L’unità europea è nata male, ed è cresciuta peggio. Tutto cominciò con la CEE, la Comunità Economica Europea, e quel primo passo - forse anche necessario - ha comunque segnato la direzione di quelli successivi. Quando, nel 1993, sei Paesi diedero vita all’Unione Europea, era già caduto il Muro di Berlino, e con esso la ‘cortina di ferro’ che divideva in due l’Europa, c’erano quindi tutte le premesse per una ripartenza del processo unitario, ma stavolta col piede giusto. Purtroppo, invece, quella era anche la stagione del ‘trionfo’ liberista, dell’illusione tutta occidentale d’un mondo unipolare - cioè ad immagine e somiglianza degli USA, il Paese leader che aveva appena portato al collasso il suo storico avversario, l’Unione Sovietica ‘socialista’.

Il risultato, quindi, fu una unione piena di reticenze ‘nazionali’, per un verso, ed intrisa di ideologia liberista per un altro. Ci ritrovammo con una Unione fintamente democratica, con un europarlamento sostanzialmente inutile, ed un ‘governo’ - la Commissione Europea - svincolato da qualunque nesso con i cittadini europei, che ha finito col rappresentare una autorità sovranazionale, che però non risponde a nessuno delle proprie decisioni e del proprio operato. E che, per sovrappiù, ha generato una burocrazia che, a sua volta, ha finito col rappresentare un potere nel potere, anch’esso senza alcuna rappresentatività democratica.

Nonostante tutti i suoi difetti, l’Unione Europea ha comunque rappresentato quantomeno un abbozzo di tentativo, un elemento importante di costruzione di una ‘casa comune’ per gli europei. Misure in fondo secondarie, come i progetti Erasmus e gli accordi di Schengen sulla libera circolazione, hanno considerevolmente contribuito a determinare un ‘sentire comune’.

L’imprinting iniziale, comunque, ha continuato a farsi sentire, soprattutto nella impostazione ideologica. L’UE non si è mai immaginata come una vera ‘casa comune’, in cui gli europei si ritrovano in quanto tali, quanto piuttosto come un modello (economico, politico e sociale) a cui bisogna aderire. E l’adesione a questo modello è il requisito fondamentale per entrare a farne parte. In tal modo, l’Unione Europea si è sin dall’inizio posta come un attore ideologico, come un soggetto attuatore di politiche ben caratterizzate.

Questa costruzione, quindi, aveva sin dal suo esordio tutti gli elementi della propria fragilità, che però rimanevano occultati dalla crescita economica e dalla ‘spinta propulsiva’ che quel modello sembrava avere.

Un modello ‘liberista’ incarnato dalla Commissione, il permanere degli interessi nazionali e quindi dei ‘giochi di potere’ tra le nazioni, una inclusività basata sull’adesione ideologica e non sulla cittadinanza europea, erano fattori che sul breve periodo sono rimasti in precario equilibrio reciproco, ma che alla lunga hanno cominciato a scricchiolare.

I primi problemi sono cominciati con la spinta espansiva verso Est; da un lato, i Paesi ‘forti’, come Germania e Francia, guardavano in quella direzione come a nuovi mercati (e/o aree di produzione a basso costo), mentre all’inverso i Paesi dell’Est guardavano all’Unione come all’approdo di un percorso di ‘liberazione’ (oltre che come fonte di cospicui finanziamenti...). Ma, ovviamente, la transizione (economica, politica e sociale) da un sistema centralista e ‘socialista’ ad uno liberale e liberista - richiesta come precondizione per accedere all’eldorado europeo - è avvenuta in maniera troppo rapida e selvaggia, e non ha consentito una effettiva maturazione di uno spirito comune. Anche nella logica della omologazione al modello ‘occidentale’, la fretta ha prodotto guasti; i nuovi arrivati, infatti, hanno portato con sé anche un carico di revanscismo antirusso (in una fase in cui, invece, l’UE felicemente si relazionava con Mosca), e soprattutto una omologazione al modello europeo limitata alle élite urbane.

Le prime crepe nella ‘casa comune’, comunque, si sono inizialmente manifestate soprattutto tra i Paesi più occidentali. Tre, in particolare, sono stati i segnali di crisi.

La frattura tra Paesi nordici fautori dell’austerità economica e quelli mediterranei - non a caso definiti ‘PIGS’ (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna).

La crisi greca, col selvaggio affossamento di un Paese membro, a spese (drammatiche) della popolazione locale, ed a tutto vantaggio delle banche e dei Paesi ricchi (Germania in testa).

La crisi migranti, col sostanziale rifiuto, da parte dei Paesi non direttamente oggetto degli arrivi, di farsi carico di una politica di condivisione del problema.

Quest’ultima, in particolare, ha mostrato le profonde divisioni esistenti, e l’incapacità dell’Unione di sormontarle, in nome di una comune solidarietà. Ma non solo, questa crisi ha poi prodotto, a cascata, alcune delle peggiori scelte politiche comuni. Prima fra tutte, la scelta di pagare la Turchia per fare da ‘blocco’ sulla rotta balcanica, ma anche - e non secondariamente - i criminali accordi italiani con le bande di trafficanti libici, ed il laissez faire ai metodi brutali con cui i Paesi dell’Est praticano i respingimenti.

Un altro segnale importante è stata la Brexit; non tanto per l’uscita della Gran Bretagna in sé (Londra non si è mai sentita veramente europea), quanto proprio per aver simbolicamente rappresentato una inversione di rotta: non più solo espansione, ma anche abbandono.

La guerra in Ucraina ha prodotto però una accelerazione del processo di disgregazione.E lo ha prodotto su tre livelli. Il primo, il più evidente, nella sua assoluta incapacità di rappresentare e difendere gli interessi europei, laddove l’UE si è invece accodata agli USA anche nelle scelte più suicide - come le sanzioni energetiche. Il secondo, nel ribaltamento dei rapporti di forza interni, con i Paesi dell’Est - Polonia in testa, ma anche le insignificanti repubbliche baltiche - che con il loro oltranzismo anti-russo hanno preso de facto la guida dell’Unione. E soprattutto il terzo, la ‘militarizzazione’ dell’UE, la sua trasformazione in creatura subalterna della NATO, designata a farne da anticamera.

La scelta di favorire l’avvicinamento all’UE dei Paesi che vi aspirano, non in base alle condizioni oggettive ma in base allo schieramento politico, ne è la testimonianza più evidente. Si aprono le porte alla Moldavia ed all’Ucraina (nonostante questa sia un Paese corrotto sino al midollo, ed in cui la democrazia non è nemmeno più una mera formalità), e si chiudono alla Serbia - che rifiuta di schierarsi contro la Russia. Si fa capire alla Georgia che l’adesione alle sanzioni è precondizione necessaria, e si rilancia l’offerta alla Turchia (Draghi ad Ankara) per cercare di ‘tener dentro’ l’alleato riottoso e troppo indipendente, ma di cui non si può fare a meno.

Ma le ricadute del conflitto russo-ucraino porteranno a breve ulteriori conseguenze.

È presumibile che, a seguito delle manovre speculative sul grano, nonché delle conseguenze delle sanzioni sul mercato energetico e su quello dei fertilizzanti, si producano nuove instabilità in Africa, con conseguenti nuove ondate migratorie verso l’Europa - che andranno ancora una volta ad investire soprattutto i Paesi rivieraschi (Italia, Grecia, Spagna), che a loro volta si scontreranno col rifiuto degli altri Paesi di condividere il problema.

Ancor più pesante però si rivelerà la questione energetica; quando con l’inverno aumenteranno i consumi, gli stoccaggi europei saranno insufficienti, le nuove forniture incapaci di colmare il vuoto creato dalle sanzioni - nonché un ulteriore presumibile levitazione dei prezzi - sarà inevitabile la competizione tra i vari stati europei, sia sul mercato internazionale, sia nel rifiuto di condividere gli stock.

È possibile, anzi forse probabile, che sul breve periodo l’UE vada avanti, e che sembri continuare la sua espansione. Ma sul medio-lungo periodo è destinata ad implodere. I nodi vecchi e nuovi verranno al pettine, e le scosse provocate dalle scelte sbagliate degli ultimi anni si ripercuoteranno sulle mura della ‘casa comune’. In assenza di (peraltro possibilissimi) mutamenti radicali del quadro politico internazionale, probabilmente l’UE recederà di fatto ad un ruolo di mercato comune economico, un po’ com’era la vecchia CEE, mentre il ruolo di direzione politica sovranazionale sarà assunto dalla NATO.

La crisi attuale ha svelato in modo inequivocabile l’inadeguatezza delle attuali leadership europee, sia a livello delle singole nazioni che - ancor più - a livello di Unione Europea. Non è quindi da quella parte che potrà venire alcun segnale di novità.

Resta da vedere se la crisi avrà o meno la forza di innescare una spinta dal basso, capace di ribaltare gli schemi dominanti, e di ricostruire - su basi totalmente nuove - un’Europa realmente unita, realmente autonoma, realmente libera.