Così fan tutti. Si sa, è inutile negarlo, alle mostre d’arte non si va per vedere i quadri, ne’ tantomeno per l’artista, o, e parlo da curatore, men che meno per il curatore.

  • Uh uh eh, ma vah. (Quelli che lo sanno e non lo fanno).
  • Ma figurati. (Proprio quello che lo fa).
  • Non ci credo. (Il puro).
  • Vabbè, però, dopo, almeno le opere le guardano. (Quello che non frequenta gli eventi d’arte).
  • È proprio una tristezza una cosa del genere. (Questo qui è quello sempre in dieta).

Insomma, se non ci credete, fate una prova, andate a vedere un vernissage, schivate il cameriere che si sta beccando il predicozzo dal mastrocameriere del catering: “E non far sentire i tintinnii dei bicchieri che prepari dietro la tenda, sennò nessuno ascolta il curatore!”, e mettetevi ad osservare del pubblico.

In prima fila avremo gli istituzionali e quelli del posto in prima fila, ma attenzione, per non farsi sgamare, in mezzo, potrete scovare i ‘navigati’ dello scroccamento aperitivo: faccia estremamente interessata ai discorsi, nessuno sguardo ai lavori. Gli avanzati-navigati alzano lo sguardo imitando gli habitué, in modo leggermente snob, come per dire: “Ah sì, nulla di nuovo”.

Ecco, durante le mostre dei quadri fotografici (Fotoquadri) di Giovanni Marinelli avviene qualcosa di diverso, quasi un rovesciamento allegro delle parti, non descriverò l’autore dei lavori, ma dell’incredibile ‘immersione’ degli astanti nei lavori, questo sì. E mi ci sono immersa anche io.

Se nell’opera d’arte, affinché essa sia tale, ci aspetta un feedback importante dei mirror-neurons dall’approccio quasi empatico degli stessi fino a colpire una manciata di chakra in un colpo solo, qui non si resta delusi. Questa serie 2021 che raggruppa una quartina di corpus nuovi di zecca, è un po’ l’opera compiuta, l’opera omnia di Marinelli.

Partito con il colore della fotografia analogica, in fase iper sperimentale, iniziando così a dare corpo alla propria vision - elaborando quindi il proprio linguaggio - Giovanni Marinelli passa al purismo che lascia immaginare: quello del bianco e nero per decenni, adottando piccoli accorgimenti personali, come l’uso infrared di giorno, ai fini evocativi del racconto romantico della realtà, che è sempre irregolare. L’arrivo del digitale ‘spezza’ il sogno delicatamente rude dell’immagine di ricerca di Marinelli; la sequenza ‘perfetta’ riduce qualsiasi sogno a un qualcosa di metafisico.

Stop.

E invece no. L’artista è vicino al divino, si dice, man divina. A qualcuno piace l’Ego caldo e si ritrova lì proprio; molti altri, invece, come Marinelli, come l’araba fenice, come dio, come la gramigna se volete, innovano, rinnovano, e poi innovano ancora la Creazione, quindi sempre da zero. E, ricordo, che il raggiungimento dello Zero è già un’opera d’arte di suo, poiché riuscirci per davvero, non è per tutti. Parlatene con Leonardo da Vinci se non ci credete, chiedetegli della faccenda del foglio bianco.

Adesso, direttamente dagli anni ruggenti, quella della Grande Immaginazione, un buon speakeasy in stile, visto che in epoca un po’ proibizionista ci siamo, da degustare rigorosamente assieme ai vostri neuroni a specchio che lavoreranno meglio e felicemente dinanzi ai colori di un Marinelli: ho scelto il Southside, il preferito di AL, non quello dell’Odissea, ma quello di Chicago.

Munitevi di 6cl di Z44 Dry Gin, 2 cl di lime, 2cl di sciroppo di zucchero e 7 foglie di menta. Shakerate tutto, mi perdonino coloro che non amano le contaminazioni linguistiche, e strainate (non è dialetto jesino, giuro) bene, affinché nessun residuo di ghiaccio resti… Versate in una coppa ghiacciata. Sorseggiate con musica ai giusti Hertz è la raccomandazione.

Dopo, osservate i lavori di Giovanni Marinelli: del foglio bianco, Giovanni non ha paura.