Ogni essere umano nasconde nella sua identità terrena il seme divino e, aprendosi ad un cambiamento di prospettiva, può accedere ad una nuova visione del mondo potendo vivere le peculiari vicende della sua vita come realtà e simbolo al tempo stesso. È evidente che non si tratta di un “movimento” reale, condotto nel mondo oggettivo delle apparenze sensibili, quanto piuttosto di un “movimento” operato dalla coscienza verso il luogo originario, verso i territori più profondi della propria anima, alla ricerca di un centro immutabile, duro come la pietra indistruttibile e capace di ogni trasformazione. Tale centro è il Sé. Ogni viaggio compiuto in questa direzione, implicando un processo di realizzazione interiore della propria spiritualità, comporta il sacrificio cosciente e spontaneo dell’Io, il superamento dei limiti angusti delle proiezioni terrene, la dolorosa e graduale destrutturazione di ogni egoismo, l’affrancarsi da tutte le incrostazioni egoiche dei valori contingenti ed illusori per la conquista di un Bene che tutti li trascende.

È nel procedere di questo cammino che incontriamo Michael Maier, medico dell’Imperatore Rodolfo II, fu un alchimista del ‘600, seguace di Paracelso. Dopo la morte di Rodolfo II, viaggiò alcuni anni attraverso l’Europa, dove entrò in contatto con il filosofo Robert Fludd. Tornato in Germania, divenne medico di corte del Langravio D’Assia, Maurizio di Hesse, frequentando ambienti molto vicini a Federico V per poi scomparire nel nulla a Magdeburgo nel 1622, durante la Guerra dei Trent’anni. Tra le varie opere la sua più nota è l’Atalanta Fugiens, il cui titolo si ispira al mito greco di Atalanta, la velocissima principessa che, restia a maritarsi, dietro alle insistenze del padre accettò di prendere come sposo il pretendente che fosse riuscito a batterla in una gara di corsa, ponendo come condizione che gli sconfitti fossero messi a morte. Parecchi si cimentarono nell’impresa, fallendo, finché giunse il cacciatore Ippomene che, profondamente innamorato, volle cimentarsi nella rischiosissima impresa chiedendo aiuto ad Afrodite. La dea gli diede tre pomi d'oro tratti dal Giardino delle Esperidi ed egli, seguendone il consiglio, lasciò che cadessero una ad una durante la corsa. Atalanta ne risultò irresistibilmente attratta e si fermò ogni volta a raccoglierle perdendo così terreno prezioso e, infine, la gara stessa. In tal senso, l’Atalanta Fugiens allude innanzitutto al principio femminile “volatile”, che "fugge", mito che per gli ermetisti aveva significato particolare, nonché riferendosi alla parte “musicale” del testo basata su quella forma chiamata “fuga”.

In tale opera, pubblicata in latino nel 1617, sono infatti rappresentati 50 emblemi in cui arti grafiche, poetiche e musicali sono strettamente avvinte per narrare il “retto” procedere ed in particolare, in questo scritto si intende riferirsi all’eremita realizzato da Michael Maier nell’emblema XLII dal titolo De Secretis Natura ove l’epigramma recita:

La Natura ti sia guida, seguila lieto ad arte:
Fallirai se non ti sarà compagna di strada;
La ragione, ti sia bastone, fortifichi l’esperienza. Gli occhi tuoi, che possa tu vedere in lontananza.
La lettura sia una chiara lampa nelle tenebre,
Perché ti guardi cauto dagli ammassi di parole e cose.

Un vecchio canuto, barbuto e curvo sotto il peso degli anni si muove nel paesaggio interiore della propria anima con precise istruzioni su come affrontare il “viaggio”. Eccolo lungo la via mentre, nella notte scandita dall’eterno ciclo delle fasi lunari, segue a piccoli passi le “orme” di Natura ed un “ponte” oltrepassato sullo sfondo ci suggerisce il superamento di un limite, l’apertura eroica ad una forma più evoluta di integrazione. “L’andare oltre” come processo continuo di evoluzione fisica, chimica e biologica non è certamente nato con l’uomo, ma appartiene da sempre al movimento dell’universo. L’uomo semmai costituisce la prima forma esistente che oltre a “vivere” tale processo può anche osare di “comprenderlo”. L’eremita, nella sua stessa etimologia rimanda alla voce “eremos” con il significato di “deserto” portando quindi con sé l’idea del distanziamento e del distacco da persone e stimoli. L’energia psichica viene ritirata dal mondo esterno e coltivata nella solitudine che, se da un lato costituisce un movimento di liberazione e di indipendenza da esperienze arcaiche di separazione, perdita, abbandono e rifiuto; dall’altro è un profondo anelito di libertà, è la dimensione psicologica necessaria alla manifestazione della unicità individuale. Una solitudine che non richiede necessariamente un ritiro “fisico” quanto piuttosto la capacità di ritirarsi in sé stessi, abitare la propria interiorità, entrare nel non-luogo dello spazio introvertito. Per andare verso dove? Novalis risponderebbe “sempre verso casa” come a dire che “andare via” significa ritornare nella nostra vita con un diverso livello di consapevolezza.

In questo procedere nella notte, sapendo che nessun può dar certezza, sapendo che “non c’è il cammino. Il cammino si fa con l’andar” (Poesia di Antonio Machado, “caminante no hay camino, se hace el camino al andar), Maier suggerisce di seguire le “orme” di Natura con spirito “lieto” ossia con quella disposizione d’animo aperta e pronta ad accogliere; e ad “arte” che, oltre a rimandare all’abilità di artisti nel sapere accedere al non immediatamente visibile, ci riconduce alla etimologia stessa della parola con il senso principale di “mettere in movimento”, “muoversi verso” onde emerge il concetto di un procedere che si caratterizza per l’essere aderente, fedele; un procedere che conduce all’amare “rendendo così possibile una relazione ‘erotica’ con il mondo: si guarda cioè tutto come l'amante la sua amata e attraverso un tirocinio dell'attenzione verso ogni dettaglio si scopre la totalità del mondo” (Frigoli, 2020). Si delinea dunque un viaggio in cui ogni singolo essere umano impara a modificare l’asse della propria vita, a percepire un’interiore esigenza che fatalmente non sempre coincide con le scelte e i desideri dell’Io, a vivere eventi che spostano il centro di gravità dall’Io verso l’emergente dimensione della totalità, al superamento delle proiezioni egoiche e dei bisogni entro cui imprigiona la propria esistenza, ad affrontare il non-conosciuto, a comprendere che già in questa vita esiste un “legame” con l’infinito ma, affinché tutto questo accada, come diceva Jung, l’individuo deve avere “la facoltà morale della πιστς, della fedeltà […] l’inconscio trasforma veramente soltanto chi gli dà ascolto senza reticenze, cioè chi ne sente veramente la Realtà; e sente quindi la propria trasformazione come una vera e propria opera di creazione, al modo stesso cioè in cui gli alchimisti intendevano il processo rappresentato dall’Opus” (Jung, 2013, p.13).

Pertanto l’invito è di essere capaci di accogliere nel procedere dell’esistenza anche gli aspetti più sottili seguendo il movimento e le leggi di Natura, calcando le sue stesse “orme” nel ritmo del “sette” quali passi simbolici di un progressivo e costante cammino individuativo, quale “processo” che ritrova nel suo sviluppo, movimento ed evoluzione la possibilità di procedere verso la costruzione di una personalità coerente, consapevole delle proprie risorse e delle proprie aspirazioni, in grado di integrare la parte cosciente con quella inconscia, e di esprimere se stessa nella rete di relazioni interpersonali e nella società. Quale sarà il cambiamento al compimento del “settimo passo”? Quale sarà l’“uomo” del “settimo passo”? Nel cammino ogni essere umano è chiamato a “morire” per “germogliare”. Ad ogni passo, il tallone del viandante si immerge nel solco, nella traccia che Natura in-forma e da lì rifluisce verso l’alto attraversando la complessità del “corpo” tessendo una sottile comunicazione, una costante guida all’errare umano sballottato in una quasi totale incoscienza all’inizio della sua vita. Perciò Maier ricorda al viandante di guardarsi “cauto dagli ammassi di parole e cose”, di andare oltre “Babele” ed il suo chiacchiericcio per entrare nella dinamica della propria vera natura procedendo secondo regole molto differenti da quelle che reggono la parvenza dell’ordine del mondo ridotto alla sua orizzontalità animale. Poiché segnato dalla dimenticanza dell’interiore ricchezza, l’uomo è chiamato a riscoprire la memoria che lo “educhi” e che lo conduca verso il suo “seme” personale.

Sin dall’infanzia, l’essere umano impara a frammentare il mondo, a scomporre i problemi nutrendo la falsa illusione di poter gestire più facilmente ed agevolmente argomenti complessi. Purtroppo un tale modo di procedere comporta un caro prezzo poiché con l’andare del tempo si va atrofizzando la capacità di cogliere l’articolato intreccio delle proprie azioni, smarrendo il senso di appartenenza ad un mondo ben più vasto per poi rinunciare del tutto a vedere l’intero. D’altra parte, il bambino scopre assai precocemente che ad ogni oggetto corrisponde un complesso sonoro che lo simbolizza e che serve a designare e a comunicare: ogni cosa ha un nome che consente al bambino di intervenire personalmente nel mondo. È caratteristico come in questa fase il bambino non chieda mai, nel domandare una cosa, come “si chiami” ma al contrario cosa essa “sia”. Il fenomeno esterno che, all’inizio – prima del nome – gli appariva come “totale”, diventerà in seguito, con il possesso del nome, separato e diviso dalla parola. Ad esempio, se un bambino guarda dalla finestra e vede un uccellino che si posa su un ramo di un albero, in sé quell’evento è “totale”, perché appartiene ad una rete informativa naturale. Di fronte alla domanda spontanea “che cos’è?” il bambino riceve dall’adulto un “nome” che designa il fenomeno, riceve un “ammasso” di parole che si srotolano una accanto all’altra – un uccellino si posa su un ramo di un albero – ma da quel momento in poi l’evento iniziale che si presentava agli occhi della mente come “totale” risulterà per sempre diviso dalla successione semantica delle parole. In altri termini, se il linguaggio genera un universo semantico, permettendo all’uomo di comunicare con la collettività umana, di fatto esso allontana la coscienza dalla possibilità di esperire la realtà così come essa si costruisce. Pertanto, il linguaggio ordinario diventa per l’uomo inadeguato per esprimere la totalità della “trama della vita” e si fa avanti il linguaggio simbolico che possiede un essenziale e spontaneo potere di risonanza.

Come poter ricordare l’antico linguaggio? Maier suggerisce innanzitutto di seguir le “orme” di Natura, ed è curioso che l’intimo significato del termine “orma”, dal greco smè o odmè che vale “odore”, òzô “mando odore”, dal latino òdor, ove la parola stessa “odore”, etimologicamente parlando, si ritiene che stia per edor e che provenga dalla stessa radice di edo che vale “mangio”, come ad indicare una modalità “nutritiva”, “informativa” specifica, come a voler indicare quale ponte di comunicazione la dimensione olfattiva integrata ad una dimensione motoria. Come sappiamo, l’olfatto è l’organo di senso che ha maggiormente mantenuto caratteristiche filogenetiche antiche, tanto che nell’essere umano l’influenza del messaggio olfattivo viene scarsamente elaborata a livello cosciente. Con l’olfatto la comunicazione è diretta perché una molecola odorosa si stacca da una sorgente investendo il ricevente, mentre la comunicazione fisica (suoni, luce) è determinata da una perturbazione del mezzo ambientale operata dalla sorgente e veicolata al ricevente. Pertanto, è evidente che la prima, essendo “diretta” rispetto alla seconda sarà più carica di valenze affettive. Si tratterà dunque di mappare con una vera e propria trama olfattiva di tutto il territorio in cui si svolge la propria esistenza e, se il tatto e le esperienze motorie e cenestesiche conferiscono le informazioni sulla struttura fisica e geometrica del mondo esterno, con l’olfatto le informazioni avranno prevalentemente un valore qualitativo permettendo la possibilità di strutturare una relazione con l’ambiente sulla base delle caratteristiche qualitative. Se l’odore è l’espressione diretta della sostanza che viene percepita, quasi del suo “corpo”, il profumo può essere inteso come il simbolo dell’“essenza’’ della stessa, ovvero della sua “anima”, della dimensione sottile dell’esistenza a stretto contatto con le forze affettive che animano l’immaginario.

Ed è così che il viandante procede lungo la via segnata da Natura che viene rappresentata come una giovane donna ubertosa con una grande potenzialità generativa, pertanto, seguirla significherà poter apprendere non certamente la fissità della vita, quanto piuttosto l’eterna trasformazione che ci viene indicata dal mantello mosso dal vento, dall’incedere della gamba sinistra, dal braccio sinistro ricco di frutti e quello destro ricco di fiori, sottolineando come gli uni si trasformano negli altri nel susseguirsi delle stagioni come a ricordare che esiste un tempo per ogni cosa, come a ricordare che esiste un “ritmo” che scandisce ogni fenomeno nell’universo. Se l’uomo ne sarà capace, potrà esperire una metamorfosi della coscienza potendo andare oltre la componente del “minerale” che è fisso, oltre la “pianta” che ha radici che la ancorano alla terra, oltre l’“animale” che con le quattro zampe esprime un movimento orizzontale, fino a realizzare la dimensione dell’uomo adulto, bipede eretto, quale ponte fra la Terra e il Cielo.

Quali sono gli strumenti necessari per questo viaggio? Il “bastone”, gli “occhiali” e la “lanterna”.

Il “bastone” ci ricorda il noto enigma della Sfinge: “Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede?”. Enigma che Maier aveva già trattato nel precedente emblema XXXIX, andando a raffigurare l’essere umano nelle tre età della vita: il bambino che gattona, un adulto ed un anziano barbuto. Oh, quale sofferenza può comportare la risposta ad una tale domanda! Lo sa bene l’uomo che può verticalizzarsi e che si sente dolorosamente strisciante. Si delinea così l’immagine dell’essere umano nella fase “saggia” della sua vita, libera da ogni tentazione ed impulso dotato del bastone quale strumento capace di aiutare l’uomo nel fare esperienza del movimento di Natura. In questo senso, Diego Frigoli scrive: “Così come le piante a ogni stagione rinascevano, anche nell’uomo poteva avvenire la medesima cosa: era nata l’idea di una permanenza oltre la morte, era nato il concetto di spiritualità. A questo punto l’uomo volle rappresentarsi l’idea di immortalità […] piantò allora un bastone per terra che lo rappresentava e con una corda tracciò sul terreno una circonferenza. Aveva rappresentato sulla Terra l’unione con il Cielo” (Frigoli, 2019). Il processo individuativo non può dunque evitare di confrontarsi con la realtà della morte, un contenuto frequentemente rimosso dalla coscienza collettiva, ma non per questo eliminabile, è come dire che l’eterno ciclo di vita-morte-vita che Natura compie è una dinamica da comprendere profondamente.

Occorrono altresì gli “occhiali” per poter “vedere in lontananza”, lungi da una visione miope della vita, il pellegrino è chiamato ad aderire ad una rinnovata visione del mondo, dotato di particolari “lenti”, di un particolare filtro capace di mediare fra il mondo dell’archetipo e quello della forma formata, egli può assumere una comprensione più vasta ed allargata che travalica le istanze egoiche per giungere ad un lettura “circolare” della propria dimensione personale financo quella collettiva. Ogni essere umano è caratterizzato da un suo specifico “mondo”, ma se fosse capace di andare al di là della propria esperienza soggettiva potrebbe conoscere altri mondi preclusi all'apparenza, ma che conosciuti allargherebbero la sfera della propria coscienza in un modo più vasto, fino a cogliere in una progressiva tensione la complessità della vita e la sua essenza archetipica.

Per giungere infine alla “lanterna”, un piccolo fuoco che richiama una delle principali conquiste dell’essere umano: la capacità di padroneggiare l’elemento igneo che costituì un fondamentale salto evolutivo non solo sul piano materiale quanto anche nelle correlate valenze simboliche. Il viandante è portatore di una luce che rappresenta la “fiamma” della vitalità psichica, della chiarezza mentale, della illuminazione spirituale. La lanterna porta con sé una “verticalità”, una vocazione a diventare sempre più consapevoli di se stessi, a conoscersi in profondità, ad essere onesti con se stessi affrontando anche gli aspetti scomodi della vita, procedendo verso un costante apprendimento, un viaggio di purificazione – non di negazione o di evitamento – dal desiderio personale e dall’istinto che richiede tempo e impegno al fine di de-strutturare la dimensione egoica, aprendosi al riconoscimento di una realtà superiore che scorre lungo l’asse che congiunge l’Io al Sé, alla totalità, alla completezza.

In questa prospettiva, le eterne domande dell’uomo sul senso della nascita, sul valore della morte, sul significato della vita e del suo progetto diventano le domande collettive più formulate. Quando l’attesa di una visione coerente ci sfugge, non tanto come soluzione sicura ai nostri dilemmi, ma almeno come risposta possibile alle nostre vicende personali, il senso di noi stessi e del mondo si disgrega, lasciandoci soggettivamente vuoti e inermi di fronte al grande mistero della Vita. Al contrario, una visione del mondo che cerchi di ricucire tutti i livelli – personale, sociale, collettivo e spirituale – in un modello il più possibile coerente, costituisce per l’individuo una necessaria ricerca di ordine, che va a riattivare gli archetipi universali e il loro divenire individuale, espresso non solo nelle vicende umane ma anche nella storia biologica e psicologica del corpo e della mente dell’uomo. L’essere umano quale riflesso microcosmico della più vasta creatività dell’universo, ripete analogicamente nella propria totalità le leggi del più grande cosmo, il macrocosmo, e ne costituisce l’aspetto sintetico, l’istante concreto che si àncora alla materia. La parola cosmo riassume due significati strettamente affini: l’ordine e l’armonia. Dunque, quell’ordine che è presente nell’universo sarà presente anche nell’uomo, e l’armonia che ne regge le sue leggi immutabili si esprimerà nell’uomo come sintesi di parti armonizzate nel tutto, come continuum biologico, psicologico e spirituale che si snoda nelle infinite metamorfosi filogenetiche, in un progetto virtuale che ha come fine la propria coscienza individuata. È in questo senso che possiamo parlare dell’uomo come Creatura Integrale, radicata nella sua fisicità, che diviene tempio vivente del proprio “uni-verso”, inteso nella sua accezione etimologica di progressiva emancipazione cosciente verso l’unità. La parola “integrale” rivela nella sua duplice scansione di “in” negativo e di “tag”, radice del latino tangere che vale “toccare”, il senso di ciò che è incorrotto ed intangibile. Allo stesso tempo, “tag” in greco, assume la connotazione di “ordinare”, cioè di disporre secondo la costante armonica che definiamo legge universale. In tale ottica il “viaggio” di ciascun essere umano sarebbe un percorso di integrazione cosciente delle diverse componenti fisiche, psichiche e spirituali: un processo di trasformazione sottile del corpo e dell’anima, nel tentativo di operare nella materia (cioè nella forma sostanziata del nostro essere), una renovatio della totalità originariamente nobile della Natura, ove il dio interiore possa nuovamente manifestarsi.

Bibliografia

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