Livorno è stata una città tutta particolare, fondata dai granduchi fiorentini per avere il loro porto, creando una città efficiente a partire da un piccolo villaggio di pescatori, saltando la normale evoluzione antropica ed urbanistica. Non era affatto né facile, né scontato nella riuscita.

Chi poteva “civilizzare” un luogo privo di radici? Una tabula rasa dove erano più le incognite delle certezze. Quali attrattive poteva offrire un far west senza oro, un golden rush senza gold. Ebbene, l'idea fu geniale, offrire il salvacondotto a tutti quelli che fuggivano da qualcosa, a questi si offriva casa e bottega. Questo in sostanza il succo delle leggi livornine del 1591-93.

Bernardo Buontalenti disegnò una città ideale, con tanto di compasso, squadre e righelli, partorendo un bellissimo pentagono fortificato circondato da un fossato, da qui si origina la parola “fossi” livornesi, che ospitava il mare, che entrando nella terraferma costituiva una cintura protettiva. Gli abitanti di questo castello, nato sotto i migliori auspici celesti, erano uomini e donne di ogni nazione e provenienza: ebrei in fuga dalla Spagna e dal Portogallo, armeni in diaspora perenne, greci, e molti altri. Un tessuto sociale così vario e giovane e pieno di voglia di riscatto costituì la miscela esplosiva per dar luogo ad una città, elevata a quel rango nel 1606, dove i commerci con l'Oriente ed il Nord Africa assicuravano forti e crescenti guadagni.

Arrivarono quindi anche gli olandesi, gli inglesi e via via sempre più rappresentanze straniere che vedevano in Livorno una porta per i commerci con il mondo, agevolati dal porto franco. Ben presto alcuni di loro divennero molto ricchi così da comprarsi il palazzo in città, con i magazzini a livello dell'acqua per facilità di trasporto, e la villa sulle pendici del colle di Montenero, nella frescura della campagna livornese.

Oggi rimangono molte dimore che i passaggi di proprietà hanno dapprima violato nella loro essenza artistica e strutturale e poi abbandonato come gusci svuotati dalla vita e dai fasti, ma ancora di più, del senso per il quale furono create. Queste dimore abbandonate ben si prestano ad immaginarle “abitate” da ologrammi di vite passate che imprigionati come forma di energia ancora indefinita a volte vengono percepiti, captati, visti. Alcune di queste dimore hanno fatto da teatro a forti passioni amorose, o a drammi familiari, fino addirittura a presunti fatti di sangue, e chissà se questi picchi di energie, scaturite da forti emozioni o dolore si conservano e si riescono a percepire secoli dopo, come la luce di una stella morta anni luce fa, forse è solo questione di quantità di energia che ce ne limita il suo avvertire.

Ebbene in una di queste ville, nella parte bassa del colle di Montenero, in quella chiamata Morazzana, dove anni addietro in un intervento di restauro del tetto, furono trovati disegni che raffiguravano un uomo alto con un cappello, in piedi, colpito dalla pallottola sparata da un uomo che sta cadendo all'indietro, insieme a disegni di animali fantastici e simboli esoterici, ho avuto una esperienza, diremo di difficile spiegazione. Questa villa fu costruita tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 sui resti di una casa colonica nel podere della Morazza da Tonin Del Furia, un ex bibliotecario fiorentino fuggito dal capoluogo mediceo per le accuse di negromanzia ed esoterismo. Tonin del Furia abitò diversi anni a Villa Morazzana; nel 1822 George Byron, che stava soggiornando alla vicina Villa delle Rose, andò a trovare il Del Furia alla villa, incuriosito dalle sue attività, ma questi era improvvisamente scomparso, venne ritrovato alcuni giorno dopo dentro l'Arno, con un colpo di pistola in volto. Successivamente, forse attratti da questa storia, nel 1894 la villa fu acquistata da Gemma Bellincioni che vi andò a vivere con l'amante Roberto Stagno, poi divenuti moglie e marito, entrambi cantanti lirici, i primi a interpretare La Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni nei ruoli di Santuzza e Turiddu ed entrambi appassionati di esoterismo e sedute spiritiche. Oggi, la villa è di proprietà del Comune di Livorno che l’ha acquisita dalla Regione nel 1977. Da questa data, la villa è stata ostello, sede di mostre, congressi, location per feste, struttura di accoglienza per profughi e dal 2012 è chiusa.

E qua comincia la storia che ho vissuto. Con un gruppo di amici avevamo affittato la villa per passare la notte di Capodanno, intorno al 2010, eravamo circa un’ottantina di persone ed i lavori di pulizia, sistemazione dei tavoli, ed apparecchiatura erano proseguiti fino al pomeriggio inoltrato del 31 dicembre. Come ci aveva chiesto di fare il gestore della villa, prima di uscire e chiudere il portone, staccare la corrente dal contatore, perchè sai, non si sa mai, impianti un po' vecchi, meglio prevenire che piangere danni. Così facemmo, me presente, con la torcia accesa, staccammo la corrente e ci trovammo immersi nel buio. Con un friccichino misto di disagio per il buio ed ansia per questo colosso di villa che ci stava addosso, completamente disabitato tranne noi, affrettammo il passo per allontanarci in “zona sicurezza”. Fu in quel preciso momento, allontanati dalla casa oscura, nel giardino, che voltandosi indietro per una non ben spiegabile sensazione, vedemmo accendersi le luci del piano nobile, quello preparato per la cena che da li a qualche ora avremmo consumato proprio in quelle sale. Ci guardammo sbigottite, non una parola, occhi sgranati di stupore, cos'era accaduto? Capperi! Avevamo staccato la corrente, le luci si erano spente! E quindi?

Quando tornammo alla villa, non vi dico con quale sottile turbamento, per l'ora di cena, questa era al buio, riattaccammo la corrente dal contatore e le luci si riaccesero. Stetti in ansia tutta la sera e da quel giorno non sono più tornata alla Villa Morazzana, forse era meglio non disturbare quelli che nella storia peculiare della città di Livorno erano fuggiti per trovare in questa unica città un luogo che li accogliesse senza troppe domande, per ricominciare, per una nuova chance. Eterni perseguitati, costretti all'infinto a guardarsi dalle vendette altrui o espiare in eterno quel dolore di una vita rubata.

Gli altri, che non si vedono.