Leonardo Manera, all’anagrafe Leonardo Antonio Bonetti, non è soltanto un comico, cabarettista, attore e conduttore radiofonico italiano, è un alchimista della risata, capace di fondere ironia e profondità in un equilibrio perfetto. Nato a Milano e cresciuto a Salò, frequenta il liceo e successivamente si iscrive a Giurisprudenza, senza tuttavia conseguire la laurea, perché il destino lo spinge verso il palcoscenico, dove la sua comicità raffinata e surreale conquista il pubblico.

Cabarettista ed autore dei suoi testi, Manera ha ottenuto numerosi riconoscimenti a livello nazionale. Nel 1996 vince il "Festival Nazionale del Cabaret" e l’anno seguente si aggiudica il "Festival di Cabaret Città di Cremona" e il premio della critica alla "Zanzara d’Oro", trasmesso su Rai 1. Nel 2011 riceve il prestigioso Delfino d’Oro alla carriera come miglior cabarettista dell’anno al Festival Nazionale Adriatica Cabaret. Poi gli anni d’oro di Zelig. La sua carriera è costellata di successi, grazie anche a personaggi iconici come Petrektek, frutto della collaborazione con Claudia Penoni, nel ruolo di Kripztak: una geniale parodia del cinema polacco, ispirata in realtà ai film del regista finlandese Aki Kaurismäki.

Il teatro lo vede protagonista con spettacoli che hanno segnato la sua carriera, tra cui Se non m'illudo mi chiudo (2000), Abbracciati da sola che c'ho d'andar via (2002) e Aspetto e spero (2003-2005), diretto da Paola Galassi. Con la regia di Marco Rampoldi, ha interpretato Costole (2006-2008), Notti amare (2008-2009), il monologo Italian Beauty – Viaggio in un paese di mostri (2010-2011) e L’ottimista – Il Candido di Voltaire (2013). Ultime produzioni sono “Homo modernus” e “Corto circuito”.

Anche in ambito radiofonico, Manera si è distinto per la sua versatilità. Su Radio 2, tra il 2004 e il 2005, conduce Sumo con Giovanna Zucconi, un programma di approfondimento e intrattenimento su temi di attualità e cultura. Dal 2014 approda su Radio 24, dove conduce Platone, la caverna dell’informazione insieme ad Alessandro Milan. Tra il 2017 e il 2018 è alla guida de I Funamboli e, dal 2018, conduce il programma Uno, nessuno, 100Milan.

La carriera televisiva di Manera è costellata di partecipazioni a programmi comici di successo, tra cui State boni, Seven Show, Paperissima, Quelli che il calcio, Ciro, Belli dentro, Zelig, Zelig Circus, Zelig Off, Colorado e Made in Italy. Nel 2009, è stato il conduttore del varietà televisivo Grazie al cielo sei qui, in onda su LA7. Più recentemente, nel 2022, ha partecipato come concorrente al programma Celebrity Chef di Alessandro Borghese, trasmesso su TV8.

Ma Manera non è solo un artista: il suo impegno nel sociale, come testimonial dei City Angels e di molte altre associazioni, ne svela la sensibilità umana. Personalmente, ho avuto il privilegio di incrociare il suo cammino su diversi set pubblicitari. Un incontro che lascia il segno, perché Manera non è solo un comico, è un narratore di emozioni, un artista che sa trasformare la vita in spettacolo e lo spettacolo in vita.

Cosa ti ha spinto a scegliere la comicità come professione? È stata una vocazione o un caso fortuito?

In realtà non ho mai fatto altri lavori. Ho iniziato a 17 anni e da allora è stata la mia unica professione. A 14-15 anni vidi uno spettacolo di magia comica a Salò e ne rimasi affascinato. Da lì nacque l’idea: comprai un’enciclopedia di magia, misi su il mio primo spettacolo a Capodanno dell’84 in un hotel di Salò e poi iniziarono ad arrivare le prime chiamate. Trasferitomi a Milano, ho proseguito il percorso.

Perché hai scelto la comicità e hai abbandonato la magia?

Per i primi dieci anni ho fatto un po’ di tutto: animazione per bambini, magia comica nei locali di cabaret e persino spettacoli in club privati, esibendomi per venti minuti prima che aprisse il privé. Poi ho partecipato ai primi concorsi di cabaret e ho deciso di dedicarmi solo alla comicità pura, con personaggi e monologhi.

Quindi diciamo che non hai mai avuto dubbi sulla scelta fatta?

No, anche perché mi permetteva di dormire la mattina! Ahaah! Ora con la radio devo alzarmi presto, ma fino ai 50 anni ho sempre evitato le sveglie all’alba.

È cambiato il mondo della comicità da quando hai iniziato ad oggi?

Molto, direi. Quando ho iniziato c’erano stili molto diversi anche uno dall’altro. Ora i nuovi comici fanno quasi tutti i cosiddetti stand-up. È un genere valido, ma la somiglianza tra loro ha ridotto la varietà e questo non è un bene.

Hai un metodo preciso per scrivere o affinare i tuoi monologhi o è un processo più istintivo?

All’inizio è istintivo: un’idea nasce camminando, ascoltando una parola, guardando un film o persino da un’osservazione di mio figlio. Poi la affino, spesso proprio camminando e solo dopo la scrivo. Devo anche dirti che stranamente, le idee migliori arrivano sotto la doccia: il cervello si libera e, paradossalmente, emergono le intuizioni migliori.

Qual è stato il momento più divertente o imbarazzante della tua vita personale che ti ha ispirato magari uno sketch successivo?

Uno dei primi personaggi che ho fatto è il ventriloquo, che è quello con cui ho vinto tanti concorsi di cabaret nel ‘96. L’idea è nata dopo che, lavorando alle feste per bambini, mi esplose un palloncino nell’occhio. Dovetti portare una benda per giorni, così ho creato un personaggio a cui succedeva sempre qualcosa all’occhio, trasformando un incidente in comicità.

Tra tutti i personaggi che hai interpretato ce n'è uno che ti somiglia di più?

Probabilmente “Peter, il Ragazzo Bresciano”, perché raccontava la vita di provincia che ho vissuto da adolescente.

Secondo te cosa serve per rendere un'intervista divertente, ma allo stesso tempo interessante?

È fondamentale arricchirla con aneddoti curiosi e situazioni inaspettate che facciano sorridere il pubblico. Ad esempio, durante i miei spettacoli nei locali di scambio di coppia, mi è capitato di esibirmi davanti a spettatori che si spogliavano ancor prima dell’inizio, trovandomi così a performare di fronte a un pubblico completamente nudo. Racconto spesso questo episodio nei bis dei miei spettacoli, scherzando sul fatto che mi piacerebbe rivivere quell’esperienza, ma, ahimè, il pubblico attuale non sembra mai e per niente così collaborativo!

Raccontami un altro aneddoto

Un altro aneddoto che ricordo dei primi anni riguarda una serata in discoteca piuttosto surreale. Sono arrivato alle 22, ma il proprietario mi ha detto che era troppo presto per esibirmi. A mezzanotte, quando ho chiesto di iniziare, mi ha risposto che il pubblico era nel pieno del ballo e non si poteva interrompere. Alle 3 del mattino, ormai rassegnato, sono tornato da lui e stavolta la risposta è stata: "Beh, come vedi, la gente se ne sta andando, quindi ormai è troppo tardi." Alla fine, però, almeno mi hanno pagato!

La comicità è una forma di difesa, un'arma, una terapia, un atto di ribellione; o forse tutte queste cose insieme?

Giorgio Gaber diceva che lo spettacolo è una forma di terapia, e io sono completamente d’accordo con lui. Quando ti accadono certe cose o rifletti su ciò che vivi, rielaborarle e raccontarle sul palco diventa un modo per affrontarle e dare loro un senso. Ma non è solo una terapia per chi si esibisce, lo è anche per il pubblico che ascolta. In fondo, la comicità è sempre servita ad esorcizzare le grandi paure della vita: la fame, la morte, le difficoltà quotidiane. Ridere aiuta a sdrammatizzare, a prendere le distanze dai problemi e, in qualche modo, a renderli più sopportabili.

I comici fanno ridere gli altri, ma chi fa ridere un comico quando la vita diventa pesante?

Purtroppo nessuno! Anche se devo dire che, quando era più piccolo, mio figlio mi faceva ridere tantissimo. Mi accompagnava spesso agli spettacoli e condividevamo tanti momenti divertenti insieme. Ora che è adolescente, ha altre cose per la testa… quindi, diciamo che le risate sono un po’ diminuite!

C'è rivalità tra voi comici?

Come in tutti i lavori, esiste una certa rivalità, ma spesso è uno stimolo positivo. Ci sono colleghi che sono anche amici, e quando vedi un comico fare qualcosa di bello, da un lato lo invidi un po’, ma dall’altro senti il desiderio di migliorarti, di trovare nuove idee che funzionino altrettanto bene. Dopotutto, per diventare comici è fondamentale osservare gli altri. Nei miei primi anni, guardavo e riguardavo gli spettacoli dei comici che ammiravo, fino a conoscerli a memoria. Era un esercizio prezioso, perché ti aiuta a interiorizzare ritmi, tempi e dinamiche della comicità.

Secondo te c’è differenza tra la comicità italiana e quella straniera?

Negli Stati Uniti c’è sicuramente più libertà, nonostante anche lì esista il politicamente corretto. Da noi, invece, bisogna stare attentissimi a ciò che si dice, a volte in modo eccessivo. Un esempio? La battuta di Benigni all’ultimo Festival di Sanremo, quando ha incontrato Marcella Bella e le ha detto: "Bella ciao". Era un gioco di parole innocuo, eppure è stato subito riportato come se fosse una battuta di satira tagliente. In Italia ormai tutto può diventare motivo di polemica, anche quando non ce ne sarebbe davvero nessun bisogno.

Se la risata fosse una moneta, cosa compreresti con tutto il patrimonio accumulato in anni di carriera?

Ah beh, tutto sommato, penso che in un modo o nell'altro, ho sempre fatto ridere, quindi penso che un bel villone con giardino in centro a Milano, potrei proprio comprarlo.

Come per gli attori, esiste una “solitudine del comico”? Una sorta di tristezza dietro il sipario?

Come gli attori, anche i comici possono sperimentare una certa solitudine. Sul palco si dà il meglio di sé, si sprigiona energia, si fa ridere, ma nella vita privata si può essere più riflessivi. Chi ci conosce solo attraverso le esibizioni a volte rimane spiazzato: “Ma come? Sul palco sei così travolgente e poi nella vita sei diverso!” La mia risposta? “Per fortuna”! Essere sempre come sul palco sarebbe insostenibile, per me e per gli altri. Certo, magari nella vita normale siamo insopportabili in un altro modo… ma sicuramente c’è un po’ di quella solitudine di cui si parla.

Non è il tuo caso, lo abbiamo capito, ma se tu dovessi abbandonare la comicità, quale sarebbe la carriera completamente diversa che potresti intraprendere?

Ormai sono vicino all’età pensionabile, quest’anno compio 58 anni, ma se non avessi intrapreso questa carriera, probabilmente sarei diventato magistrato o avvocato. Da ragazzo ero affascinato dalla giurisprudenza: a 15 anni ascoltavo i processi trasmessi da Radio Radicale, in particolare quello di Enzo Tortora e mi appassionava il dibattito giuridico. Avevo iniziato l’università e dato alcuni esami, ma lavorando la sera non riuscivo più a frequentare le lezioni di mattina, quindi ho dovuto abbandonare. Però sì, quello sarebbe stato un lavoro che avrei fatto volentieri.

Se il pubblico non ridesse più delle tue battute penseresti di essere cambiato tu o di essere rimasto lo stesso mentre il mondo andava avanti?

Credo che ogni comico si porti dietro il proprio pubblico. Nel tempo ho visto il cambiamento: oggi chi viene ai miei spettacoli non è più giovanissimo. I giovani tendono a seguire comici più vicini alla loro generazione, spesso appartenenti alla stand-up comedy. È normale: il pubblico evolve, cambia gusti e aspettative e il comico ha il dovere di capire la società in cui si trova. Se un giorno dovessi accorgermi che non c’è più riscontro, significherebbe che non sono più in sintonia con il pubblico. A quel punto o si cambia qualcosa… o si smette.

Qual è l'aspetto del tuo lavoro che ami di più e quale invece quello che ti pesa di più?

Quello che amo di più è sentire il pubblico che ride. La risata è una forma di comunicazione spontanea, non si può forzare, ed è proprio questo a renderla così speciale. Quando sei sul palco e senti ridere, si crea un legame autentico tra te e il pubblico, un momento vero e irripetibile. La parte meno bella, però, è che tutto questo è anche una grande illusione. Perché mentre sei lì, hai la sensazione di aver stabilito una connessione profonda con chi ti ascolta… ma poi la serata finisce, il pubblico torna alla sua vita e tu spesso torni a casa da solo, nella tua solitudine.

Se dovessi spiegare ad un alieno che cos'è l'umorismo terrestre come glielo descriveresti?

Direi che è un modo per ridere dei problemi che hanno tutti. È un modo per superare o credere di superare i problemi attraverso un momento di buon umore.

Se ti potesse essere concesso di tornare indietro nel tempo ed incontrare il Leonardo Manera agli inizi della carriera, quale consiglio gli daresti?

Gli direi di trovare una buona agenzia che creda in lui. In questo mestiere, le pubbliche relazioni sono fondamentali, e io, onestamente, in quello sono sempre stato un disastro. Credo di avere buone capacità di lavoro e di rinnovamento, ma costruire rapporti, farsi conoscere nei giusti ambienti, è una parte essenziale del successo. Quindi il consiglio sarebbe: “investi su questo aspetto o trova qualcuno che lo faccia per te!”.

Qual è la cosa più assurda o imbarazzante che ti è capitata su un palco?

Una delle situazioni più imbarazzanti mi è successa durante le registrazioni di Ciro, credo fosse il ‘98 o ‘99. Stavo girando uno sketch con Barbara Enrichi, attrice de Il Ciclone, in cui lei doveva strapparmi i pantaloni, che erano tenuti con il velcro. Peccato che, nel farlo, si portò via anche le mutande… e mi ritrovai completamente nudo davanti a un pubblico di circa 400 persone! Come se non bastasse, il regista, con grande spirito sadico, decise di zoomare più volte sulle mie parti intime. Insomma, una scena che decisamente non dimenticherò!

E come ne sei uscito?

E niente, ho cercato di rimettermi le mutande il più in fretta possibile.

Se la vita fosse un gigantesco spettacolo comico quale sarebbe la battuta finale?

Andate in pace.

Abbiamo avuto modo di lavorare insieme su set pubblicitari. C’è qualcosa che ti ha colpito del mio modo di dirigere? Qualcosa che non ti aspettavi?

Nel mondo della regia capita spesso di incontrare persone che impongono la propria visione in modo rigido e autoritario. Con te, invece, ho notato un approccio diverso: anche nelle inevitabili difficoltà di un set, il tuo punto di forza è sempre stata la ricerca della collaborazione. E questo fa la differenza. Lavorare in un’atmosfera rilassata non solo rende tutto più piacevole, ma porta anche a risultati migliori.

Ora ribaltiamo le parti. Tu sei il regista e devi dirigermi in un monologo comico. Qual è il personaggio che mi vedresti interpretare?

Mi piacerebbe vederti in un ruolo completamente opposto a come immagino tu sia, pur non conoscendoti bene. Ti vedrei interpretare “Donato Sprecacenere”, un ragazzo dal carattere fumantino, che si arrabbia facilmente e diventa aggressivo alla minima provocazione. Proprio perché mi sembri l’opposto di quel tipo di persona, sarebbe interessante vederti dare vita a un personaggio così lontano da te.

Pensi che la comicità abbia il potere di cambiare la società?

No, cambiarla no, ma la può rendere in qualche momento un po' più serena. Oppure può far vedere i limiti della società perché a volte il comico può mostrare le cose come sono veramente senza sovrastrutture. Questo è un grande potere che può avere la comicità.

Come ti relazioni con i temi di attualità nei tuoi spettacoli?

Lavorando anche in radio e dovendo fare qualcosa tutti i giorni, faccio spesso dei monologhi anche di attualità e c'è sempre qualcuno che si offende. Ti mandano insulti, te li scrivono, però penso anche che sia normale. All'inizio mi dispiaceva, adesso invece mi sono abituato e credo che faccia parte del gioco.

C'è un messaggio che speri di trasmettere attraverso il tuo lavoro?

Beh, sai, secondo me, non è che si debba dare un messaggio, anche se quando faccio uno spettacolo intero c’è comunque un po' di storia, un filo conduttore e alla fine penso che, magari se proprio non un messaggio specifico, ne esca in ogni modo una visione della vita.

Che colore vorresti essere?

Grigio chiaro.

Qualcosa di più colorato?

Vivo a Milano da tanti anni, quindi mi identifico con il cielo.

C’è stato un incontro che ti ha cambiato la vita?

Dal punto di vista del lavoro è Walter Valdi, comico milanese, che ha scritto anche canzoni per Jannacci. L’ho conosciuto quando lavoravo alla Cabianca qui a Milano, fine anni ’90. Mi piaceva molto il suo modo di stare sul palco e di porsi al pubblico. Quello posso dire che è stato un modello al quale mi sono ispirato.

Che genere di musica preferisci?

Sono cresciuto con i cantautori e il mio preferito è sempre stato Paolo Conte.

Il tuo piatto preferito?

I classici di Natale che preparava mia madre: tortellini in brodo fatti a mano, vitello tonnato e lasagne. E poi ho una passione per l’insalata russa.

Ti piace fare del volontariato, non è da tutti.

Se puoi fare qualcosa di utile per qualcuno, perché non farlo? Ogni anno partecipo ad almeno una ventina di spettacoli benefici per diverse associazioni. È un modo per restituire qualcosa, ma anche per me stesso: mi aiuta a prendere coscienza della realtà e a rendermi conto di quanto sono fortunato.

Prima accennavi che sei vicino alla pensione. La desideri o continuerai a fare spettacoli ed a creare nuovi personaggi?

Mi piace ancora esibirmi. L’unica cosa che mi pesa è viaggiare per tante ore: stare in macchina troppo a lungo è una sofferenza per la schiena.

Chi è Leonardo Manera?

Leonardo Manera è uno che a quasi cinquantotto anni, non ho ancora trovato una sua precisa identità. E questo è un bel problema. Sul palco so cosa faccio, ma nella vita devo ancora un po' capire chi sono e forse questa è la cosa che mi pesa di più. Sul palco sono contento e sto bene, ma nella vita privata, purtroppo, ancora devo capire esattamente chi sono.

E qui termino l’intervista con un pensiero personale.

Lasciami concludere aggiungendo che Leonardo Manera, è un uomo che ha fatto della risata il suo mestiere, ma soprattutto il suo linguaggio. Un artista capace di far vibrare il silenzio con l’eco di un sorriso, di trasformare le fragilità in ironia, di alleggerire il peso della vita con la magia di una battuta. Tuttavia, dietro il comico c’è l’uomo e dietro l’uomo c’è una ricerca incessante, un viaggio interiore che non si è ancora concluso. Forse non si concluderà mai, perché chi vive di arte è condannato alla meravigliosa condizione dell’inquietudine.

C’è qualcosa di profondamente poetico in chi riesce a far ridere gli altri senza sempre riuscire a trovare lo stesso sollievo per sé. Ed è proprio in questa contraddizione che Leonardo diventa straordinariamente umano: un uomo che sul palco ha trovato la sua casa, ma che fuori da esso è ancora in cammino, con la consapevolezza che ogni risata strappata al mondo è una piccola rivoluzione.

A lui va un grazie sincero, non solo per i momenti di leggerezza che ci ha regalato, ma per l’autenticità con cui si è raccontato. Perché non è scontato spogliarsi delle proprie certezze ed ammettere, con umiltà e ironia, che la vita è un copione che impariamo a recitare giorno dopo giorno, senza mai sapere esattamente quale sarà la battuta successiva.