La letteratura e la storia ottocentesche e di inizio Novecento ci hanno lasciato innumerevoli testimonianze dei tentativi riusciti, o almeno sperati, di emancipazione femminile e dello spirito combattivo che stava ridestando le donne e la società in quegli anni. Se volessimo, ad esempio, tuffarci nella nebulosa atmosfera dell’Inghilterra vittoriana, culla di questa nuova mentalità di genere, o di inizio Novecento, potremmo ripensare a pellicole cinematografiche moderne, come Mrs. Dalloway (1997), Ragione e Sentimento (1995), Orgoglio e pregiudizio (2005), Becoming Jane (2007), Suffragette (2015), The abominable bride (2016), Enola Holmes (2020). Non a caso molte delle quali tratte da omonimi romanzi dell’epoca, capaci di renderci più che mai partecipi degli entusiasmi e delle lotte irrequiete intraprese con determinazione dalle donne inglesi del XIX e del XX secolo. Impossibile dimenticare, inoltre, Piccole donne di L.M. Alcott che, seppure non un romanzo femminista, è riuscito a immortalare nel personaggio di Jo questo spirito femminile ribelle, come si può evincere anche dalla serie voluminosa di film ad esso dedicati, l’ultimo dei quali risalente al 2019; Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf del 1929, saggio scritto a conclusione delle conferenze, volte ad ispirare le nuove generazioni di donne, tenute nei college di Newnham, Girton e all’Università di Cambridge, recante un solo monito per le fanciulle: ricordarsi di creare la propria indipendenza, economica, culturale, mentale; o le storie di Jane Austen, che ancora prima, già tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, riflettevano, anche attraverso la ribelle denuncia, sulla condizione delle donne del ceto medio, borghese, in età da matrimonio: quel traguardo inteso dalla società come unica via di realizzazione femminile. Queste sono solo alcune delle infinite storie di lotta e riscatto di queste figure eleganti, irrigidite da pizzi e merletti, costrette da asfissianti corsetti intelaiati con ossa di balena e imprigionate in tanto belli quanto pomposi gonnelloni a balze.

Andando al cuore della questione, non si può non citare il movimento politico di emancipazione femminile più famoso e ardente del XIX secolo: quello delle Suffragette. Senza dimenticare che già durante la Rivoluzione Francese Madame de Keralis, con il suo Cahier de doléances des femmes presentato all’Assemblea Rivoluzionaria, e Olympe de Gouges, che redasse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, pubblicarono i primi testi sulla rivendicazione della dignità delle donne, voliamo direttamente in Inghilterra, dove queste signore cominciarono a manifestare subito dopo per difendere e riscattare la loro identità di genere. Dopo la pubblicazione nel 1792 di A Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft, le donne inglesi riuscirono a conquistare con il Corporation Act del 1835 il diritto di voto alle elezioni locali, ma fu grazie ai movimenti femminili che cominciarono a pensare in grande, ottenendo il sostegno di John Stuart Mill che nel 1865 propose il suffragio femminile. Il movimento delle Suffragette nacque nel Regno Unito nel 1872 e nel 1897 venne fondata, sotto la presidenza di Millicent Fawcett, la National Union of Womens’s Suffrage Societies, che però non ottenne il sostegno della percentuale maschile della popolazione.

Fu solo grazie alle proteste attive di Emmeline Pankhurst, avvenute davanti a Buckingham Palace, e alla sua fondazione nel 1903 della Women’s Social and Political Union, che le donne entrarono nel vivo della loro lotta, del loro urlo di giustizia. Diventarono più aggressive e teatrali nelle loro manifestazioni: incendiarono cassette postali, si incatenarono alle ringhiere in segno di protesta, incendiarono stazioni ferroviarie e distrussero vetrine di negozi; ne seguirono rappresaglie della polizia e arresti. In carcere, dopo l’esempio di Marion Dunlop, alcune intrapresero lo sciopero della fame, a cui fece presto seguito un provvedimento di alimentazione forzata attuato dalla polizia, sotto le sembianze di una vera e propria tortura. Il massimo grado di brutalità si raggiunse con il suicidio, nel 1913, di una suffragetta che si gettò sotto la carrozza in corsa del re Giorgio V. Cosa cercavano, dunque, queste donne, tanto fiere da arrivare ad imitare, spinte da uno slancio intellettuale e ideale stoico, il gesto di Catone l’Uticense che si tolse la vita nel 46 a.C.?

Libertà va cercando,
ch’è sì cara, come sa chi per lei
vita rifiuta.

(Dante, Purgatorio, Canto I, vv. 70-72)

Questi indimenticabili versi della Divina Commedia che ci ricordano la tensione romantica, la ribellione interiore di chi trova il coraggio di opporsi ad una vita che non è all’altezza dei propri principi, è perfettamente calzante con la scelta drammatica di questa suffragetta. A cosa, più che alla Libertà, poteva aspirare? Alla libertà di parola, di voto, di espressione; alla libertà di poter scegliere, da sola, senza imposizioni o tacite costrizioni, la via più consona per la propria personalità e, soprattutto, verso il rispetto della propria dignità; alla libertà di urlare al mondo che ogni donna non è soltanto una macchina produttrice di prole, ma una persona, con la sua speciale individualità, unica e irripetibile, capace non solo di crescere figli e fare la moglie, ma anche di essere competente e avere opinioni in ogni campo del sapere e, dunque, gli stessi riconoscimenti degli uomini in ambito politico, giuridico, sociale ed economico. Solo nel 1918 venne approvato nel Regno Unito il diritto di voto limitato alle mogli dei capifamiglia di età superiore a 30 anni e nel 1928, finalmente, il suffragio fu esteso a tutte le donne di età superiore ai 21 anni; in Italia ci volle il 2 giugno 1946 per raggiungere questo traguardo.

Ma cos’altro avevano, quindi, scatenato nella vita quotidiana queste proteste? Quali massi avevano smosso? Le donne avevano cominciato ad apparire nel mondo del lavoro e la questione attirava sempre di più il giudizio dell’opinione pubblica; aveva iniziato a proliferare una stampa femminile collegata al sorgere del gran numero di associazioni politiche; in epoca romantica le prime femministe si erano inserite nei movimenti democratici nazionali (ricordiamo l’italiana Clara Maffei che animò a Milano un circolo di patrioti e Cristina Belgioioso che partecipò alle insurrezioni del 1848-49), mentre successivamente la loro lotta si era focalizzata sulla parificazione dei diritti; la stampa femminista combatteva ovunque contro la condizione di inferiorità giuridica delle donne, per la parità salariale, per il loro accesso all’istruzione superiore, contro l’asservimento sessuale all’uomo e la dipendenza nel matrimonio. Quello che più spaventava di questi movimenti femministi era proprio il potere di instillare, insinuandosi, il dubbio, il vuoto nelle crepe delle fondamenta culturali e psicologiche del sistema di potere patriarcale: non tentava di svalutare gli uomini, ma soltanto di elevare le donne al loro stesso livello. Avendo scardinato le certezze e l’antico modello dimesso, modesto, austero e servile di donna precedente, veniva così a generarsi nell’uomo una sorta di leggera, insistente, atavica angoscia di fronte agli sviluppi della società moderna: il mondo maschile appariva segnato profondamente dalla sensazione di perdita del potere in tutti i campi, da quello degli affari a quello sessuale e familiare. La cultura positivista, allora, reagì aggressivamente a questo tentativo inconscio di spodestare, ribaltare l’ordine precostituito, ribadendo anche con mezzi ‘scientifici’ l’inferiorità naturale della donna1: alla base del progresso, c’era la lotta per la vita, alla quale si cercava invano di dimostrare che la donna non potesse partecipare, perché troppo debole, fragile, priva di virtù intellettuali e morali. Le sue uniche caratteristiche necessarie, invece, erano da considerarsi la castità, l’ubbidienza, la passività, insieme al ruolo di vestale del sacro focolare domestico.

Non è affatto un caso se le tele preraffaellite di Rossetti e degli altri e quelle simboliste si riempirono di donne evanescenti, delicatissime, angelicate. Quasi come un’opposizione alla forza ribelle delle suffragette, si presentavano modelli di bellezza estetica fin troppo eterea, flebile, esangue, addirittura incentrata sull’irresistibile e sensuale fascino della morte: di qui l’esaltazione e la rappresentazione di belle “spose cadavere” o giovani fanciulle ammalate, circonfuse di un’aura fugace e insana, che si ripercosse anche nel trucco, volto a sottolineare il pallore cadaverico, un innaturale rossore intorno alle palpebre e labbra violacee o purpuree.

Personaggi femminili più amati dell’epoca? Ofelia o la dama di Shalott, entrambe pronte a sacrificarsi in nome del loro amore disperato. Non c’era posto in quel mondo per la bellezza irriverente e risoluta delle femministe, che venivano inconsciamente accolte dalla mentalità maschile come la minaccia più terribile per la realizzazione del loro desiderio frustrato di potere. Ecco, allora, che nell’arte e nella letteratura, accanto alla figura di donna-angelo, si andava lentamente accostando quella doppia e speculare della donna-demone, sinistra, negativa, capace di ammaliare e tradire, di ipnotizzare e assoggettare l’uomo al suo completo volere. Era la sessualità femminile a far paura, perché concepita, in alternativa a quello materno, come istinto di sopraffazione foriero di una tendenza regressiva e castrante per l’uomo.

Iniziarono così a comparire più insistentemente i personaggi femminili della prostituta (frequente in Baudelaire e Zola, ma ravvisabile anche nella Nanà di Manet); della femme fatale (come nella Lupa di Verga o in molte opere di D’Annunzio); della donna-vampiro, le cui labbra ardenti e voluttuose contorte in un sorriso ammiccante sono più volte citate nel romanzo Dracula di Bram Stoker del 1897: in esso è chiaramente esaltata la femminilità educata, dolce, servizievole e premurosa di Madame Mina rispetto a quella demoniaca della Lucy tramutata in vampiro dal morso del Conte; per non citare alcuni passi in cui, attraverso parole messe in bocca alla giovane Lucy ancora umana, trapela il pensiero dell’autore sulle donne, considerate troppo emotive, terribilmente crudeli nei confronti degli spasimanti, poco leali, vanesie (per poter attirare l’attenzione del sesso opposto) e vili tanto da bramare il matrimonio solo perché un uomo potesse redimerle dalle loro paure.

E se non fosse ancora abbastanza, si potrebbe continuare con il dipinto Vampiro di Munch o del suo Bacio, in cui la donna sembra avviluppare in mille tentacoli di crine il suo uomo, adombrandolo con la sua figura imponente e la sua posizione, predisposta a succhiargli via l’anima insieme al sangue.

A questo punto, come non citare la figura ambigua e flessuosa della sirena, ammaliante e pericolosa, molto in voga nei dipinti e nelle storie di fine Ottocento? Si ripensi a Il poeta e la sirena di Moreau del 1895 e a Serpi d’acqua di Klimt, alle sirene di Waterhouse o di Poynter dei primi anni del Novecento. Impossibile non citare, infine, la frequente riproduzione in varie tele, proprio in questi anni, del mito, immortalato nel componimento del 1819 di John Keats, de La Belle Dame sans Merci: questo titolo, mutuato dal più antico poemetto del XV secolo di Alain Chartier, ricorda la storia di un cavaliere che, perdutosi in un paesaggio ostile e desolato, incontra una bellissima fanciulla dagli occhi ipnotici e le sembianze di fata che lo conduce in una grotta in cui, una volta addormentato, sogna di re e principi imprigionati nella schiavitù di questa “bella dama senza pietà”. Al suo risveglio si ritrova solo nello stesso luogo sterile dell’inizio. Che la famosa fanciulla sia metafora della morte o del tragico connubio di amore e morte, non è dato sapere: certo è che nessuno dei due eventi potesse non avere volto di donna. A riprendere questa tematica nell’arte furono pittori come Waterhouse, Cadogan e Dicksee.

Concludiamo infine questo viaggio letterario e storico alle origini dell’emancipazione femminile ricordando una citazione di Mary Wollstonecraft, una delle principali eroine che combatterono attivamente per la giusta causa:

Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse.

1 Si veda l’esempio del medico-psichiatra tedesco Moebius che scrisse L’inferiorità mentale della donna nel 1900 oppure del filosofo austriaco Otto Weininger, autore di Sesso e carattere, del 1903, con cui teorizzò il diverso come inferiore, associando la donna all’ebreo e unendo, quindi, antifemminismo ad antisemitismo. Cesare Lombroso teorizzò addirittura una tendenza naturale della donna alla prostituzione e alla criminalità.

Bibliografia

Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchesi, La scrittura e l’interpretazione, Ed. Rossa, Vol. 3, Tomo I, Palumbo Editore, Firenze 2001.
Bram Stoker, Dracula, Feltrinelli 2015.
M. Breen, J. Jordahl, Donne senza paura. 150 anni di lotte per l’emancipazione femminile. Libertà, uguaglianza, sorellanza, Tre60, 2019.