Dalle recite scolastiche ai teatrini delle parrocchie fino al grande cinema con alcuni romanzi disseminati lungo il percorso. Certo non è facile farsi largo tra case editrici, organizzatori di eventi, produttori teatrali e registi, soprattutto se si è molto giovani e anche donne. Ma qualche volta succede che passione e talento superino tutti gli ostacoli e arrivino fino al traguardo. Annick Emdin ha oggi 30 anni ed è uno dei tre autori che ha firmato la sceneggiatura del film di Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno, tra i primi dieci film di quest'anno in classifica al box office.

E intanto continua a lavorare come drammaturga a teatro. Già sette opere nate dalla sua penna sono state rappresentate: Matrioska, Bambole usate, Medea, La sposa guerra, La morte non esiste, Per amore di Johnny Panic, La seconda scelta. Il suo primo libro, Lividi, esce quando ha appena 22 anni, seguito nel 2020 dal secondo romanzo Io sono del mio amato.

Due splendide gemelline, Ariel e Myriam, sono arrivate da pochi mesi, ma questo non ha impedito la scrittura di un nuovo romanzo, in uscita il prossimo autunno per i tipi di Astoria. Un altro romanzo ancora, un fantasy, è pronto nel cassetto in attesa dell'editore.

Nel 1985, quando lei non era ancora nata, Gianni Morandi cantava: Uno su mille ce la fa, ma quanto è dura la salita. È stato difficile per lei arrivare in cima alla montagna?

Io sono ancora per la strada. Quello che posso dire è che sono arrivata fino qui senza mai dover chiedere niente. Però è un percorso imprevedibile e fortuito. Molto più di quanto si possa pensare. Ci devono essere talento e impegno, ma anche una buona dose di fortuna.

Si sente ottimista?

Non proprio. In realtà penso che realizzarsi sia un combattimento continuo.

Quando ha cominciato a scrivere?

Credo di averlo sempre fatto. Era mia abitudine segnare le mie impressioni e inventarmi storielle fin da bambina.

Cosa significa scrivere per lei?

Scrivere è il tentativo di mettere in contatto mondo interno e realtà, storie familiari e storie del mondo. Scrivere vuol dire anche cercare di dare risposte a domande eterne. Però poi ci si accorge che quelle risposte in realtà sono altre domande e allora si scivola sui paradossi fino alle contraddizioni dell'animo umano.

30 anni, cosa vuol dire? Che stagione è della vita?

Di quelle che ho conosciuto sicuramente la migliore. È un'età in cui si capiscono alcune cose in più, ma ce ne sono molte altre ancora da esplorare. Con il vantaggio che adesso conosco finalmente un po' le regole e mi sento meno spersa.

Scrittrice, drammaturga, scenografa e ora anche madre. Come fa a fare tutto?

Ci riesco grazie alla famiglia e a una serie di persone che mi aiutano, ma è un impegno immenso. Purtroppo, non è così per tutte le donne. Quello che nel 2022 in Occidente viene chiesto alle donne, cioè essere lavoratrici, madri ed efficienti in casa, è impossibile. Il capitalismo ha prodotto un tipo di società in cui un partner deve lavorare e l'altro accudire i figli. Una mamma è una mamma prima di tutto e la nostra società ci chiede di rinunciare a noi stesse. E questo non è giusto.

Lei ha dovuto rinunciare a qualcosa?

Come dicevo, ho avuto l'aiuto incondizionato di tutta la famiglia e il privilegio di poter contare su una tata. Ma anche così trovare il momento per scrivere è raro. È diverso rispetto a prima. Si deve trovare la maniera di circoscrivere la propria ispirazione e lasciarla in un compartimento stagno fino a quando la casa dorme e ci si può sedere a scrivere.

Considera i figli un traguardo?

Sì, certo, per chi li desidera. Fanno parte delle scelte personali di un uomo e di una donna. Credo che possano aprire anche prospettive nuove nella vita di un'artista.

E il matrimonio?

Non è necessariamente un traguardo. Soprattutto è una festa.

Cosa insegnerà ad Ariel e Myriam?

A pensare con la propria testa e a dimostrare le loro ragioni con la forza degli argomenti. Sogno il giorno in cui mi contraddiranno e alla fine di una discussione mi toccherà dar loro ragione.

L'Ombra del giorno è stata la sua prima esperienza cinematografica. Cosa le ha insegnato?

Essendo una scrittura a più mani mi ha insegnato a collaborare con la mente delle altre persone. Non lo avevo mai fatto prima. Abbiamo lavorato in tre, Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella e io. Da Giuseppe, che è un regista eccezionale, ho appreso la cura dei dettagli, l'importanza dello sguardo, del punto di vista, del sogno e di come lanciare il cuore oltre l'ostacolo. Lavorare con loro è stata un’esperienza formativa in tutti i sensi, perché mi ha fatto crescere non solo sul piano professionale, ma anche umanamente.

Raccontate una storia vera?

Non vera, ma verosimile. Tutto parte da un'idea di Piccioni, poi ognuno ha inserito le sue impressioni, cercando insieme il modo migliore di elaborare la narrazione.

Una storia di guerra e di persecuzioni. Siamo agli albori della Seconda guerra mondiale e delle leggi razziali.

Ci interessava soprattutto raccontare il modo in cui il fascismo ha illuso gli italiani e come siano stati in molti a crederci. E come sulle sue promesse luminose si siano profilate sempre più ombre.

Siamo abituati a vedere Riccardo Scamarcio, l'interprete principale del film insieme a Benedetta Porcaroli, nel ruolo del bello un po' prepotente. Questa volta invece veste i panni di un personaggio che deve fare i conti con un conflitto interiore. Oltretutto Scamarcio è anche il produttore del film.

Sì, lui ci ha creduto fino in fondo a questo film e sulla scena è stato di una bravura eccezionale. Ha saputo portare nel ruolo di Luciano un'ineffabile timida risolutezza, con una recitazione intensa, ricca di sguardi e sfumature che riescono ad esprimere l'inespresso, l'inesprimibile che si cela tra le righe del copione e della vita.

Il cinema deve farci divertire o riflettere? Oppure deve regalarci dei sogni?

Tutte e tre le cose. Deve farci riflettere, perché altrimenti sarebbe solo vuoto intrattenimento. Deve trascinarci dentro una finzione e farci pensare senza farcelo capire. Insomma, mentre ci fa divertire ci deve anche far riflettere. Ma deve anche essere un sogno. Lo spettatore è invitato ad entrare e vivere questo sogno, per poi uscirne quando si accendono le luci di sala. Se quel sogno gli rimane in qualche modo addosso, vuol dire che il film ha funzionato. Noi speriamo di essere riusciti a creare questa magia.