Nel grande salone della vecchia casa dei nonni, attirava la mia curiosità di bambino una porta bianca e dorata a due battenti sempre chiusa. Non chiedevo cosa ci fosse al di là, abituato alle risposte sbrigative ed evasive dei miei genitori che sembravano sempre troppo indaffarati e sempre troppo afflitti dalle loro preoccupazioni di adulti, per perdere tempo con le domande inutili di un bambino. Del resto nella casa dei nonni non ci si tratteneva più di un mese, per lo più luglio, per fare i bagni in quello stupendo mare che era a un passo da casa, e il tempo che rimaneva per godersi le curiosità intriganti di quegli ambienti antichi, non sembrava bastare mai. I nonni, che non avevo conosciuto, erano stati collezionisti delle stranezze più inimmaginabili, e curiosare nei cassetti e negli stipetti era uno spasso irrinunciabile. E poi la stufa di pietra dell’ingresso, la vecchia cucina a legna, le arcate della parte inferiore di un grosso mobile che sembrava un palazzo antico erano compagni fantasiosi di gioco sempre divertentissimo.

Poi la porta. La porta chiusa. Che mai poteva esserci dietro? Che stanze o che corridoi c’erano oltre quel confine? Cosa potevano averci nascosto i nonni? Perché i miei genitori non ne parlavano mai? Avevo provato a picchiarci col pugno, ma il rumore che ne era seguito non era stato tale da darmi utili indizi. Eppure, le due maniglie di ottone lucidissimo sembravano in piena efficienza e la serratura, a guardarla da vicino, appariva in condizioni tali che una chiave, sicuramente conservata accuratamente da qualche parte dai miei, poteva sicuramente aprire.

Poi smettemmo di andare d’estate in quella casa. Non si era più bambini - che diamine! - e continuare ad andare in Puglia con mamma e papà per il bagno sulla spiaggia sotto casa, per carità, era diventata cosa noiosa, assurda e infantile. Si cominciavano a preferire posti più di moda, più costosi e più scomodi. Ma rimase sempre costante, ricorrente e piacevole il ricordo delle chiffonnière, dei bauht, dei larghi divani sovrastati dalle specchiere, e del mistero della porta chiusa.

Poi da grande, intuii il suo segreto. E a svelarmelo fu, per quanto possa sembrare inverosimile e paradossale, Dino Buzzati. A leggere i suoi racconti riuscii a figurarmi le stranezze, le meraviglie e gli orrori, che quella porta poteva celare e per i quali i miei genitori mantenevano sicuramente la promessa fatta ai nonni di tenerla sempre chiusa.

E Buzzati divenne, anche per questo, uno dei miei scrittori preferiti. E lo è anche adesso che a cinquanta anni dalla sua prematura scomparsa e a settanta dalla mia lontana nascita, mi piace rileggerlo con trasporto e raccontarlo poi con entusiasmo a chi ha la pazienza di ascoltarmi.

Perché, a pensarci bene, forse anche io da bambino mi sono sentito come il sottotenente Giovanni Drogo, protagonista del suo capolavoro, Il deserto dei Tartari, che attende nella sua fortezza l’arrivo dei nemici, mentre continuavo ad aspettare che mio padre un bel giorno aprisse, per qualche motivo, quella porta e ne facesse uscire i fantasmi che sicuramente vi si affollavano dietro. Magari i fantasmi di eroi ottocenteschi che si erano battuti per amore di giustizia, come il nonno rivoluzionario socialista, che stando al racconto di mio padre, aveva rifiutato nientemeno che un’onorificenza del regno. Ma siccome quella casa era molto antica, la stanza vietata forse poteva nascondere lo spirito inconsolabile di un avo giustiziato per aver partecipato alla cospirazione carbonara della quale ci aveva parlato a scuola con tanto trasporto il maestro. O, chissà, vi aleggiava ancora l’anima inquieta di una vecchia zia uscita di senno, della quale tutti si vergognavano? O forse c’erano custoditi compromettenti documenti o addirittura vecchie armi?

Ma anche altre ansie infantili e giovanili attese senza speranza, poi dimenticate col sopraggiungere della maturità, mi sono state riportate alla mente proprio da alcune pagine di Buzzati, come la paura del buio, l’angoscia della solitudine, il fastidio per divieti e luoghi proibiti. Ancora oggi, quando prendo una Freccia Rossa che fa Roma-Milano tutta d’un fiato, di fronte all’inesorabilità di quella corsa a trecento all’ora tra semafori sempre verdi, riavverto l’ansia indotta da un suo racconto di passeggeri che viaggiano su un treno super rapido verso Nord e guardano, stupefatti e impauriti, fiumane di gente che in massa scende contro corrente verso il Sud, senza nessuna possibilità di frenare quella corsa o di poter chiedere a qualcuno cosa mai stia accadendo.

I racconti più coinvolgenti e, ad un tempo più sconvolgenti e inquietanti, sono proprio quelli che infrangono le regole della nostra vita, delle nostre cose e dei nostri corpi, raccontandoci fatti e fenomeni ai confini della realtà, e spesso ben oltre la realtà, rendendoli naturali, plausibili e possibili. Come l’ossessionante martellare di una goccia che, invece che cadere, sale montando su una scalinata. O l’intrigo di una giacca magica nella cui tasca ogni volta che l’incredulo possessore infila una mano, trova del danaro, ma scopre che ogni volta che svuota la tasca di questi inattesi quattrini, lontano da lui un altro uomo incappa in una disgrazia.

Ma il motivo della poetica di Buzzati che più ci ha stregato è proprio quello dell’attesa. L’attesa di una imminente e oscura tragedia incombente sugli spettatori che a teatro, a fine della rappresentazione, rimangono bloccati dalla paura di uscire. L’attesa, accesa dall’acquisto un panettone, di un Natale almeno sereno in tempo di guerra e di bombardamenti. L’attesa del paziente di una clinica, dove sono ospitati ai piani alti i malati meno gravi e a quelli più bassi quelli terminali, che, portato giù da un piano all’altro con la scusa d’una momentanea inagibilità delle stanze, giunto a piano terra, mentre aspetta di tornare su al posto che gli compete, volge il suo ultimo sguardo a una persiana che lentamente si abbassa.

Poi, a libro chiuso, vien fatto di domandarsi se non sia preferibile continuare a vivere di perenne attesa, piuttosto che scontrarsi con la fredda e banale realtà che ti resta dopo aver tanto aspettato.

La decisione alla fine è presa, quando ormai la generazione dei grandi non c’è più. Lasciamolo demolire e ricostruire il palazzetto dov’è l’appartamento dei nonni, prima che, decrepito com’è, venga giù da solo, e visto che non ha davvero niente di monumentale, come ci assicurano gli organi competenti, per cui valga la pena restaurarlo.

Però, perbacco, una visita al vecchio appartamento dei nonni, quasi un pellegrinaggio sentimentale va fatto, se non altro per recuperare qualche ninnolo sfuggito alla rapacità antiquariale delle zie arpie. E rieccolo, finalmente, il vecchio, grande, salone. Che emozione! Che poi non è così monumentale come lo ricordavo. E la mia porta? Sta ancora lì in fondo al salone. E al di là dei battenti, adesso quasi impudicamente spalancati, c’è solo una stanza dell’ala di quell’immenso appartamento che era stata data in affitto. E oltre le carte da parati rosse sbiadite e un po’ strappate, una finestra coi vetri rotti e il pavimento un po’ sconnesso, non c’è assolutamente niente.

Ma quando racconto ai miei nipotini la storia della mia infanzia, mentendo spudoratamente, continuo a parlare del mio rammarico per non aver mai scoperto il mistero di cosa ci fosse dietro quei battenti bianchi e dorati. E mi piace fantasticare - che male c’è? - che se Buzzati avesse vissuto l’esperienza di una porta sempre chiusa nella casa dei suoi nonni e avesse avuto la possibilità di raccontarla ai suoi nipotini – chissà se ne ha avuti! – si sarebbe comportato proprio come me, rimuovendo volutamente dalla memoria di averla alla fine vista aperta sul niente.