Come frecce in mano a un eroe
sono i figli della giovinezza.

(Salmo 127,4)

L'arco dei forti s'è spezzato,
ma i deboli sono rivestiti di vigore.

(Cantico di Anna, 1 Samuele, 2.4)

Uno dei segni maggiormente semplici, antichi e archetipali appare il segno dell'arco e delle frecce. Non a caso come tutte le immagini universali anch'essa assume sensi sia luminosi che minacciosi.

L'arco compare in natura: l'arco nel cielo dopo i temporali, il tendersi dei nervi e dei tendini del corpo umano, il curvarsi delle baie marine e delle anse fluviali, lo stesso arco delle vertebre e l'arco orbitale. Anche le frecce appaiono in natura nel lampo dei fulmini e dello sguardo. Un segno unitario e duplice, aperto e chiuso, solitario e complementare. E siccome appare uno e duplice allora diventa pitagoricamente anche ternario, trino, con il concetto di bersaglio e, quindi, quaternario con il ruolo dell'arciere.

Nella Bibbia l'arco compare sia quale simbolo della giovinezza, del vigore della stirpe che si protende verso il futuro quale bersaglio da attraversare (e la faretra allora implicitamente appare segno del grembo generativo) che immagine ostile di forza a rischio di superbia e arbitrio. L'arco dei forti appare espressione biblicamente non sempre positivo, quale segno di predominanza mortifera dell'arco quale arma balistica che assume toni maligni ad indicare una forza dispotica che umanamente non si riesce a vincere ma che Dio apolicatticamente spezza. L'arco quindi passa nel medesimo Libro da segno di sacra psicomachia a segno di odiosa prevaricazione. Il primo cavaliere che compare dopo l'apertura del primo sigillo del cristico, settuplice e vivente Libro cavalca un cavallo luminoso (Apocalisse 6,2), unico segno certamente positivo tra le quattro inquietanti allegorie, e reca in mano un arco (toxos), associato ad un'idea vittoria certa, ripetuta e divina. Non solo, a tale divino e apocalittico arciere viene data una corona, segno glorioso e curvo, come l'arco stesso. Queste polarità semantiche percorrono tutta la Sacra Scrittura. Il profeta Abacuc cita le frecce quale segno teofanico in una visione terrificante dell'ira di Dio: “il sole e la luna rimasta nella sua dimora al bagliore delle tue frecce fuggono...con le sue stesse frecce hai trafitto il capo dei suoi guerrieri che irrompevano per disperdermi...” (Ab. 3,11.14). E ancora: “Del tutto snudato il tuo arco, saette sono le parole dei tuoi giuramenti” (Ab.3,9), dove quest'arma diviene per il suo impeto veloce e pericoloso figura dell'efficacia, inesorabilità, e potenza dell'intervento di Dio. Irrevocabile lo scoccare, come i giuramenti di Dio.

Nel cantico di Davide il saettare di Dio contro il male viene giustapposto al suo folgorare (2 Sam. 22,15), rivelando il carattere igneo e celeste del suo simbolismo. L'utilizzo dell'arco quale arma militare riallegorizzata in senso positivo e teofanico compare anche nell'Iliade riguardo le frecce di Apollo quando sono ritenute causa delle pestilenze o delle morti improvvise degli eroi. La qualitas della fulminare appare archetipo epi-teofanico. Le frecce compaiono invece come ostacolo temibile ma che viene superato senza problemi da un divino ed escatologico esercito del Signore che irrompe sulla terra in Gioele (2,8), mentre nelle Lamentazioni questa immagine appare quale segno del penetrare del giudizio di Dio fino alle reni (Lam. 3,12.13), similmente a come San Paolo ascrive alla Parola di Dio tale potere di indagine e invincibile attraversamento della struttura dell'umano (Ebrei, 4,12): “...la Parola di Dio penetra fino alla divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e giudica i sentimenti e i pensieri del cuore”. I reni, che Dio scruta nell'Apocalisse di Giovanni, anticamente indicano la sede dei sentimenti e delle emozioni (Ap.2.23).

La freccia in quanto dura e appuntita, più forte della dimensione passiva del “sentire”, richiama le divine qualità dell'omniscienza di uno sguardo che penetra ogni velo e ogni tenebra. Associare penetrazione all'attingere un centro profondo di vita, dove ciò che appare diviso vi risiede unito (carne, spirito, anima...) spiega l'efficacia dell'immagine di questa antica arma. Quello che si mostra appuntito coglie gli estremi della vita: la morte, che San Paolo paragona ad un pungiglione (1Cor.15, 55), e la prova mistico-iniziatica, che lo stesso associa ad una “spina nella carne (2Cor.12,7). La freccia quale segno di quello che sfugge nella vita al controllo della coscienza, che venga da Dio come prova (Salmo 38.3) o dal male umano (Sal. 64,3) o che sia allegoria dello scatenarsi improvviso e inesorabile della vendetta divina contro Babilonia (Ger. 51,11).

Ma la freccia esprime anche il senso dell'annunzio, della rivelazione come si evince nell'episodio di Eliseo e del re d'Israele Ioas che, richiesto dal profeta, lancia una freccia quale azione profetica e poi con le frecce colpisce la terra in un una sorta di rito oracolare (2Re, 13-18). Destino della freccia il mirare e il tendere al centro, al cuore (Salmo 45,6), come a ricongiungersi ad un ricettacolo naturale, permettendo la pienezza di un'unione riconquistata, reintegrata. Nel Mito greco lo strumento dell'arco compare quale attributo sacro, fotofanico e cosmico sia di Apollo che di Artemide, spesso indicato in associazione con l'elemento dell'oro o dell'argento. L'arco di Apollo appare secondo solo al fulmine di Zeus e simile al tridente di Poseidone.

Nell'Inno omerico quando giunge Apollo con il suo arco gli dei tremano di paura e Zeus subito l'associa a sé dandogli nettare in una coppa d'oro e Apollo appende l'arco ad un chiodo d'oro “alla colonna del padre”, confermando la dimensione cosmica dell'arco. Solo Latona è colei da cui si lascia togliere l'arco e allentare la corda. L'arco quindi manifesta la luce che esce dalla colonna del padre, cioè dal pilastro che regge e unisce cielo, terra e inferi. Apollo uccide con le frecce il temibile Pitone, il primo nume di Delfi, e il gigante violento Tizio, oltre a molti altre illustri vittime dei due astrali fratelli: Callisto, Coronide, figli di Niobe, Atteone, Oto ed Efialte. L'arco appare decisivo anche nella figura di importanti eroi quali Orione, amato da Eos e da Artemide, simile al biblico Nimrod, cacciatore celeste, ed Heracle, che con l'arco sconfigge i centauri, i giganti, gli uccelli della palude Stinfalia, e l'avvoltoio che tormenta Prometeo sulla roccia della Scizia. Nelle sue imprese l'arco e la freccia ricordano l'identità nomade, solare e iperborea del primo eroe dell'Ellade.

L'arco era una prova iniziatica e regale, come le vicende di Eurito, Filottete e di Odisseo dimostrano, una sorta di ordalia con cui si conquistava una dignità, un regno. La guerra fra i figli di Ilio e gli Achei passa attraverso il possesso delle frecce di Heracle, concesse da Filottete, una delle condizioni rituali per la caduta di Troia, e possiamo notare come i due schieramenti mostrano due arcieri che si assomigliano come in un misterico chiasmo: Teucro presso gli Achei, figlio di Telamone e di Esione, e Paride/Alessandro presso i Dardanidi, pur comparendo anche altri arcieri come Merione e Pandarione. Tramite le vicende di arcieri passa il Fato dell'ultima stirpe degli eroi elleni, come le loro genealogie dimostrano. L'arco come rito e iniziazione ritorna nel racconto di Abari l'iperboreo, detto l'areobante, che viaggia su di una freccia d'oro, raggiungendo l'Ellade dove insegna a Pitagora e libera gli elleni da malattie ed epidemie (Giorgio Colli, La Sapienza Greca). L'arco riassume tutti i tratti apollinei e iperborei: il colpire da lontano dominando l'aria, la lucentezza, la sonorità. Sappiamo che gli antichi sciamani siberiani usavano il suono della corda di un arco quale tecnica di meditazione-trance. Il successo dell'arco anche nella tradizione d'Israele potrebbe spiegarsi con la fattura degli antichi archi, composti da corna di caprone selvatico, di ariete, come quello di Odisseo, e, quindi ebraicamente rinviante alla spiritualità templare e giubilare dello jodel.

Astromiticamente abbiamo la costellazione della freccia e quella del sagittario. La prima condensa molteplici racconti, secondo i Catasterismi di Eratostene: corrisponde alla freccia con cui Apollo trafigge i Ciclopi per vendicarsi della morte di Asclepio, colpito dal fulmine di Zeus. Ma appare pure come la freccia, nascosta da Apollo presso il Tempio di piume degli Iperborei (uno dei primi sacrari di Delfi secondo la Periegesi di Pausania), con cui ritorna Demetra carica di frutti. Anche in queste tracce la freccia esprime sensi sapienziali ed iniziatici che rinviano ad un’epoca dell'oro perduta. La costellazione del Centauro invece ricorda Chirone o Folo. Questo aspetto avvicina l'elemento igneo e l'ardore al carisma dell'arco. Nel caso di Chirone, maestro di Asclepio, Giasone, Achille ed Enea, una freccia di Heracle accidentalmente lo ferisce dolorosamente, in quanto intinta nel veleno dell'Idra di Lerna. Chirone rinuncia all'immortalità in cambio della liberazione di Prometeo. La freccia quindi unisce due esseri profetici e primordiali: il centauro Chirone e il titano Prometeo e l'aquila che divora il fegato di Prometeo si chiama Aetone, la splendente. Un’aquila solare e fiammante, simile alla Fenice.

Igino nella sua Mitografia Astrale ci regala un dettaglio prezioso: la freccia, immensa, di Apollo viene da lui nascosta nel Monte Iperboreo. Il circolo semantico-simbolico Ciclopi-fulmini-Asclepio-Zeus-Apollo rinvia alla freccia quale segno non solo di morte ma anche di luce, vita, rinascita, segno di un viaggio iniziatico-misterico. Il Monte Iperboreo ricorda Atlante, Parnaso e l'Elicona e svela un’associazione fra la grande freccia e l'asse polare del mondo. Igino allude al nesso iperboreo tra Heracle, la misteriosa freccia e la liberazione del sapiente Prometeo, unico titano non relegato nel Tartaro e più veggente di Zeus. Questo mitografo, infatti, racconta che è stato Prometeo ad indicare ad Heracle la segreta via che conduce al nordico e iperboreo Giardino delle Esperidi.

La stessa freccia di cui parla Erodoto riguardo allo sciamano iperboreo Abari. Ci avviciniamo al mistero della sapienza degli Iperborei i quali vengono descritti dalle fonti quali sia popolo che conosce l'arte di dominare l'aria e il volo he popolo sapiente che governa un Eden polare. Che la freccia sia poi associata anche ad una Demetra volante che riporta il grano ricorda i Misteri di Eleusi alla cui fondazione appare legata la descrizione, l'Inno omerico, di una Demetra che vaga come volando alla ricerca della figlia. E pure ricorda il carro volante con i draghi di Medea e Saturno. Nel racconto di Igino l'arte dell'arco viene inventata dal satiro Crotus, figlio di Pan e di Eufeme, la nutrice delle Muse, raffigurato nella costellazione del Sagittario. Dal nordico Elicona quindi discende tale arte.

Senza dimenticare le Amazzoni il cui stesso nome secondo la tradizione viene dal greco a-mazon, cioè “senza seno” in quanto si racconta che si tagliassero un seno per tirare meglio con l'arco, loro arma prediletta insieme all'ascia bipenne. La predilezione delle Amazzoni per l'arco ne conferma la spiritualità iperborea, e non a caso le Amazzoni son collocate oltre il Tanai, cioè il Don, e oltre il Bosforo Cimmerio, una delle artiche “colonne di Heracle” oltre il quale si apriva Iperborea. Tali varchi tra i ghiacci erano chiamati “colonne di Briareo” prima delle imprese di Heracle. Il combattimento contro le Amazzoni, alleate di Ilio e fondatrici del tempio di Artemide ad Efeso, interessò molte generazioni di eroi, come fosse una prova iniziatica: Bellerofonte, Teseo, Heracle, Achille e persino Dioniso, durante il suo viaggio verso l'India.

Il senso cosmico-iniziatico del tirare con l'arco compare anche in dipinti come la Caccia in laguna del Carpaccio (Paul Getty Museum), dove mentre gli arcieri puntano agli anatidi lagunari dalle imbarcazioni in cielo appare una bellissima freccia viva composta dalle oche in volo verso l'alto.

Ma l'arco e le frecce quali segni spirituali non cessano di operare con la fine dell'Antico Testamento e del Mito greco. L'iconografia di uno dei santi più venerati dal Medioevo al Barocco lo dimostra: San Sebastiano, l'ufficiale romano pretoriano trafitto ma non ucciso dalle frecce. Il suo martirio si completa con una santa morte sotto i colpi di più bastonature ma è la trafittura con più frecce che lo prepara al martirio e già come lo “glorifica in vita”! Liberale da Verona lo dipinge, in un quadro esposto alla Pinacoteca di Brera, come un novello Apollo, con l'arco posto ai suoi piedi, imperturbabile nonostante le trafitture, arco associato alla sua persona quale fosse una prova santificante. Come Apollo diventa Pizio dopo la vittoria sul serpente così San Sebastiano appare con l'arco e le frecce associate, incorporate nella sua persona, come esse stessa santificate. Le frecce quale analogia crucis nella loro capacità di immobilizzare e attraversare? Certamente veicolano sottili sensi trasformativi.

San Sebastiano non è l'unico santo martirizzato con l'arco, basti pensare alla Sant'Orsola del Carpaccio nella scena conclusiva, ma, a differenza di altri, appare un alter Christus nella sua associazione alla colonna/albero, come già Cristo nella sua flagellazione. Sebastiano quindi appare “croce vivente” nell'assorbire sia l'elemento verticale che quello orizzontale delle frecce, elementi che nel suo corpo si incardinano manifestandolo come Centro. L'arco come segno di conflagrante e immediata psicomachia appare nella sua potenza nell'Ercole di Durer, il quale, rosseggiante, spaventa e vince tendendo l'arco gli uccelli della palude Stinfalia, rappresentati dall'artista come arpie, sfingi o demoni, ora oscuri, ora multicolori. Ma c'è di più e ce lo svela il misticismo cattolico barocco interpretato dal Bernini la cui maestria stupefacente scolpisce nel 1652 in Santa Maria della Vittoria a Roma l'estasi di Santa Teresa d'Avila come una trafittura angelica di una mistica freccia che attraversa il cuore della santa portandola all'estasi cristica, divina. Lo scoccare vittorioso della freccia resta segno teofanico, svelante il senso di una metanoia radicale, improvvisa, imprevedibile, sovraumana. Un cambiamento che è uno scambio, un ribaltamento.

E che dire dello sguardo penetrante e concentrato del Cupido del Parmigianino, colto mentre si sta con decisione intagliando il suo arco? È il trionfo del Logos, del volo dell'intelletto che apre la rivelazione, anche se il Libro appare chiuso. Per quale motivo l'arco e le frecce appaiono così affascinanti? Il gesto del tiro si mostra semplice, lo strumento anch'esso semplice e veloce, l'effetto massimo. Non si dà archetipo maggiormente efficace.