“Lei beve troppo poco” mi aveva detto il medico. “Le consiglio almeno due litri d’acqua al giorno, preferibilmente lontano dai pasti. Poi, vista l’età, faccia un po' di moto quotidiano. Si stacchi da quel computer, esca di casa, anche solo per fare il giro dell’isolato. E appena ne ha l’opportunità, prenda la macchina e vada fuori città, si perda in un bosco, cammini lungo un fiume… Ha mai osservato da vicino una sorgente d’acqua? Ecco, se le capita, si soffermi e osservi quel piccolo getto che zampilla inesausto, ne segua il corso e si stupisca di fronte alla nascita di un fiume…”

Ora che ci penso, c’era un fiume così, vicino a casa. Ricordo bene l’eccitazione di noi bambini per quell’acqua in movimento. Per chi non poteva andare al mare o pagarsi la piscina, quello era l’unico posto dove poter fare un tuffo. Nei periodi di piena l’acqua fluiva abbondante, tracimando e creando lanche e pozze profonde, perfette per bagnarsi.

Esisteva anche il punto più amato - e anche il più temuto- del nostro fiume, quello si trovava al limite del caseggiato, in prossimità di un ponte: là tutta l’acqua veniva convogliata in una strettoia e scompariva in una tubatura di cemento, inghiottita dall’oscurità. Quelle erano le nostre Colonne d’Ercole, i confini con l’ignoto. Il motivo che spinse per mesi noi bambini a sognare, a progettare imbarcazioni, a immaginare viaggi avventurosi fino al mare

Perché era là che saremmo arrivati. Ne eravamo certi.

Questi e altri pensieri acquatici affollavano la mia mente l’altro giorno al supermercato, mentre cercavo di sopravvivere in coda, col carrello. Non sarei dovuto essere là, per la spesa, di solito mi servivo altrove. Fu quindi una coincidenza sia trovarmi lì sia scoprire, in mezzo a quella moltitudine, un volto conosciuto. Che però non ricordavo chi fosse. Per dieci minuti buoni mi sforzai di collegarlo a qualcosa di familiare, senza successo. Quei due occhietti ravvicinati però, insieme al grande naso aquilino, appartenevano indubbiamente alla mia memoria. Quando però gli fui vicino una voce dentro di me si impose e mi fece esclamare: “Antonio!” Vidi che fece una smorfia. Mi lanciò un’occhiataccia, come di chi viene preso con le mani nel sacco, ma subito cambiò espressione e si voltò, ignorandomi. Insistetti: “Scusa ma tu per caso ti chiami Antonio? Lui si girò di nuovo e riuscii così a cogliere altri particolari del suo volto, un neo sull’orecchio, il labbro inferiore sottile… Ora ricordavo! Era lui! “Ma lo sa che lei mi sta annoiando?” rispose indispettito. “Non so di cosa stia parlando...” E di nuovo mi gelò con uno sguardo. Troppo tardi, dentro di me era avvenuto come un crollo; aveva ceduto la diga invisibile che da tempo immemorabile tratteneva i miei ricordi. E le immagini interiori avevano preso ad uscire con prepotenza, come un’enorme massa d’acqua fuori controllo. Rimasi immobile a guardare quell’uomo fino all’ultimo, come avevo fatto trent’anni prima, quando avevo visto Antonio andar via. Riuscivo anche a rivederlo ora, in piedi sulla sua rudimentale imbarcazione, fino all’attimo in cui si era dovuto piegare ed era scomparso dentro il tunnel. Saremmo dovuti essere in due su quella zattera, avevamo progettato insieme quel viaggio, raccolto insieme le scorte alimentari, gli indumenti, tutto. Poi i miei genitori avevano fiutato qualcosa e mi avevano scoperto. Nonostante ciò, disperato, ero riuscito a scappare da casa e a correre giù al fiume. Ma lui era già partito. Lo vedevo, lontano. Si era anche voltato senza però salutarmi. Poi, era sparito. Per settimane tutto il percorso del fiume fu setacciato palmo a palmo. Furono chiamati i sommozzatori e io fui interrogato varie volte dalla polizia.

Ma fu tutto inutile.

Di Antonio non fu mai più trovata traccia. Un anno dopo, nel medesimo giorno in cui era scomparso, fu celebrato un rito simile a un funerale e tutti dal villaggio corsero a salutare Antonio un’ultima volta. Da allora a nessun bambino fu più permesso di bagnarsi nel nostro fiume.

L’incontro al supermercato mi segnò profondamente. Ricordi per lungo tempo dimenticati cominciarono ad affollare la mia mente, mescolandosi a una rinnovata consapevolezza di quel trauma subìto. Erano tornati a trovarmi anche tanti incubi dimenticati, immagini ricorrenti di Antonio in una grotta paurosa, catturato da mostri terribili. Mi ricordai di pellegrinaggi fatti fino al ponte, di attese in ascolto accanto all’ingresso del tunnel. Nessuno aveva creduto mai alle mie storie, quando dicevo di aver udito una voce o un pianto. Cercai aiuto nella psicoterapia, ma non trovai mai le risposte, né qualcosa che lenisse la sofferenza e il senso di colpa. A tutto questo si aggiungevano ora nuovi interrogativi non meno terribili: dove era stato Antonio tutto quel tempo? Perché una volta tornato non si era fatto vivo con me? Mi resi conto di colpo che tutta la mia esistenza era stata influenzata da quella vicenda. Se solo avessi saputo che lui era ritornato o che era sopravvissuto, io, oggi sarei stato una persona completamente diversa.

Il rimpianto improvvisamente si trasformò in rabbia.

E poi ancora incubi. Cominciai a non mangiare più. In famiglia, in ufficio, nessuno capiva quello che stavo vivendo. Anche per questo avevo taciuto. Nessuno sapeva che avevo rivisto Antonio.

Decisi di andare a cercarlo.

Mi appostai allora davanti al supermercato. Se era già stato là una volta, sarebbe tornato, pensai. Attesi ore che si trasformarono in giorni. Cambiai più volte l’orario. La gente nel quartiere cominciò a guardarmi con la curiosità che si riserva ai malati di mente. Poi una mattina, lo rividi. Era un sabato, impossibile dimenticarlo. Antonio indossava la stessa giacca della volta precedente, anche la camicia pareva la stessa. Lo investii prima a parole, poi aggredendolo fisicamente. Un cassiere chiamò la sorveglianza, ma l’addetto non fece in tempo a intervenire, perché Antonio mi prese subito da parte e ad alta voce mi disse: “Adesso basta!” E poi, rivolgendosi ai presenti aggiunse: “È un mio amico, scusateci, ora andiamo via...”

Quello fu, nella confusione, un momento di gioia, perché ebbi la conferma che era proprio lui. Avevo visto giusto, non ero pazzo. Mi lasciai strattonare fino all’uscita mentre lui non smetteva di parlare: “Usciamo di qua, cerchiamo un altro posto altrimenti finisce che qualcuno chiama un’autoambulanza e finiamo tutti al manicomio.”

“Antonio, Antonio, ma allora sei tu veramente…” ripresi a incalzarlo. “Dove sei stato in tutti questi anni? Cazzo Antonio, tu me lo devi dire. Credevamo tutti che fossi morto…”

“Vieni con me” rispose. “Sali in macchina, cercherò di spiegarti...” E così dicendo, dopo pochi metri si fermò davanti a un’utilitaria grigia e mi invitò a salire, prendendo il posto di guida. Uscimmo dalla città. Non mi curai della direzione, troppo assorto a guardare Antonio. Osservai subito le sue mani divenute adulte, i suoi capelli, il suo profilo. Lui continuò a guidare senza parlare, pareva quasi che cercasse di evitare il mio sguardo. Quando scoppiai a piangere, però, si volse di scatto intimandomi: “Non piangere!” Esplosi. Cominciai a urlare: “Antonio, io ho passato tutta la vita con il senso di colpa per averti lasciato solo quel maledetto giorno. Perché non ti sei mai più fatto vivo? Se non ti avessi riconosciuto al supermercato, avrei continuato a vivere prigioniero dei miei incubi. Sei stato veramente una m...”

“Adesso basta! Datti una calmata. Non far finta di dimenticare che qui c’è qualcuno che all’epoca si è comportato da codardo e quel qualcuno sei tu. Fino all’ultimo minuto ho sperato che arrivassi, quel giorno. Ma una volta staccato l’ormeggio, anche se avessi voluto, non avrei potuto fermare la barca, c’era troppa corrente. Tu in ogni caso mi hai tradito. Che cosa pretendi ora da me? Non posso perdonarti. E poi che cosa sai di me? Non sai nulla di quello che ho vissuto in questi trent’anni. “Mentre mi parlava, Antonio aveva continuato a guidare, come ipnotizzato, apparentemente senza meta. Raggiungemmo una zona semiperiferica. Capannoni industriali tra radi boschetti superstiti limitavano la vista dell’orizzonte. In lontananza si scorgeva lo svincolo sopraelevato di un’autostrada. Improvvisamente fermò la macchina. “Come mai ti sei fermato qui?” chiesi sorpreso.
“Non lo riconosci?” mi rispose Antonio.
“Che cosa?”
“Il fiume! Il nostro fiume!” esclamò sorridendo.

Solo allora mi resi conto del posto in cui ci trovavamo. Alzai lo sguardo e riconobbi il campanile. Era l’unico riferimento familiare, il resto del paesaggio appariva completamente sfigurato da costruzioni recenti. Il nostro fiume era un canale con gli argini cementati. “Qui è iniziato tutto” esclamò solennemente Antonio. Scendemmo dall’auto e rimanemmo per qualche istante in silenzio. Tra i ciuffi d’erba strenuamente cresciuti lungo l’argine artificiale, vidi dei piccoli fiori gialli. “Te lo ricordi quel ciccione del Brambilla, quando gli facemmo l’agguato e lo buttammo in acqua? chiese ridacchiando Antonio. “Ah, sì!” risposi.” Come potrei dimenticarlo, fui io a spingerlo dentro!” Sorrisi, complice.

La leggerezza di quell’attimo ebbe però vita breve; dopo pochi minuti la tensione e l’angoscia erano già ricaduti su di noi. “Antonio” dissi a quel punto. “Antonio, ti prego. Io ho veramente bisogno di sapere cosa è successo. Ho bisogno di ricostruire, di colmare questo vuoto insopportabile. E solo tu lo puoi fare.”

“Basta! Smettiamola di rimproverarci colpe reciprocamente. Così non ne usciremo mai. Sono passati trent’anni. Anch’io, come te, sono stato a lungo alla ricerca di un senso. Ma a pochissimi ho raccontato quello che è successo. Ora a te questo lo devo.”
“Racconta, dai Antonio, racconta...” aggiunsi con fare implorante.
“Ricordi i nostri piani di viaggio?” mi disse.
“Ricordi che avevamo stimato in due giorni la durata della navigazione sotterranea? Beh, vuoi sapere una cosa? Sono rimasto là sotto per otto giorni. Otto fottutissimi giorni. La mia fortuna è stata quella di essermi attrezzato con due torce con sufficiente autonomia, anche se ti assicuro che a un certo punto avrei preferito non vedere più nulla…”
“Perché? Cosa è successo?” chiesi io.
“Topi. Decine e decine di topi hanno da subito invaso la barca facendo scempio di tutte le mie riserve alimentari. All’inizio ne ero letteralmente terrorizzato. In realtà loro erano interessati solo al cibo. Il problema è sorto quando il cibo è finito e hanno cominciato a venirmi addosso. Passavo il mio tempo a strapparmeli dal corpo, a schiacciarli usando qualsiasi cosa mi capitasse in mano, a fasciarmi le ferite procurate dai loro morsi feroci. Non riuscivo più a riposare, mi sentivo come in un incubo senza fine. Per ben due volte poi la barca si è incagliata. Muovendomi come un cieco in una discarica sono riuscito fortunatamente ogni volta a liberarla da sterpi e rifiuti e a ripartire. Ero però sempre più stremato e angosciato. E avevo perso quasi tutte le attrezzature di emergenza. Mancando la vista, fu solo grazie all’olfatto che capii di essere uscito da quella fogna. La puzza di liquame e piscio rancido improvvisamente lasciò spazio ad un buonissimo profumo di boschi e di legno umido. Ero troppo stanco per festeggiare e caddi svenuto. Quando mi svegliai aprii gli occhi e vidi le stelle. Stavo navigando in mezzo alle rapide di un grande fiume scuro. Non riuscivo a scorgere gli argini, in compenso i topi sembravano spariti. Trovai la forza di alzarmi in piedi e di riorganizzare l’interno della mia rudimentale imbarcazione, mettendo a posto le poche cose rimaste. In una sacca, insieme agli indumenti trovai una grossa biscia viva. La lasciai al suo posto in modo che mi facesse compagnia ancora un po'. Poi mi addormentai cullato dal suono dell’acqua. Navigai così per due giorni e due notti, senza incontrare né vedere anima viva. Solo una volta notai un aereo nel cielo, troppo lontano perché si potesse accorgere di me. Nonostante tutto mi sentivo felice. Provai di nuovo la gioia di bere acqua fresca a volontà e fui in grado di resistere ai morsi della fame. Le ultime riserve di cibo erano quasi esaurite. Durante la seconda notte ci fu un violento temporale; per mia fortuna il fiume, in quel punto, scorreva in un tratto ampio del suo letto. Non avrei sicuramente retto ad un’altra notte di rapide e di veglia. Le energie nelle ultime ore si erano drasticamente ridotte a causa di una forte febbre che scuoteva il mio corpo martoriato dalle ferite infettate. Presi in considerazione per un istante anche la possibilità di buttarmi in acqua, al buio e tentare di raggiungere la riva, ma la mia conoscenza del nuoto, molto scarsa all’epoca, mi fece desistere.”

“E quindi cosa successe?” chiesi io interrompendo il flusso delle sue parole…

“Successe che mi svegliai nella luce del giorno e mi ritrovai sdraiato sopra a un telo sulla riva del fiume. Attorno a me correvano e ridevano tanti bambini. Alcuni mi parlavano usando una lingua incomprensibile. Poi giunsero anche degli adulti, ricordo una donna molto robusta con un’immensa gonna a fiori e il fazzoletto sulla testa e alcuni uomini sorridenti con i denti d’oro. Qualcuno mi offrì del pane, qualcun altro dell’acqua. Tutti erano pacifici e gentili. Sentii di essere in salvo. Aveva poca importanza non sapere dove mi trovassi o chi fossero quelle persone. Ero salvo, questo contava. Avevo superato la grande prova di coraggio del fiume. Questa era la cosa più importante per me.”

“Chi era quella gente? L’hai poi scoperto? Ti hanno aiutato loro a tornare a casa?”

“Erano Rom, di etnia rumena, ma questo l’ho saputo dopo. Loro purtroppo parlavano solo la loro lingua, niente altro. Però sono stati molto generosi con me, debbo loro la vita. Anche se poi mi hanno sequestrato per un lungo tempo, impedendomi di andare via.”
“Ma come? Eri prigioniero?” chiesi, con sguardo preoccupato.
“Sì, mi adottarono ma fecero in modo che non mi allontanassi. Arrivarono anche a picchiarmi per evitarlo. E varie volte vidi la polizia passare a controllare il nostro accampamento mentre loro mi tenevano nascosto, sotto minaccia. Vivevamo in roulotte, dormivamo tutti addossati. Era divertente. La comunità all’inizio contava solo una ventina di persone. Ogni due mesi cambiavamo posto.”
“Ma tu non tentasti mai la fuga?”
“No. Devo dirti che anche quando avrei potuto non provai quel desiderio...”
“Ma scusa e la tua vita qui in Italia? I tuoi amici? I tuoi familiari? Nessuno ti mancava? La tua povera mamma...”
“Ah, sicuro, soprattutto quella stronza di mia madre che da quando si era risposata aveva preferito mio fratello piccolo a me. Tu non sai molte cose…”
“Ah, scusa, non immaginavo avessi tali problemi…”
“Lascia perdere, non potevi saperlo. Neppure io ne ero veramente consapevole, ma la sofferenza, quella sì, la sentivo. Eccome se la sentivo! Ti posso assicurare oggi, a posteriori, che gran parte della voglia di partire che avevo dentro da bambino, era motivata da quello stress familiare. Volevo scomparire. E ci sono riuscito. Penso che molti di noi, se potessero, fuggirebbero lontano, via dalle proprie vite ordinarie. Fuggire, scomparire. Vivere una nuova vita altrove. Essere altro rispetto a quello che siamo sempre stati.”

“Mi stai dicendo che sei rimasto per trent’anni con quella banda di zingari?”
“Ehi! Attento a come parli! Non ti permettere di fare simili discriminazioni…”
“Hai ragione, scusa…”
“Comunque sì, sono rimasto con loro per lungo tempo. Antonio è stato trasformato in Anton e Dorina, la donna dalla gonna a fiori che mi aveva abbracciato per prima, è diventata la mia nuova mamma. Pensa, all’epoca aveva già sei figli. Già dopo due anni faticavo a ricordarmi l’italiano; in compenso ero già in grado di comunicare con tutti nella loro lingua.”
“Tutti chi, scusa?”
“Tutti i componenti del nostro clan. Come ti ho detto all’inizio eravamo venti ma poi, col tempo, siamo diventati tanti. C’era Dragos che era il capo indiscusso; quando l’ho conosciuto avrà avuto trent’anni, non di più. Girava a torso nudo anche d’inverno e mostrava con orgoglio una lunga cicatrice sul petto. Era manesco, ma sempre generoso e giusto con tutti. Un vero capo. Poi c’erano gli altri uomini, Petru, Yannis, Sorin…
“E a me non pensavi mai?” chiesi io. “Credevo di essere il tuo migliore amico…”
“Migliore amico e… grande traditore! Comunque sì, soprattutto all’inizio ho pensato spesso a te. Nell’anno successivo al mio arrivo, al sopraggiungere dell’autunno, non capivo come mai per noi bambini non venisse mai il momento di andare a scuola. Aspettavo, aspettavo, fino a quando qualcuno mi raccontò che nel mondo dei Rom la scuola come la intendiamo noi non esisteva. Allora ti ho pensato. Mentre andavo al fiume a pescare o da Dragos a imparare a lanciare i coltelli, pensavo a te e agli altri nostri compagni, inchiodati alle vostre sedie ogni mattina, obbligati ad ascoltare quella trombona della nostra maestra…” E ridacchiò.

“Ma ora che ci fai qui? Quando sei tornato?”

“Lascia che ti racconti le cose come sono andate. Sono diventato un Rom. È stato naturale per me. E gli anni poi sono volati. Quando ero poco più che adolescente ci siamo tutti spostati verso una regione chiamata Transilvania. Il nostro campo era situato a ridosso di una estesa zona di boschi, vicino a Sibiu. A diciotto anni, quando tu probabilmente eri ancora al liceo, io ero già sposato. La mia sposa si chiamava Lena, era bellissima. Aveva quindici anni ed era già incinta di Zoia, la nostra prima figlia. Tutto il clan contava allora più di cinquanta persone; era molto bello vivere in quel modo libero, facevamo spettacoli con animali, saltimbanchi e musicisti. I bambini facevano la loro parte raccogliendo denaro in giro per la città. Si stava bene. A vent’anni mi sono fatto il Mercedes nero con interni di pelle rossa. Quando andavo in giro con quello erano in molti a schiumare d’invidia, credimi. Dell’Italia, dei miei ricordi d’infanzia, non era rimasto nulla. Nacquero altri due figli, Mircea e Mina. Poi arrivò per Dragon il tempo di lasciare - io all’epoca ero ancora troppo giovane - ma altri si affrontarono per contendersi il posto di comando. Vinse un certo Petru, un pazzo furioso. Da quando ci fu lui le cose, guarda caso, cominciarono ad andare male. Il nostro campo in quel periodo si trovava nella periferia di Bucarest, ma io con la mia famiglia e altri stavamo a Costanza, sulla costa. Non avevo preso io quella decisione, era stata un’idea strategica del capo. “Per curare meglio gli affari”, aveva detto.”

“Quali affari, scusa?”

“Affari. Affari e basta! La vita a Costanza però era dura, c’erano anche i bulgari, gente di altri clan. E poi i russi, con i loro macchinoni e le ragazze. Insomma, una bella complessità da gestire. Ricordo, avevo compiuto vent’otto anni, portavo un paio di baffi incolti, controllavo la mia zona e sapevo farmi rispettare. Almeno così pensavo fino a quel maledetto 4 settembre del 2008...” Antonio a quel punto si coprì il volto con entrambe le mani.

“Che è successo Antonio? Non mi dire che…”

“Pareva un giorno come tanti altri, invece mi chiamarono i miei fratelli, sembravano impazziti. Mi dissero: ‘Corri Anton, il campo brucia!’ I bulgari, quei maledetti, avevano distrutto tutto. Quel giorno persi mia moglie, i miei figli, tutto. Bruciati vivi nella nostra roulotte. Era solo un avvertimento, avevano detto. Fu l’inizio di una lunga faida e io, non me ne pento, fui il più crudele di tutti. Ma il prezzo pagato fu altissimo.”
“Cristo Santo, Antonio…” esclamai guardandolo a bocca aperta…
“Qualcosa stava cambiando però, ma ancora non l’avevo capito. Lo avvertii una sera che con gli altri stavo “ripulendo” la barca di un tedesco, ormeggiata giù al porto. Sentii una fitta al petto, qualcosa si era modificato dentro. I miei fratelli parvero improvvisamente degli estranei. Per tutta la notte girai confuso per la città con la refurtiva nella macchina, aspettando l’alba. Appena i primi raggi del sole iniziarono a illuminare le case del lungomare mi avvicinai alla barca e chiamai il proprietario: si chiamava Hans Berhard, sì, ricordo, Hans Berhard. Avrà avuto settant’anni, il fisico asciutto e abbronzato, da navigatore. Senza sapere chi fossi mi accolse con un sorriso. Inutile dirti che fu molto sorpreso quando seppe che ero tornato per restituirgli la sua roba. Per questo, forse, diventammo subito amici. Trascorsi tutto il giorno con lui. Condividemmo un pranzo frugale nel pozzetto della barca, pane nero e sgombri in scatola. Mi sentii come un principe, ricco, felice, libero. Dimenticai per un attimo l’inferno che avevo alle mie spalle. Hans aveva in serbo una sorpresa per me: colpito dalla mia storia dolorosa si offrì di darmi un passaggio fino ad Istanbul con la sua barca. Non esitai un istante e accettai. Alla sera salpammo insieme, diretti a Sud.

“E poi? Cosa successe? Tornasti in Italia?”

“Beh, non ancora. Quando salutai Hans la strada da percorrere era ancora lunga e non avevo ancora l’Italia tra i miei obbiettivi. La priorità era sopravvivere. E allontanarmi il più possibile dalle violenze del passato. Riacquistai energia e fiducia. Conobbi un vecchio panettiere di origini rumene, il buon Ion Petreanu, che mi prese con sé per alcuni mesi, dandomi un letto e del cibo in cambio di un po' di aiuto nel forno. Purtroppo il clima politico in Turchia si deteriorò velocemente e la polizia iniziò una caccia serrata ai clandestini come me. Per evitare di essere messo in prigione o in un campo di raccolta, decisi di lasciare il Paese. Su consiglio di alcuni amici turchi mi unii al flusso dei profughi che annualmente attraversa la Turchia, diretto in Europa. Ion mi aiutò anche a trovare un passaporto falso e la notte del 18 novembre 2009 partii insieme a un gruppo di giovani uomini provenienti dalla Siria e dal Pakistan. In sei mesi riuscimmo ad attraversare a piedi le montagne della Macedonia e di gran parte della Croazia; poi sopraggiunse l’inverno e rimanemmo bloccati nei boschi. Fu un’esperienza durissima, fisicamente e psicologicamente. Ancora oggi non riesco a credere di essere sopravvissuto. Non c’era giorno in cui non dovessimo spostarci e scappare, braccati dai cani della polizia croata. Stremati, affamati, bersagliati da mille informazioni contradditorie sulla direzione da prendere e sulle prospettive di salvezza, riuscimmo fortunatamente a raggiungere l’Austria, Paese dal quale fummo però immediatamente espulsi verso l’Italia. Fu la nostra salvezza. Accolto insieme a centinaia di altri profughi in un centro di accoglienza vicino a Milano, sentii per la prima volta il richiamo delle mie radici dimenticate. Fu il suono della lingua, molto simile al rumeno, a riportarmi a casa. Tu non puoi immaginare quello che il destino mi stava riservando...”

“Non posso immaginarlo? A questo punto non oso immaginarlo...”
“Te la ricordi la Penny?”
“Chi?”
“La nostra compagna di classe, quella con i capelli rossi, che veniva a scuola sempre con le sue sciarpe multicolori fatte a mano. Piccolina, cicciottella…”
“Sì… ma, scusa, cosa centra ora la Penny?”
“Lavorava in quel posto! Era la mia insegnante di lingua italiana!”
“Dai, vuoi scherzare? Ma come è possibile?”
“Fin dal primo giorno mi era piaciuta, continuavo a guardarla. In realtà l’ho scoperto il giorno in cui, durante una lezione, si parlava dell’acqua e lei, per farci sentire il suono di alcuni vocaboli, aveva cominciato a raccontarci una storia… La storia di un bambino che sognava di partire lungo un fiume, con una barca. Ci siamo guardati e io ho cominciato a piangere. Credimi, non riuscivo più a smettere.”
“Ma questa storia è incredibile! Antonio!”
“Tu non puoi immaginare cosa è stato il momento in cui lei ha capito chi fossi! E mi ha permesso di ripercorrere e recuperare in un istante la mia vita passata. È stato come un geyser esplosivo che dal centro della terra ha spazzato via ogni sofferenza. Da quel momento le sorprese hanno cominciato a giungere a flusso continuo. Ininterrottamente. Pensa che Penny mi ha rivelato che sapeva del nostro progetto, un giorno a scuola aveva intercettato una delle nostre mappe. E il giorno della partenza lei era lì al fiume. E sai cosa mi ha detto? Che in quel momento solenne e drammatico aveva sentito nel cuore che qualcosa di immenso e inafferrabile ci legava e che lei mi avrebbe aspettato. Sapeva che un giorno sarei ritornato.”
“Antonio, non ho parole…”
“Io invece voglio dirti che ora che ci siamo ritrovati dobbiamo guardare avanti, possiamo superare i nostri vecchi rancori. Chissà che io e te ora non si riesca a fare anche qualcosa insieme. Che ne dici? Ho un amico che fa l’editore che si è detto pronto a pubblicare la mia storia, ma ci vorrebbero delle belle illustrazioni. Tu ai tempi mi ricordo eri piuttosto bravo con le matite colorate...”
“Uh, che bella idea! Però sono anni che non tocco una matita, non credo di essere la persona giusta, potrei provarci però. È così strano, fino a questa mattina mi sentivo devastato dal nostro incontro, ora invece mi sembra di volare!”

Ripercorremmo la strada verso la città mentre il sole tramontava. Il cielo infuocato partecipava alla nostra festa. La radio accesa nella macchina aveva cominciato a trasmettere una vivace musichetta zigana. Vidi Antonio tamburellare con le dita il volante e lo sentii canticchiare qualche strofa. Quando si accorse che lo stavo spiando, smise di colpo e scoppiammo a ridere.