Per chi, come noi in Italia, ha vissuto la fase acuta della pandemia rinchiuso nelle rigide maglie del lockdown, la fine di questo ha sostanzialmente prodotto una distorsione percettiva, e cioè che sancisse non solo la fine del pericolo sanitario, ma anche il superamento della crisi innescata dalla pandemia. In realtà, questa deve ancora dispiegarsi appieno. Il COVID-19 ha avuto l’effetto di acceleratore di processi, ne ha prodotto la rapida emersione, ma non ne è la causa.

A monte, c’è da un lato il progressivo incepparsi della globalizzazione mercantile, quale l’abbiamo conosciuta negli ultimi vent’anni, e dall’altro l’emergere di una nuova forma di capitalismo estrattivo, che produce plusvalore non più a partire dal lavoro umano ma dai “dati”, cioè - in ultima analisi - dalla vita stessa delle persone.

Quel che la pandemia ha portato alla luce, quindi, è ben più che una crisi economica, le cui radici affondavano comunque nell’humus dei decenni scorsi, e su cui il virus ha agito come moltiplicatore, ma una vera e propria crisi culturale: sul breve/medio periodo, l’intera società globale dovrà prendere un’altra direzione, perché i meccanismi che sinora l’hanno governata non sono più in grado di funzionare, e perché all’interno di questi si sono prodotti mutamenti “evolutivi”, che premono alle porte per prendere il sopravvento.

Ora più che mai, quindi, è necessario che noi cittadini, se vogliamo evitare di essere oggetto e non soggetto delle trasformazioni sociali, accresciamo la nostra capacità critica; non è (più) sufficiente la resilienza, ma si rende necessaria una “resistenza attiva”, capace di contrastare i processi negativi e di attivare quelli positivi.

Naturalmente, la capacità critica si forma e si sviluppa nell’ambito di un contesto multiforme, in cui concorrono non pochi elementi, a partire dall’istruzione e dalla formazione culturale di base, cioè dalla scuola. Ma uno di questi elementi, spesso sottovalutato - e non solo da questo punto di vista - è la nostra relazione con l’arte. L’arte è oggi per lo più percepita come un oggetto di consumo (sia che si tratti dell’acquisto di un’opera, che della visita ad un museo), ma la sua funzione reale, sociale, è innanzitutto quella di interrogarci, di porci domande - sul mondo in cui viviamo, su quello che si prefigura, su noi stessi... - e quindi di stimolare, appunto, la nostra capacità critica.

Per questa ragione, contrariamente a quanto si possa pensare, l’arte non è oggi “l’ultimo dei problemi” di cui preoccuparsi, ma uno degli strumenti - e dei più potenti - per acquisire la consapevolezza e la capacità necessarie per fronteggiare i problemi che ci si pongono innanzi.

Oggi l’arte soggiace, pressoché totalmente, alla logica del mercato. Ma, a partire da questa, se ne può sovvertire il meccanismo “mercantile”. Attivando un diverso dialogo tra domanda ed offerta, si può in effetti costruire una diversa “relazione” tra arte e cittadini. Insisto su questo termine per una duplice ragione: intanto, perché il termine “pubblico” implica un ruolo passivo, ma soprattutto perché cittadinanza è uno status politico, che definisce il rapporto tra il singolo e la collettività, e l’arte è assolutamente parte di tale rapporto.

È precisamente quando l’arte ‘emerge’ dalla dimensione dell’artigianato, che assume questo ruolo “sociale”. Basti pensare all’antichità classica, greca o romana.

Da un lato, dunque, bisognerebbe che tutti noi, come cittadini, reclamassimo non solo “più arte”, ma anche la possibilità di fruirla in modo diverso. Non più solo in luoghi “deputati” a contenerla - siano essi musei, gallerie, cinema o teatri - ma in ogni luogo della nostra vita. Dovremmo chiedere che l’arte abbia modo di invadere strade e piazze, come e più dei dehors. Ed a loro volta, gli artisti dovrebbero uscire dai loro studi e camerini, non semplicemente per ‘esporre’ la propria arte nei luoghi aperti della città, ma per creare arte che sia in dialogo con questi luoghi, che crei senso collettivo, che interagisca dinamicamente con chi li vive e li attraversa.

In tal modo, l’arte recupererebbe quella funzione sociale che le è propria, e con essa anche un diverso status sociale. Se l’arte è funzione “pubblica”, va sottratta alle leggi del mercato. Diviene un bene comune.

Allo stesso tempo, è necessario che anche i “contenitori” dell’arte, i musei in primis, ripensino radicalmente la propria collocazione nella società.

Da questo punto di vista, ancora una volta, sembra che la pandemia ed il lockdown abbiano svolto la funzione del dito che distrae dalla Luna. Per la maggior parte di loro, infatti, la chiusura forzata ha spinto verso soluzioni ‘di continuità’ attraverso l’approntamento di strumenti divulgativi online. Che, anche grazie al contemporaneo confinamento dei cittadini, hanno spesso avuto un discreto successo.

Il rischio, oggi, è che si scambi una soluzione “di emergenza” per la nuova frontiera museale. Insomma, che si riduca tutto ad una questione strumentale, su quali mezzi utilizzare per svolgere la propria funzione (che però rimane invariata), mentre è necessario invece interrogarsi su quale sia tale funzione; e solo dopo, chiedersi quali siano i mezzi migliori per adempierla.

Intanto, i musei non dovrebbero diventare dei ‘buchi neri’, che ingoiano tutto, ma al contrario dei centri propulsori, espansivi, capaci di proiettare l’energia cinetica dell’arte nell’habitat circostante. Luoghi aperti, attraversabili, ed al tempo stesso focolai d’infezione culturale, dove si “educa” all’arte ed alla bellezza.

È sempre vera la lezione di McLuhan, “il mezzo è già il messaggio”, e quindi usare l’Augmented Reality piuttosto che la videoproiezione non è indifferente. Ma è il contenuto che conta. Ed il contenuto non è un insieme di opere o di informazioni, ma il senso intrinseco di ciò che si vuole comunicare. Più che di “social media manager”, quindi, le istituzioni museali necessitano di una riflessione sul proprio collocamento attivo nella società, sul ruolo che gli compete nel contesto trasformativo in cui ci troviamo.

Per affrontare la sfida del futuro prossimo venturo, servono anche strade come musei, e musei come piazze cittadine.