Elia si inoltrò nel deserto una giornata di cammino
e andò a sedersi sotto un ginepro.

(Primo Libro dei Re 19,4)

Ti offrirò una coppa di vino gustoso
E il mosto dei miei melograni.

(Cantico dei cantici 8,2)

Da alcuni anni mi reco in pellegrinaggio nel piccolo villaggio di Medjugorje, nell’Erzegovina croata e cattolica, che si trova vicino a Mostar ed è celebre da tempo in tutto il mondo in quanto da più di quaranta anni sei persone dicono di incontrarvi periodicamente la Madre di Dio: Maria, la Madre di Gesù Cristo.

Il paesino, che tale resta nonostante i numerosi alberghi necessari per ospitare milioni di pellegrini da tutto il mondo, non ha nulla di speciale dal punto di vista squisitamente umano: nessuna bellezza naturale o artistica o culturale a cui noi italiani siamo fin troppo abituati. Con il tempo ne ho apprezzato però certi carismi, all’inizio quasi non percettibili: la semplicità, il silenzio, l’atmosfera di raccoglimento diffusa, e un senso profondo di pulizia, dignità, compostezza. Valori non scontati e preziosi. Non ho mai visto una serie di piccoli villaggi come quella di Medjugorje così essenziali, puliti, semplici.

Un effetto terapeutico, disarmante, “rinfrescante” per noi occidentali dalla sensibilità esasperata e dalla percettività anestetizzata, logorata.

A Medjugorje l’animo già riposa e si ritempra solo passeggiando e guardando. Senza pensare a nulla. La stessa architettura della Chiesa parrocchiale di San Giacomo non presenta nulla di particolare; eppure, anch’essa emana un’aura di dignità, essenzialità e pulizia che appare ricca di una superiore armonia.

Starei a guardarla per ore, con lo sguardo fisso e attento ai suoi delicati dettagli: i campanili identici, le sette campate, i colori bianco-gialli, le pietre a sbalzo della fascia inferiore, le porte di bronzo, l’abside perfettamente semicircolare. Ma tutto il paese è come un’area sacra, in quanto non si dà quel fastidioso contrasto fra zona religiosa e zona profana come si avverte ad esempio a Lourdes. Qui gli alberghi sono semplici e bassi, poco differenti dai nostri più semplici condomini. Non c’è clamore ma una sottile e nascosta vitalità spirituale nell’aria… Il paese è la parrocchia con al centro la Chiesa (non a caso dedicata all’apostolo patrono dei pellegrini) e si estende tra strette strade e campi, gruppetti di case e sentieri di terra rossa e prati, tra gli estremi del colle del Podbrdo e il monte Križevac, la rocciosa altura sormontata da una grande croce bianca che la fede della popolazione elevò nel 1933. Il nome del villaggio indica proprio questo: lo stare tra le alture, in mezzo ai colli. Il paese si articola in quattro piccole frazioni: Bijakovići, Vionica, Miletina e Šurmanci che si colloca in una sorta di canyon sulle rive del fiume Neretva. Presso quest’ultimo si percepisce già il senso dell’Asia nella sequenza immensa di profili di montagne e colline che si perdono all’orizzonte, verso il Montenegro.

Medjugorje è un villaggio, segno biblico di umiltà come per Betlemme (Gv. 7,42) ma un villaggio che in 40 anni è diventato come una città, ma senza perdere un’armonica continuità vitale con la terra, gli orti, i campi, gli armenti.

Una terra dura, aspra, rossa, piena di pietre che alterna zone desertiche, carsiche a zone verdi ma selvagge, quasi incoltivabili, a boscaglia. Una luce sempre molto chiara, pulita, tersa, molto luminosa completa il quadro. Un luogo che è da sempre naturale ponte tra est ed ovest, punto di contatto da secoli fra cattolici, ortodossi e islamici. Terra di fede popolare, francescana e terra anche di martiri, come i francescani uccisi nel monastero di Sirokj Brijeg e i civili serbi massacrati a Šurmanci. L’area della chiesa si estende nel retro con una zona verde dove si allunga una Via Crucis a cappelle con mosaici e una statua di bronzo di Cristo risorto dove migliaia di pellegrini fanno la fila per omaggiare il Cristo e raccogliere con fazzolettini un liquido tipo rugiada che continua a sgorgare dalle gambe della statua, anche durante le ore più calde. Ma tutto accade nella massima naturalezza e semplicità. In chiesa è difficile entrare quanti sono i pellegrini che l’affollano per preghiere, adorazioni, Messe e momenti anche solo di silenzio e meditazione. Ci si sente a casa, e fuori dal tempo. Si recupera velocemente e facilmente un senso di normalità, sanità e di interiorizzazione che nelle nostre città è difficile vivere. Laggiù è più facile pregare, meditare, stare con se stessi e con lo Spirito. E non come fattore imitativo-replicativo in relazione ai numerosi gruppi oranti di pellegrini ma quale scelta spontanea, personale, sorgiva. Si “ritorna in se stessi” in questo ampio “santuario a cielo aperto” dove persino di notte giovani e non giovani salgono, anche a piedi nudi, sulle due sue alture teofaniche e visionarie.

Quest’anno a Capodanno mi sono accorto che molti tipi di alberi presenti nel territorio di Medjugorje rivestono significati biblici: non puoi muovere lo sguardo senza vedere melograni e fichi. Possiamo dire che ogni famiglia ha un suo melograno e un suo fico. Il melograno è uno degli alberi sacri di Israele. Il Cantico dei cantici di Salomone paragona tre volte l’Amata, cioè Israele, al melograno: come una particola di melograno, così le tue gote (Ct.4,3); e i tuoi germogli son un giardino di melograni (Ct.4,13), e ancora: come buccia di melograno così le tue guance (Ct.6,7). Verso la fine del Cantico l’Eletta parla così: guarderemo se la vigna è fiorita, se i fiori hanno partorito i frutti, se i melograni son in fiore (Ct. 7,13).

L’immagine mistica e sapienziale del melograno, con il suo colore vivo, acceso, ardente e l’unità armonica dei numerosi chicchi, accompagna tutto il sacro poema e sembra crescere con esso nel suo climax. Simile spiritualità la troviamo nella presenza del melograno nell’architettura sacra del Tempio di Gerusalemme: melograni ornavano il manto del Sommo Sacerdote (Es. 28, 33.34) e duecento melograni erano scolpiti sui capitelli delle due celebri colonne del vestibolo del Tempio (1Re 7,18.20).

Simile importanza biblica la mostra il segno del fico. Abitare sotto un fico è un segno messianico di pace e di restaurazione dell’alleanza fra Dio e il suo popolo (Is. 36,16, Michea, 4, 3.4; Zac. 3,10, 1Re 5,5) e questo albero appare un indicatore teofanico anche nei Vangeli quando Gesù scorge Natanaele, uno dei primi discepoli, sotto un fico (Gv. 1,48) e quando a Gerusalemme secca miracolosamente un fico che non dava frutti (Mc. 11, 12-14) mentre nell’Apocalisse il segno del fico è associato al tempo della manifestazione della Giustizia di Dio all’apertura del sesto sigillo (Ap. 6,13). Cristo usa l’immagine del maturare del fico quale visualizzazione dell’invito al riconoscimento dei “tempi di Dio” e in associazione al tema del Suo ritorno sulla terra (Mt. 24, 32.33).

I due colli sacri di Medjugorje sono uno basso e dolce, sormontato da una statua della Vergine ad indicare il luogo della maggior parte degli incontri iniziali con i sei giovani, il Podbrdo, che si ascende pregando il Rosario e uno cristico, virile, alto e maestoso: il Monte della Croce, che si sale pregando la Via Crucis. Il primo quale preparazione per il secondo. Una coppia di luoghi dal forte sapore biblico-vangelico quali luoghi di ascensione-purificazione interiore. L’alleanza di coppia tra colline e monti è un altro topos biblico, messianico, teofanico molto frequente.

Sopra le due simboliche alture abbondano i rovi e il segno del ginepro, anche in forma di veri e propri alberi. Il ginepro è segno di Cristo e, biblicamente, appare associato al grande profeta Elia che si riposa sotto un ginepro nel deserto mentre fugge dalla persecuzione della regina idolatra Iezabele.

Non sembra un caso che la Chiesa parrocchiale della vicina Tihaljina, che conserva quella bellissima statua della Vergine comunemente associata alla Madonna di Medjugorje, sia dedicata al santo profeta Elia e mostri anche una cappella esterna che lo raffigura, rarità iconografico-devozionale per l’Occidente al di fuori dell’Ordine Carmelitano. Il tema del fuoco celeste dello Spirito Santo è uno dei temi dominanti della spiritualità di questo luogo.

Il ginepro, della famiglia dei Cipressi, è un vegetale dalle tradizioni doti antiparassitarie, purificatorie e defatiganti. Fino a pochi anni fa appariva costantemente nelle ritualità popolari del Natale quale essenza profumata da bruciare durante le feste. Un profumo ritenuto utile per scacciare i serpenti velenosi e per purificare l’aria. Le ceneri e il succo amaro delle bacche erano ritenuti medicamentosi, oltre che segno spirituale di umiltà. Lo stesso Elia, spirito di fuoco, sotto il ginepro confessa a Dio umilmente la sua stanchezza e la sua debolezza. Il legno era considerato resistente e non marcescibile: altra qualità anche simbolica e spirituale. Ma il segno biblico più evidente e più intenso a Medjugorje sono proprio le pietre.

Tutta la terra della zona, come per la maggior parte dell’Erzegovina e della Croazia, è più ricca di pietre che di suolo. Ogni volta che mi avvicino alle due alture per salirle come pellegrino i sensi quasi si rifiutano di camminare su quell’ammasso duro di pietre dove quasi non c’è terra dove posare il piede. Una doccia fredda percettiva che purifica i sensi orientandoli all’interiorità. L’ostile ambiente esterno facilità il rientro nell’interiorità del proprio cuore quale sede meditante e ragionante.

Le pietre sono biblicamente in primo luogo luoghi testimoniali e anche supporti necessari per elevare altari a Dio (Gs. 24,27; Gn. 31, 44-54, Gn.49,24).

Mentre si sale si inizia a notare che milioni di piedi in quaranta anni hanno reso molte pietre più levigate, più dolci anche se l’attenzione nel camminare in salita e poi nella discesa deve sempre essere massima (ottimo esercizio!). Il segno è tanto semplice quanto spiritualmente fondamentale: il passaggio dalle pietre di inciampo della vita a Cristo, Roccia della salvezza (Is. 26, 4.5; 2Sam 23, 2-4) cioè la trasmutazione del nostro “cuore di pietra” in un cuore di carne (Ez. 36,26; Ger. 31.33). Cristo fonda la Sua Chiesa su una persona, e non la migliore ma certo uno spirito tenace e forte, cambiandogli il nome: da Simone a Kefa, Pietro (Mc.3,16).

La spiritualità cristico-mariana di Medjugorje insiste spesso sull’immagine del cuore da convertire; il cuore quale centro essenziale di senso e della vita. Mentre si ascendono queste alture viene naturale meditare assimilando la durezza povera degli ammassi di pietra all’essenza di una vita liberata da illusioni e maschere e non ancora rivestita delle ricchezze divine.

Quelle pietre appaiono immagini naturali del nocciolo duro dell’esistenza che siamo comunque chiamati a calcare, secondo un ritmo semplice, umile, diretto fino al raggiungimento di una meta, più alta, che dà senso al salire stesso, altrimenti insensato.

La poca terra è sempre intensamente rossa e questo ulteriore segno non può non rinviare all’Adam della prima umanità e del Paradiso terrestre e della sua perdita come pure ai mattoni della schiavitù in Egitto. È l’argilla biblica che può essere debole e inerme ma pure docile nelle mani del Vasaio (Is. 29,16; 64,7). Tutto attorno cespugli di spine: come il giglio tra le spine così colei che mi ama tra le figlie (Ct. 2,2). Non si è manifestato Dio nel deserto a Mosè come Voce nel fuoco fra i rovi? Colli e monti denudanti, che riducono all’essenza i fumi tortuosi della mente. La scelta è una sola: essere pietra viva (1Pt. 2, 4.5) o durezza senza senso, ostacolo o appoggio. Cristo pietra di fondamento (Is. 28, 16.17) aiuta a trasformare la durezza del fondo della vita in occasione di salita verso il Cielo, verso la Gerusalemme celeste (Ap. 21,11).

Tutto a Medjugorje è segno pur nella semplicità e trasparenza; più che simbolo cioè non un qualcosa che rinvia solo lontano ma segno quale un reale presente incontro di senso intimo che avvicina, immagine viva e parlante, come le immagini bibliche richiamate da San Paolo quali prefigurazioni perenni a cui tutti noi partecipiamo anche se non ne siamo consapevoli: “I nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo”, (1Cor. 10, 2-4), e ancora di più: “Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli”, (Eb. 12, 22.23).