Ecco sto in piedi alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce
e apre la porta entrerò da lui e cenerò con lui e lui con me.

(Apocalisse di Giovanni, 3,20. Traduzione da: Il ritorno della Gloria, Il Cerchio, 2013)

Ci sono parole precise per descrivere l’Infinito? Può Dio essere chiuso in definizioni? Può l’Incondizionato, lo S-modato qualificarsi in modi, cioè in forme e attribuzioni? Sembra di sì in quanto quell’esperimento di rinnovamento mondiale del linguaggio che è stato e continua ad essere il greco antico dell’originale dei Vangeli, un greco ricco di neologismi, conversioni semantiche, semitismi, ci riserva continue sorprese e occasioni di riflessione e meditazione. Se il fondamento del Cristianesimo è l’incorporarsi nello spazio di un Dio Spirito Infinito nella carne allora la stessa parola, in quanto epifania della divina Parola Vivente, assume tratti corporei, reattivi, personifici, metamorfici.

Siamo nel centro di un grande paradosso spirituale: l’unicità di Dio e la sua infinità colte tramite la manifestazione plurima e plurale dei Suoi più intimi attributi. L’interrogazione si fa più specifica quando partiamo dalla considerazione del fatto che sono solo due le qualificazioni che il Nuovo Testamento ascrive a Dio nella Sua unità e pienezza: luce e amore. Non a caso è Giovanni l’apostolo e l’evangelista dell’Amore spirituale, colui tra le cui precise e sapienti parole va condotta questa ricerca contemplativa e meditativa. Partendo appunto dalle sue due e uniche definizioni lapidarie dell’essenza e della natura di Dio: “Dio è luce” (1Gv.1,5) e “Dio è amore” (1Gv. 4,8).

Il greco antico conosce quattro termini per indicare quello che in italiano chiamiamo come “amore”: agape, philìa, xenìa ed eros. L’agape è appunto il termine utilizzato in queste due formulazioni totalizzanti. L’agape è l’amore divino, con cui Dio ama e di cui Dio è capace, la sua stessa sostanza, che tutto regge. Un amore che esprime valori di comunione totale, di unità vivente, appena immaginabili dall’uomo. È l’amore di cui Giovanni parla come di un qualcosa di reale, quasi entificato e condensato, presente più di un corpo fisico, che deve “dimorare”, cioè prendere stabile abitazione dentro l’animo umano, dentro la vita terrena: “Se uno avesse la vita del mondo e vedesse il suo fratello nel bisogno e chiudesse la sua tenerezza verso di lui come l’agape di Dio può rimanere in lui?” (1Gv. 18,17. traduzione letterale).

È il banchetto cosmico e celeste che tutto attrae a sé e che tutti invita. Un Amore-Tutto, immersivo. Lo si coglie bene nella distinzione con l’amore philìa che evidenzia invece aspetti relazionali e di affinità, preziosi e necessari anch’essi ma meno intensi e meno inclusivi. L’amore di phìlia paradossalmente appare un luogo d’incontro più comprensibile fra l’amore di Dio e l’amore umano, una dimensione più accessibile dove l’uomo si sente più protagonista.

Vediamo con stupefacente chiarezza questa distinzione nel commovente dialogo fra Cristo e Pietro in uno dei loro ultimi incontri, sul lago di Tiberiade, dopo la Sua resurrezione. Come a sigillare con tre domande e tre risposte il superamento del suo precedente triplice rinnegamento Gesù interroga in via riservata Pietro, in un dialogo intimo ma solenne, umano e mistico. “Quando ebbero finito il pranzo Gesù disse a Simone Pietro: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” Una domanda che turba e sorprende e di un’importanza cosmica, perché dalla libera risposta Cristo lascia dipendere il futuro della Sua Chiesa e, quindi, del mondo, avendo deciso di fondarla sulla “pietra viva” dell’apostolo Simone. Una domanda che spiazza per due motivi: in primo luogo Gesù chiama Pietro con il suo vecchio nome: Simone. Sembra quasi tornare indietro rispetto all’investitura mistica che gli diede cambiandogli il nome a Cesarea di Filippi, quando Pietro rivela pubblicamente la divinità di Cristo in un impeto d’intuizione di origine divina (Mt.16.18) e Cristo lo chiama per la prima volta Pietro, all’interno di una promessa-profezia-statuizione ontologica dove persona umana e volontà divina universale diventano una nuova e singolarissima unità. Torna a chiamarlo Simone, Simone figlio di Giovanni, come a ribadirne la fragile umanità ma pure come a confermare la libertà della sua scelta, per quanto fatidica sarà. Non è un caso che la domanda sorga improvvisa dopo un pranzo del Risorto con gli apostoli sulla riva del lago, e non è un caso che si utilizzi come termine: agapao.

Si tratta, appunto, come si è detto dell’amore totale e d’unità, che è Dio. Pure spiazza questa domanda ripetuta tre volte perché ci interroga sulla nostra debolezza nell’amare e perché mostra come Dio faccia dipendere le sue scelte sul nostro destino dalla nostra capacità di amare. Pietro sarà il principe degli apostoli in quanto ama Gesù più di tutti gli altri apostoli. E questo manifesta un altro bellissimo paradosso spirituale: mentre Cristo ama più di tutti gli apostoli Giovanni, l’apostolo più fedele, più puro e più sapiente, il cui cuore non ha resistenze a Dio, Pietro ama Cristo più di Giovanni!

Asimmetrie dentro l’unico amore che è Dio che denotano l’importanza per il Cristianesimo della persona umana e della sua singolarità e unicità individuale. La risposta di Pietro appare fulminante e illuminante in quanto l’evangelista Giovanni nel descrivere la risposta immediata di conferma d’amore dell’apostolo non usa il verbo agapao ma il verbo, meno intenso, phileo. “Tu lo sai che ti voglio bene”, va infatti tradotto (Gv. 21,15). Come a insegnare, in modo diretto e chiarissimo, come l’amore umano è sempre un amore di risposta, e più debole, rispetto all’originario e insuperabile amore divino.

Nella terza reiterazione della domanda Cristo usa anch’Egli il termine phileo (Phileis me?) come ad adeguarsi alla capacità d’amore di Pietro, affinché almeno nell’amore d’amicizia ci sia comunque piena unità fra Dio e l’uomo. Nel Nuovo Testamento compare anche una nuova versione cristica dell’amore greco d’ospitalità: la xenìa, e compare in una delle scene evangeliche più intime, suggestive e commoventi, a cui corrisponde un bellissimo dipinto di William Hunt esposto nella Cattedrale di San Paolo a Londra (Cristo come Luce del mondo): il passo finale della Lettera alla Chiesa di Laodicea dell’Apocalisse. Si tratta della settima lettera inviata dal Cristo alla peggiore delle Sue Sette Chiese, la Chiesa malata di indifferenza e tiepidezza, di cui Dio ha disgusto. Eppure il Cristo mostra le Sue profondità più intime e affettuose proprio a questa dimensione umana di alienazione e di corruzione, e agisce proprio con questa immagine di Lui che bussa alla porta del cuore, di Lui che sta in piedi in attesa che l’uomo gli apra questo suo cuore. Xenìa quale intimità fra chi ospita e chi è ospitato.

L’antico amore greco che assumeva un ruolo sacrale-rituale squisitamente sociale, da cui spesso dipendeva la vita dei viandanti, e esprimeva la pietas verso Zeus dell’ospitante, qui nel nuovo contesto mistico cristiano diventa immagine della massima comunione e scambio spirituale fra Dio e l’uomo: il pranzare insieme. Nell’ospitalità ospite e ospitato si confondono e rivelano entrambi una simile e comune sacralità. Era già così prima di Cristo, come dimostra l’episodio di Filemone e Bauci dove gli ospitati sono Zeus ed Hermes, e a maggior ragione nella profondità sapienziale del Cristianesimo. Gli antichi ospitavano per non offendere Zeus e anche perché l’ospite avrebbe potuto essere un eroe o un semidio o una divinità mascherata, in incognito. Cristo insegna che è Lui stesso il Luogo dell’ospitare interiore. Immagine bellissima dell’amore, perché esplicita una struttura ternaria, triplice: chi ospita, chi è ospitato (il termine in italiano non a caso è identico) e la casa comune ad entrambi. Ma qual è il luogo dell’amore e di Dio come amore?

Il luogo di questo amore divino, in tutte le sue triplici modulazioni di luce, comunione, relazione d’affinità e accoglienza, è la “kharis”, da cui la parola “carità”, cioè la grazia. Nome frainteso e dimenticato, esprimente sensi di libertà, sovranità, perfezione, dono, vita superiore, traboccante ringraziamento. Lo spiega bene Giovanni nel Prologo al suo Vangelo, dove insegna come: “…la legge ci fu donata per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità venne per mezzo di Gesù Cristo” (Gv.1,17). La grazia appare la “casa” dell’amore, la condizione del suo emergere e agire, e l’unico limite e dimensione che permette di distinguere l’amore spirituale dall’affetto fisico, dall’abitudine affettiva, dal vincolo dei sensi, dall’emozione e dallo stato d’animo d’empatia, con cui l’attuale epoca tragicamente lo confonde e fraintende.