Poi assumono una nuova veste, transitoria, mutevole e mutante.

Non è mai facile mutare. Perché cambiare muta vuol dire voltare le spalle a superfici note, a colori consueti, a epidermidi conosciute e comunque luminose, tenere e gravide di bei ricordi. Il verbo latino mūtāre risale alla radice indoeuropea mei-/moi- che faceva riferimento a ‘scambiarsi’, da cui discendono anche migrāre ‘migrare’ e commūnis ‘comune’. Mutare è in effetti un po’ un migrare, accedere ad altri luoghi, fare trasloco portando con te solo ciò che è essenza (un corpo, una mente e poche altre carabattole) e cercare una dimensione spaziale diversa, che non sai come sarà, che non puoi nemmeno immaginare, che non conosci in anticipo ma che forse un giorno, un giorno lontano sarai in grado di riconoscere come tua.

Scriveva Sant’Ambrogio: “Voi pensate: i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi”.

Siamo tutte e tutti in perenne mutazione: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

Modifichiamo per dare nuove proporzioni

Più che trasformare, quando modifichiamo prendiamo le misure, rileviamo le grandezze, prendiamo il metro per comprendere le dimensioni e il formato di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che potrà essere. Più che mutare la forma dell’essere in qualcosa d’altro, quando modifichiamo facciamo riferimento a un parametro, ci rapportiamo a una proporzione, rapportiamo e paragoniamo in modo da comprendere distanze e vicinanze. In latino modificare voleva dire propriamente ‘imporre una misura’, ‘moderare’, ‘proporzionare’. “Nulla di troppo” si leggeva sul frontone del tempio dedicato ad Apollo a Delfi.

Nel modificare spesso muti in meglio, migliori, apporti piccole, parziali, minuscole variazioni per fare a modo, a modo tuo, nel modo che è opportuno. Ai tempi di Cesare e Cicerone, il mŏdus era la ‘misura’, la ‘norma’, ma anche la ‘maniera’ e la ‘melodia’, come se nel modificare volessimo ascoltare melodie in parte diverse, a partire dalle medesime note ma con variazioni in grado di restituire timbri, sensazioni, emozioni differenti. Quel modus risale alla radice indoeuropea, che si ritrova in molte lingue sviluppate dall’oceano atlantico alle rive del Gange, med-/mod- che voleva dire ‘misurare’. Quella radice antica si ritrova in medēri ‘curare’ (da cui medico) e in meditāri ‘pensare’, ‘valutare’ (da cui meditare). Accostarsi alla modificazione, facilitare il modificare significa per certi versi curare un po’ e stimolare a pensare.

Siamo tutte e tutti in perenne modificazione: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

Evolvere per diventare ciò che siamo

Una frase emblematica del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche è “diventa ciò che sei”. Un’esortazione ma anche un imperativo che rimbomba dentro le menti, i cuori e i corpi di ciascuna persona. Rimbomba e squassa, squassa e lacera, lacera e consente l’emersione del nuovo. Prima conosciti, come suggeriva l’oracolo di Apollo a Delfi, poi diventa ciò che sei, sviluppa il tuo potenziale, evolvi nella direzione che in questo momento percepisci essere la tua.

Il verbo evolvere ha come nonno il verbo latino evolvĕre che significava ‘svolgere’, ‘sviluppare’, propriamente ‘far rotolare’, da volvĕre ‘voltare’ con il prefisso e(x)-. Quel prefisso dice tutto: ci porta da un dentro a un fuori, da un potenziale custodito dentro a un atto emerso e venuto alla luce, da in a out, dal passato al futuro.

Il volgere è italiano ‘voltare’, ‘girare’ ma anche ‘dirigere’ e ‘orientare’, nella consapevolezza che le bussole degli umani sono sempre instabili e incerte.

Il latino volvĕre aveva a che fare con il ‘girare’, il ‘voltare’, il ‘rotolare’ e il ‘dipanare’. Da quel verbo è derivata in italiano la volta che è l’arco ma anche l’atto del voltarsi e quindi l’avvicendamento, il turno, oltre che il cuore dell’espressione “c’era una volta” alla base di tutte le nostre narrazioni. E da quel verbo è derivato anche il volume, che in origine era il rotolo, qualcosa di avvolto e in particolare il ‘rotolo di papiro’ e quindi il ‘libro’.

Il latino volvĕre può essere confrontato con verbi con significati diversi ma provenienti dalla stessa radice in altre lingue: il greco eilýō ‘avvolgere’ (da welu-), l’armeno gelum ‘girare’, l’antico irlandese *fillim ‘girare’, l’antico slavo valiti ‘rotolare’ (e il russo valit’ ‘rovesciare’), l’antico alto tedesco wellan ‘rotolare’ (da cui il tedesco wellen). Quando evolviamo, in un certo senso rotoliamo un pochino, trascinati dalla forza di gravità e dal rovesciamento di prospettive.

Siamo tutte e tutti in perenne evoluzione: un po’ bruchi e un po’ farfalle.

Cambia lo superficial
Cambia también lo profundo
Cambia el modo de pensar
Cambia todo en este mundo

Cambia el clima con los años
Cambia el pastor su rebaño
Y así como todo cambia
Que yo cambie no es extraño

Y el más fino brillante
De mano en mano su brillo
Cambia el nido el pajarillo
Cambia el sentir un amante

Cambia el rumbo el caminante
Aunque esto le cause daño
Y así como todo cambia
Que yo cambie, no extraño

Cambia la superficie
e anche ciò che è profondo
cambia il modo di pensare
cambia tutto in questo mondo.

Cambia il clima con gli anni
cambia il pastore il suo pascolo
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.

Cambia il più prezioso brillante
di mano in mano il suo splendore
cambia nido l’uccellino
cambia il sentire di un amante.

Cambia direzione il viandante
sebbene questo lo danneggi
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.

(Mercedes Sosa 1935-2009, Todo cambia 1982, autore il cileno Julio Numhauser)