L’invidia è uno scarto, un divario, una differenza, un gap, un pensiero malevolo che porta a far affiorare la distanza. Tra qui e lì. Tra te e il prossimo. Tra ciò che un individuo possiede e ciò che possiedono gli altri.

L’invidia è un sentimento che ti mette in relazione con le differenze del mondo, con le quantità dissimili, con i pesi diversi. Non a caso pensare vuol dire ponderare, posizionare pesi sulla bilancia dell’esistenza. E quando il braccio sulla tua bilancia è più alto – e quindi più leggero – del braccio altrui, ecco allora che quel pensiero può prendere la forma dell’invidia.

L’invidia che accresce il malessere di chi la prova

Le persone invidiose poi diventano astiose, livide, biliose, acide e, in definitiva, sole: l’altrui successo provoca in loro rancorosa malevolenza, anziché generare un riverbero di benessere. Si gonfiano così di acredine malmostosa. La cooperazione non sanno cosa sia, perché l’altro è sempre un oggetto di confronto insano che li fa rodere in profondità.

Diceva Honoré de Balzac: “L’invidia è il più stupido dei vizi perché non c’è un solo vantaggio che si guadagni da essa”. Aveva ragione: gli invidiosi hanno solo da perdere. Buddha, l’illuminato, ammonisce: “Colui che invidia il prossimo non conseguirà la pace della mente”.

Le persone invidiose guardano il benessere degli altri ma non si concentrano su quello: non è l’entità di quel benessere che interessa loro ma la disparità con il proprio, inferiore, più limitato più contenuto, meno pesante. E così, per quegli elementi di stranezza e di originalità che sono propri della vita, capita che quel dislivello aumenti: chi invidia diventa sempre meno capace di apprezzare ciò che possiede e sempre di più si tormenta per questo.

L’invidia diventa così un moltiplicatore di malessere, un acceleratore di malanimo, un propulsore di insoddisfazione. La quale per altro non sarebbe di per sé un elemento negativo: le persone insoddisfatte sono capaci di slancio, torniscono se stesse per migliorarsi in continuazione, abbracciano il meglio che non è nemico del bene ma rappresenta la sua parte più preziosa.

Le persone insoddisfatte non sono necessariamente invidiose: vogliono di più da sé ma non in comparazione con quanto possiedono gli altri.

Le persone invidiose invece sono sempre insoddisfatte: soffrono le chiazze di terriccio del proprio giardino perché lo raffrontano con quello del vicino che per tradizione ha l’erba più verde. Spesso non seminano, si limitano a osservare con sguardo torvo oltre la staccionata della propria aiuola, constatando di essere da meno ma non facendo nulla per colmare il gap cromatico.

Il sociologo austriaco Helmut Schoeck, che molto ha approfondito il tema dell’invidia da un punto di vista dei comportamenti sociali scriveva: “L’uomo invidioso pensa che se il suo vicino si rompe una gamba, egli sarà in grado di camminare meglio”. Ecco, il pensiero degli invidiosi sta tutto qui.

Lo sguardo

La parola invidia deriva dal latino invĭdĭa, derivato del verbo invĭdēre ‘invidiare’. Questo verbo voleva dire sì ‘provare invidia’ ma anche ‘avere sentimenti di ostilità’, ‘essere maldisposti’ e inoltre assumeva il significato di ‘gettare il malocchio; guardare con occhio malevolo’.

Nel malocchio, che vuol dire ‘fattura’ e ‘iettatura’, troviamo l’occhio, l’organo della vista, così come in quel verbo invĭdēre che veniva pronunciato dagli antichi romani è agevole scorgere il verbo vĭdēre che in italiano ha generato ‘vedere’.

L’atto del vedere genera conoscenza. Da sempre, in tutte le lingue antiche io ho visto vuol dire ‘io so’. Osservo, scruto, esploro, guardo attentamente e in seguito a questo acquisisco consapevolezza e poi ancora imparo, comprendo, conosco.

Le persone invidiose però non usano al meglio la facoltà della vista, appaiono sempre accigliate, i loro sguardi sono biechi. Quegli sguardo non generano né consapevolezza né conoscenza perché si soffermano sulla distanza, ancora una volta sullo scarto tra qui e lì.

Sulla terrazza del Purgatorio

Per Durante Alighieri detto Dante, gli invidiosi stanno nella seconda cornice del Purgatorio: condannati interinali, non ergastolani come quelli rinchiusi nei gironi dell’Inferno, purganti destinati a una pena a tempo, con una data di scadenza.

In un Purgatorio illustrato con tinte gotiche, gli invidiosi sono seduti con le spalle appoggiate alla roccia grigiastra del monte: ancora l’importanza del colore, ancora le tinte, ancora la luce che prorompe nelle narrazioni.

Si sorreggono l’un l’altro, al contrario di quanto fecero in vita, quando tentarono in continuazione di rovinarsi a vicenda, quando si comportavano da campioni della maldicenza (che in latino si dice in maniera ben più efficace: sussurratio). Il loro corpo è ora avvolto in un mantello di cilicio, panno ruvido simbolo di umiltà e di penitenza. Hanno le palpebre cucite col filo di ferro: una pena atroce, che castiga gli occhi di chi in vita guardava torbidamente agli altri, malignando per le altrui riuscite e godendo in caso di fiasco occorso al vicino di ufficio. San Tommaso, nella sua Summa, chiarisce bene che l’invidioso vede nel bene degli altri un male per se stesso. Nel Purgatorio la punizione è il contrappasso.

Alcune voci, per prodigio, risuonano nell’aria: propongono esempi di carità su cui meditare. Altre voci prospettano esempi di invidia da condannare: sono stimoli alla riflessione che alcuni spiriti velocissimi fanno echeggiare nell’etere. Brevissime frasi, citazioni da pagina Instagram, colpiscono l’attenzione del penitente, innescano un rapido meccanismo di ragionamento interiore e spingono al cambiamento.

Un mix di astio, livore e rivalità

L’invidia talvolta assume la forma dell’astio, parola di origine germanica: è un prestito medievale, dal longobardo haist che significava ‘inimicizia’. Ancora una volta torniamo alle conseguenze dell’essere invidiosi: l’altro invidiato è sempre un antagonista, un nemico, una persona ostile.

Lo scrittore e poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe diceva che “l’odio è attivo e l’invidia passiva” e aggiungeva che “c’è un solo passo dall’invidia all’odio”.

Questo rancore astioso porta le persone invidiose a ritrovarsi ineluttabilmente sole, monadi disperate con gli occhi cupi spalancati sul prossimo e senza alcuno sguardo benevolo di altri poggiato amorevole sul loro volto.

L’invidia è inoltre livore, parola che ci porta ancora alla tavolozza dei colori per interrogarci sulla storia e sulle ascendenze dei lemmi che compongono il nostro personale vocabolario.

Il livore è astio, malevolenza, rancore, odio e ostilità. Il livore è l’aspetto livido di un volto, l’espressione contratta di chi è tormentato dall’invidia.

Dante fa dire all’invidioso Guido Del Duca, punito appunto nella seconda cornice del Purgatorio:

Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso,
Che se veduto avesse uom farsi lieto,
Visto m’avresti di livore sparso.

Ebbene, quel livore deriva dal latino līvĭdus ed è parente di livido, aggettivo che significa ‘bluastro’, ‘cianotico’, ‘scuro’ e sostantivo che sta ad indicare una macchia verdastra, blu che si forma sulla tua pelle a seguito di una percossa. Un colpo forte sul braccio ed esce un livido di uno strano, indistinto colore. L’antica radice indoeuropea da cui è derivato il latino līvĭdus e di conseguenza l’italiano livido ha prodotto nelle lingue germaniche e slave i nomi del pruno selvatico e della prugna, proprio per il suo colore.

L’invidia è infine connessa alla rivalità. Il rivale è il concorrente diretto, l’avversario, colui che dev’essere superato e talvolta sconfitto. La parola rivale è un prestito latino: nella lingua di Cicerone rivālis -e stava per ‘competitore, rivale’, ed è un derivato di rīvus ‘fiume, canale’, nel senso di ‘colui che si rifornisce allo stesso corso d’acqua’, ‘colui che spartisce con un’altra persona l’acqua di un medesimo ruscello’.

Ecco la persona invidiosa non si capacita del fatto che quell’acqua possa bastare per tutti e che - se qualcuno beve di più - non sottrae nulla alla propria possibilità di abbeverarsi.