Se dovessimo pensare ad una magica meta in cui perderci e girovagare per sfuggire alla roboante modernità caotica, viaggeremmo subito con la mente verso l’Egitto, terra onirica e arcana. Patria nativa della medicina e della sapienza più antica, sa ancora oggi attirare infinito interesse in chiunque le si accosti, anelante ad essere cullato, almeno una volta nella vita, dai leggeri flutti del Nilo, o traghettato nel passato affascinante delle piramidi nella maestosa Valle dei Re.

Per tali motivi, oltre che per più serie e spiacevoli vicende di salute, il britannico raffinato George Herbert, conte di Carnarvon, nel 1905 scelse di dedicare tutta la sua attenzione all’egittologia. Rampollo di una nobile famiglia inglese, dopo gli studi a Cambridge e una vita di sfrenati lussi, mentre si dedicava ad una delle sue più grandi passioni, l’automobilismo, subì un grave incidente che gli causò seri problemi respiratori permanenti che lo costrinsero a trascorrere molti inverni in Egitto, dove l’aria secca e calda fu l’ideale per la sua salute a rischio. Essendo, in quell’anno, entrato in contatto con l’archeologo Howard Carter, che lavorava lì già dal 1890 come amministratore del settore Antichità, decise di intraprendere con lui un lungo connubio lavorativo, volto alla ricerca di tesori nascosti, durante il quale, nel 1912, venne pubblicato Five Years Explorations at Thebe. 1907-1911.

La svolta nelle ricerche si ebbe quando, nell’area della necropoli dell’antica Tebe, dopo che furono emerse da una precedente campagna avviata dall’archeologo Devis, una coppa di terracotta e delle laminette auree con i geroglifici di Tutankhamon in una fenditura nella roccia, Carter iniziò a cercare la regale sepoltura di questo sovrano della XVIII dinastia. Un’attenta perizia del New York Metropolitan Museum of Art, inoltre, stabilì che parecchi vasi di terracotta con rotoli di tela ritrovati in un anfratto lì vicino, contenessero sigilli e tessuti con nome e anno di morte di questo faraone (1323 a.C.): erano gli utensili serviti all’inumazione del re. Come anticipato prima, nello stesso punto anni prima, già dal 1902, l’americano T. Devis, finanziatore di molte ricerche al Cairo e scopritore di diverse tombe faraoniche nella Valle dei Re, a Ovest di Luxor, aveva avviato una campagna di scavo; la abbandonò nel luglio del 1914 senza risultati. La stessa sorte toccò molto tempo prima alla ricerca avviata, e interrotta nel 1820, da Giovanni Belzoni, archeologo ed esploratore italiano.

Maggior fortuna ebbero, invece, Howard Carter e Lord Carnarvon; anche se, a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale, furono costretti a rimandare l’inizio della campagna di scavo al 1917, proprio nel punto dei fatidici ritrovamenti. Non avendo disegni degli scavi antecedenti, Carter, lasciandosi guidare dall’istinto, propose di operare nel triangolo tra le tombe di Ramses II, Merenptah e Ramses VI. Ai piedi di quest’ultima sepoltura Carter aveva trovato le fondamenta di selci delle capanne degli antichi costruttori di tombe: era sempre spia sicura della presenza di un sepolcro. Dopo aver sgomberato per tutto l’inverno la zona dai detriti, continuarono a sondare il triangolo fino al 1920, per poi spostare l’attenzione su una valle laterale, ancora senza successo.

Gli egittologi, però, non abbandonarono le ricerche, nonostante, soprattutto nel loro finanziatore, Carnarvon, fossero venute meno le speranze, tanto che ad un certo punto tornò a Londra. Poi la svolta: il 4 novembre 1922, dopo che Carter intraprese nuovi scavi in una trincea che andava dall’angolo nord-orientale della tomba di Ramses VI verso Sud fino alle pietre di selce, venne rinvenuto sotto le fondamenta della prima capanna un gradino di roccia; il primo di una serie di dodici che conduceva a un sepolcro faraonico! L’ingresso presentava una porta di pietra recante il sigillo della necropoli della Valle dei Re (con uno sciacallo e nove prigionieri), quindi probabilmente la tomba, regale, non era mai stata saccheggiata.

L’entusiasmo e l’eccitazione erano alle stelle e a dimostrarlo ci furono gli scritti di Carter, ma a frenarlo dalla tentazione di proseguire immediatamente nell’esplorazione ci fu la lealtà verso il suo protettore a cui inviò un telegramma il 6 novembre: “Lord Carnarvon, finalmente meravigliosa scoperta nella Valle. Grossa sepoltura con suggelli intatti. Ricopriamo tutto fino al Suo arrivo. Auguri”. Nei giorni successivi emozioni e paure inondarono il cuore dell’egittologo: tra i detriti rinvenuti lungo la gradinata c’erano frammenti di oggetti con sopra incisi i nomi di Akhenaton, Smenkhara, Thutmose III e Amenhotep che fecero per un attimo ipotizzare che quella struttura di pietra potesse essere in realtà un deposito fatto costruire da Tutankhamon. Tali dubbi furono sciolti presto.

Il 25 novembre 1922 Carter, Lord Carnarvon, la sua bella figlia, Lady Evelyn, e Callender (ingegnere e disegnatore), rotti i sigilli, entrarono: dopo una galleria colma di materiale franato, lì a presagire (insieme a un’interruzione dell’intonaco e ad evidenti ripristini proprio attorno ai sigilli) una precedente ma sempre antichissima intrusione di predoni, si trovarono davanti ad un’altra porta, simile alla prima, anch’essa manomessa. Il 26 novembre, praticata un’apertura nell’angolo superiore sinistro di questo secondo ingresso e introdotta una candela accesa per sincerare l’assenza di gas, Carter vide, situato nell’anticamera, qualcosa che l’occhio umano non poteva osservare da ben 3300 anni. Alle impazienti domande di Carnarvon e degli altri presenti su cosa vedesse, Howard Carter rispose: “Wonderful things!”.

Nell’ammasso di oggetti davanti ai suoi occhi, cominciò a scorgerne meglio i particolari una volta che la sua vista si fu abituata al buio: un immenso tesoro multiforme, tra cui un calice lotiforme d’alabastro, scrigni neri, un trono ligneo rivestito in oro con pietre preziose, letti zoomorfi, carri e due grandi statue d’ebano d’aspetto regale e a grandezza d’uomo, poste una di fronte all’altra come due guardiani dorifori ornati d’oro. Dopo questa esplorazione, però, decisero di richiudere il sepolcro per riprendere i lavori a febbraio, dopo essersi meglio organizzati ed equipaggiati, avendo contattato diversi professionisti, tra cui fotografi, professori, epigrafisti, chimici. Poi, procedettero con la pulizia dai detriti e l’apertura di un varco nell’anticamera.

Questa scoperta archeologica avvenuta vicino a Luxor, sulla sponda occidentale del Nilo, fu davvero epocale, e solo il London Times ebbe il permesso dai ricercatori di pubblicare la notizia in anteprima: appena divulgata tutto il mondo ne parlò, trasportato dal magnetismo contagioso dell’evento, e immediatamente cominciarono a piovere al laboratorio annesso agli scavi lettere e telegrammi di auguri, proposte di aiuto o richieste di ogni genere; persino di piccoli souvenir come pochi granelli di sabbia! Carter, in pochissimo tempo, era diventato l’archeologo più famoso del mondo per esser riuscito là dove molti prima di lui avevano fallito e per aver finalmente recuperato una tomba faraonica quasi totalmente intatta, a differenza dei numerosi sepolcri reali rinvenuti in quell’area, completamente svuotati dai predoni. L’atmosfera, però, diventava contemporaneamente ricca di aspettative e tensione dal punto di vista degli addetti ai lavori, concentrati e stressati dall’insistente turbinio degli eventi, che andava crescendo con il procedere dell’esplorazione.

Il 17 febbraio 1923, come ci racconta Carter nella cronaca da lui scritta, Tutankhamen, si accinsero ad aprire la camera principale contenente il sarcofago: erano le 14 e faceva caldo; venti persone assistevano all’evento, mentre Carter praticava un foro nella parte inferiore della parete, e Carnarvon e altri allontanavano i massi staccati con scalpello e martello dall’archeologo.

Dall’apertura risplendeva un muro d’oro: all’interno della camera c’era uno scrigno aureo i cui lati distavano dalle pareti di pietra solo 65 centimetri. Una volta entrati interamente nella camera funeraria, i due archeologi notarono su una delle facce minori del parallelepipedo una porta sbarrata ma priva di sigilli, quindi probabilmente manomessa dai tombaroli. Aprendola, si trovarono davanti altri battenti, con suggelli intatti, però: i ladri non erano riusciti a spingersi oltre. Esplorando, dunque, gli studiosi ebbero la conferma che qualcuno, prima di loro, avesse penetrato questa tomba, ma questa effrazione non rappresentò niente di importante rispetto alle razzie barbare praticate in altre sepolture regali vicine: i predoni erano entrati solo quindici anni dopo l’inumazione del faraone, rompendo i sigilli, successivamente restaurati, e praticando un foro nella camera del tesoro per sottrarne una piccolissima parte. L’equipe decise, a questo punto, di rimandare il recupero della salma del faraone: per compiere questo passo ci furono diversi tentativi, a causa di forti difficoltà tecniche; il sacrario conteneva infatti al suo interno altri tre contenitori più piccoli, per smontare i quali i lavoratori impiegarono circa un anno.

Il 24 febbraio 1924 Carter e gli altri sollevarono finalmente il coperchio del sarcofago di granito interno dal peso di 600 chili, e al di sotto apparve un nuovo sarcofago antropomorfo di legno rivestito da una lamina aurea e contenente a sua volta altre due bare, di cui la prima dello stesso materiale del sarcofago più grande che la ricopriva e la seconda totalmente realizzata in oro, aperta per la prima volta da Carter nel 1925 e contenente il corpo mummificato del re.

Cosa, inoltre, costituiva l’immenso tesoro ritrovato grazie a questa importante scoperta archeologica? Il corredo del sovrano, considerato figlio di Ra (dio del Sole), incarnazione di Horus e destinato a trasformarsi dopo il trapasso in Osiride, il dio dei morti, era colmo di oggetti simbolici di culto, come statuette o amuleti; uno dei due guerrieri nell’anticamera, ad esempio, rappresentava il Ka, una sorta di totem o componente spirituale del defunto; inoltre vi erano oggetti di uso quotidiano indispensabili alla continuazione della vita nell’aldilà, come diversi bastoni, davvero usati dal faraone perché recanti tracce di usura, scodelle di cibo, piante medicamentose, molti indumenti di lino e gli ushabti, statuette poste a rispondere al posto del defunto per lo svolgimento delle mansioni agricole e domestiche ai Campi Iaru.

Inoltre, c’erano anche oggetti del re dal valore affettivo, come braccialetti di faïence con i nomi dei suoi familiari o una ciocca di capelli di sua nonna, la regina Tyi. Addosso alla mummia furono rinvenuti una corona d’oro e il khat, il copricapo dei membri della famiglia reale, al quale erano stati cuciti un ureo (cobra) e un avvoltoio, simboli sacri di protezione. Impossibile non citare tra le scoperte il pettorale con il famoso scarabeo Khepri che spinge il disco solare, appartenuto inizialmente al padre di Tut, oppure l’imponente maschera aurea, con i tratti fisionomici di Tutankhamon e gli attributi divini di Osiride.

Sembra quasi un simbolico paradosso il fatto che Tutankhamon, faraone salito al potere a 9 anni e morto a 18, stella fugace rispetto ad altri sovrani egizi, sia invece oggi il più conosciuto e amato. Figlio di un incesto tra fratelli tra l’innovatore Akhenaton, fautore della rivoluzione di Amarna, e sua sorella, riportò nuovamente la capitale e il culto di Amon a Tebe (da qui il suo nome che significa ‘immagine vivente di Amon’); guidato nel governo dal suo consigliere Ay, suo futuro successore, sposò la principessa Ankhesenamon, da cui ebbe due figlie, morte quasi immediatamente e con lui sepolte.

Il suo governo e il ripristino delle antiche tradizioni riportarono pace e prosperità in tutto il regno, e ne vennero anche potenziate le mire espansionistiche in Siria. L’inizio del dominio di Tutankhamon, dunque, prometteva gloria e giustizia ma, a causa del suo fragile corpo, sepolcro dell’anima secondo Platone, la morte terrena lo falciò anzi tempo. Per fortuna, a restituirgli almeno parte della sua gloria eterna tra i posteri, la sua maestosa cattedrale di pietra, che lo ha protetto nei secoli e accompagnato lungo il suo viaggio per i Campi Iaru, ricchi di giunchi e di copiosi ruscelli.