C’è un silenzio che oggi manca.
Un silenzio pieno di voci: il fruscio degli alberi, i passi tra le foglie, l’odore della terra quando si bagna, il rumore secco di un ramo spezzato.
Era il suono dell’infanzia, delle domeniche passate nei boschi con mio padre.
A cavallo, a piedi, più tardi in moto, andavamo a far legna.
Mi insegnava a riconoscere ogni viottolo, ogni albero, ogni traccia.
Non era solo orientamento. Era rispetto. Era cultura. Era amore per ciò che cresce senza chiedere nulla.
Mio padre è morto tre anni fa.
Da allora, quei boschi mi chiamano più forte. Forse perché sento che qualcosa lì si è interrotto. Forse perché, come accade con i sapori perduti, si cerca di ritrovarli quando non ci sono più. Ma oggi, più che mai, quei boschi stanno morendo.
E non sono i lupi, né gli orsi, né i cinghiali a minacciarli.
Il problema siamo noi.
Noi che non ci andiamo più.
Ci dicono che dobbiamo avere paura.
Dicono che i lupi sono troppi, che gli orsi “invadono” i paesi, che i cinghiali distruggono i raccolti.
Ma io quei lupi li ho visti. In Veneto, non in un documentario.
Due esemplari bellissimi. Silenziosi, dignitosi, presenti.
Non erano una minaccia. Erano natura che si prende il suo spazio.
Gli animali non sono mai un problema, fino a quando non siamo noi a diventarlo.
La caccia, quella vera, non esiste più.
Non sono vegano, lo dico subito. Lavoro con la carne.
Ma la caccia non è più quello che era: non è più un gesto rituale, vitale, necessario.
È diventata un diritto arrogante, una giustificazione basata sulla paura, sulla nostalgia malata del dominio.
Un tempo la caccia faceva parte di un ciclo. Oggi è solo un’interruzione.
Abbiamo perso il rapporto con il bosco.
E così facendo, abbiamo perso anche il rapporto con noi stessi.
La natura non è solo panorama. È scuola, è sapere.
E soprattutto: è sapore.
Quando ero ragazzo, nei boschi non si andava per sport, ma per vita.
Raccoglievamo funghi, asparagi selvatici, erbe amare da insalata.
In estate spuntavano gli ovuli, arancio vivo nel verde.
A ottobre si cercavano i tartufi neri, chiamati scorzon, piccoli tesori della terra che non avevano bisogno di marketing.
Erano lì, bastava saperli annusare.
Quel gesto – annusare – è diventato parte della mia cucina.
Ho imparato a riconoscere odori che ritrovo oggi nei vini, nei piatti, nelle marinature.
Nel bosco ho sentito i profumi che poi avrei ritrovato nel bicchiere: l'umidità del sottobosco in un Sangiovese,
la nota di fungo secco in un Pinot Nero ben fatto, il sentore animale e selvatico che vibra in un Cabernet Sauvignon maturo.
Sono odori antichi, sinceri, che raccontano una terra prima ancora di un vitigno.
Li ho riconosciuti perché il mio naso li aveva incontrati camminando, raccogliendo, vivendo.
Tutto questo è gratuito. Ma vale più dell’oro.
Non si pesa su una bilancia, ma ha un valore profondo.
È sapienza contadina, è memoria, è rispetto.
E oggi tutto questo rischia di sparire.
Siamo inchiodati a uno schermo.
Viviamo nelle mappe digitali, ma non sappiamo più orientarci in un bosco.
Sappiamo tutto degli orsi in Trentino che bucano gomme, ma non sappiamo riconoscere una traccia di cinghiale, né distinguere il profumo della mentuccia da quello dell’origano selvatico.
Viviamo in un mondo che ha paura della natura perché non la conosce più.
Ma la cucina vera nasce lì.
Nasce dalla terra, dall’odore dell’umido, dalla luce che filtra tra i rami.
Nasce quando ti sporchi le mani per raccogliere, quando assaggi una foglia e senti l’amaro che pulisce, la freschezza che nutre.
È lì che nasce il gusto.
E soprattutto, è lì che nasce il rispetto per ciò che mangiamo.
Usare tutto: questo è il principio.
Non solo per etica, ma per bellezza.
Perché un’erba trovata in cammino ha un valore simbolico: non è solo ingrediente, è racconto.
È il bosco che ti entra in cucina.
E gli animali, anche loro, se li rispetti, ti rispettano.
Se li conosci, impari a non averne paura.
Li riconosci come parte di un tutto, non come nemici da sterminare.
Oggi servirebbe un nuovo patto.
Un’alleanza tra uomo e natura che parta dal corpo, dai sensi, dal gusto.
Un patto che passi dalla cucina, certo, ma anche dall’educazione.
Portateci i bambini nei boschi. Fateli sporcare, fateli raccogliere, fateli annusare.
Insegnate loro che la terra è viva.
Che gli asparagi non crescono nei banchi frigo.
Che il silenzio non è assenza, ma pienezza.
Io nei boschi ho imparato a cucinare prima ancora di accendere un fuoco.
Ho imparato a riconoscere la stagionalità, i ritmi, l’attesa.
Oggi viviamo tutto subito, ma la natura ha i suoi tempi.
E quei tempi, se li rispetti, ti regalano sapori che non si dimenticano.
Non possiamo più vivere distanti.
La terra sta gridando, e noi la stiamo zittendo con la paura.
Abbiamo trasformato la fauna selvatica in un problema da risolvere con i proiettili.
Abbiamo dimenticato che noi, prima di tutto, siamo natura.
E allora, ve lo dico da professore, prima ancora che da cuoco o da uomo: tornate nei boschi.
La roba non nasce nei supermercati.
Nasce nei boschi, nasce nei campi.
Nasce dal freddo sotto le unghie, dalla pioggia sulle spalle, dal profumo della menta schiacciata tra le dita.
Tornate lì.
Ascoltate.
Vivete.
E poi cucinate.
Con lentezza, con poesia, con gratitudine.
Perché è lì, e solo lì, che la cucina torna ad avere un’anima.
E chi cucina con l’anima, prima o poi, fa pace col mondo.















