Se volessimo incontrare un pilastro portante della letteratura del Sol Levante, non potremmo non imbatterci nel Genji Monogatari. La sua stesura, da parte di Murasaki Shikibu, cominciò nell’anno Mille circa per terminare intorno al 1010, nel pieno del periodo Heian. Il genere monogatari 物語 (letteralmente ‘raccontare cose’) nacque in un’epoca di straordinaria fioritura culturale che nel corso del IX secolo vide la comparsa dei kana 仮名, un nuovo sistema di scrittura alfabetico sillabico che permetteva di riportare per iscritto la lingua giapponese vera e propria, senza far ricorso al cinese, favorendo così lo sviluppo di una tradizione narrativa autoctona. Il cinese rimase comunque la lingua scritta ufficiale, appannaggio della sfera pubblica e degli aristocratici uomini; c’era però la necessità di affiancare al già affermato sistema kanbun 漢文 una scrittura più libera, spontanea e privata. Così si optò per una resa fonetica, una trasposizione della lingua parlata, la sola in possesso di poteri evocativi e del kotodama 言霊, lo ‘spirito della parola’.

I monogatari vennero scritti proprio in kana e da mani femminili, quelle delle dame di corte. Di queste autrici non si conosce il vero nome, ma solo l’appellativo con cui venivano identificate: spesso “madre” o “figlia” di un personaggio importante, o il titolo della carica detenuta da un uomo della famiglia. Così Murasaki Shikibu non corrisponde a cognome-nome, ma Murasaki deriva dal nome di uno dei personaggi femminili principali del Genji Monogatari e Shikibu dalla carica che il fratello maggiore ricopriva nello Shikibushō 式部省 (‘Ufficio del Cerimoniale’). Non ci sono pervenuti manoscritti, ma la stessa autrice nel suo diario personale ammette che la sua opera attirò sin da subito l’ammirazione dei lettori, uomini e donne che fossero, tanto che, prima ancora che fosse concluso, pezzi del romanzo iniziarono a circolare non solo nella capitale ma anche nelle province lontane.

È molto probabile che dopo Murasaki Shikibu altre mani abbiano modificato il suo lavoro, anche perché in epoca Heian era parecchio diffusa l’idea che il monogatari fosse un’opera aperta, non necessariamente appartenente ad un unico autore, per cui molti estimatori potevano intervenire con aggiunte e digressioni, e tutto ciò rese particolarmente ardua la selezione dei cinquantaquattro capitoli di cui oggi possiamo godere. Non intendo fare alcun tipo di spoiler sulla trama. Il mio è piuttosto un invito a concedersi il piacere di una profonda immersione in un altro tempo e spazio, esperienza a tratti surreale che questo mattone della letteratura giapponese come pochi altri sa dare. Mi limiterei a fornire una piccola lente di ingrandimento su una delle tematiche fondamentali del romanzo che credo essere anche una delle caratteristiche intrinseche e distintive della cultura del Sol Levante, che contribuisce a conferirle quell’aurea di eleganza e gentilezza per cui è ben nota.

Secondo il celebre studioso Motoori Norinaga, il filo conduttore, nonché principio estetico fondante dell’opera, è il mono no aware/ 物の哀れ. Non senza difficoltà proverò a definire il termine. Aware nasce come un’interiezione, un’esclamazione di stupore di fronte a qualcosa di bello in natura, la cui vista desta un forte coinvolgimento emotivo. Il mono no aware potremmo tradurlo come la ‘sensibilità delle cose’, l’atteggiamento dell’animo umano che, trascendendo l’apparenza, giunge all’essenza, al cuore delle cose (mono no kokoro 物の心) per poterle contemplare in tutta la loro bellezza. Prerequisito necessario è la consapevolezza e accettazione dell’imprevedibilità e caducità dell’esistenza, di ciò che ora esiste e ora non esiste più. Il che non può che suscitare malinconia e far scendere qualche lacrima di commozione – nei monogatari non ci si astiene affatto dal pianto, considerato sintomo di nobiltà d’animo – tant’è che si iniziò a scrivere la parola aware con il kanji di tristezza, pietà. In realtà, a generare il bello nelle cose è proprio la loro speciale e passeggera unicità. Cose ne sarebbe del fascino del ciliegio, emblema per eccellenza della fugacità, se questo fosse sempre in fiore? Di certo non accorrerebbero così tante genti a fare l’hanami per soli dieci giorni all’anno. Tra l’altro il termine hanami 花見 venne usato per la prima volta nella sua attuale accezione di fare picnic ammirando i sakura proprio nel Genji Monogatari: un intero capitolo, dedicato al banchetto della festa per i fiori di ciliegio, illustra il primo hanami della storia.

Tutto ciò mi riporta alla memoria un altro concetto che verrà formulato in Occidente soltanto verso la fine del XVIII secolo da Immanuel Kant nella sua Critica del Giudizio (1790). Si tratta anche in questo caso di un principio estetico, un nuovo ideale di bellezza che ha poco a che vedere con i canoni classici e che anche qui trova terreno fertile nel rapporto uomo-natura: il sublime. Il sublime, come il mono no aware, è anche un sentimento, quello dell’uomo che si ritrova di fronte a un fenomeno naturale più o meno catastrofico e percepisce lo scarto che c’è tra il suo essere finito e impotente e la natura nella sua infinita potenza. Ad un livello di astrazione superiore, tuttavia, oltrepassato l’iniziale turbamento, l’uomo finisce per prendere coscienza di essere attivamente partecipe di ciò che accade in natura, poiché egli stesso è natura: parte finita, sì, ma di quella infinità.

In linea con queste riflessioni, il mio auspicio è quello di trovare, nell’attuale situazione di privazione dalle cose che noi tutti stiamo vivendo, la chiave di volta per ristabilire le priorità della nostra esistenza e affacciarci alla vita con un atteggiamento più contemplativo, di presenza, partecipazione, rispetto e gratitudine. Che sia anche solo per il tempo di un caffè al tavolino di un bar.

Sarebbe comunque una vittoria l’averlo gustato a piccoli sorsi.