Bologna capitale della “fotografia industriale e del lavoro”, scena della rappresentazione visiva sui mondi produttivi e sui loro protagonisti, sul costruire e sulla presenza umana nel pianeta.

È quanto emerge dalla quarta edizione della Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro, il cui titolo recita “Tecnosfera: l’uomo e il costruire”. Curata da Francesco Zanot, la rassegna, dislocata nel centro storico del capoluogo felsineo, in dieci bellissimi luoghi e nella sede del MAST di Bologna - Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia – presenta fino al 24 novembre 2019 un tema assai complesso e di grande attualità; il lavoro e la presenza umana, di cui si sono fatti interpreti grandi maestri del Novecento e autori emergenti della scena fotografica internazionale. Lo testimonia assai bene, alla Pinacoteca Nazionale, Albert Renger - Patzsch (1897-1966) - il famoso fotografo tedesco, autore del libro Il mondo è bello (1928), considerato assieme a Karl Blossfeldt e August Sander, uno dei più importanti fotografi della “Nuova oggettività” – con la mostra Paesaggi della Ruhr. Si tratta di suggestive immagini che rappresentano paesaggi industriali spesso privi di persone, ma “abitate” da strade, ferrovie, sentieri, lampioni e pali elettrici, terreni incolti e discariche, casupole di minatori, ciminiere e torri di estrazione minerarie, alberi e giardini ma anche edifici a traliccio, dalla natura sostanzialmente formale e tale da rendere questi oggetti strutturali. Sono elementi che muovono in perfetta sinergia, tra allineamenti, identità e composizione. Rengers-Patzsch li dispone tutti in una sorta di scenografia che valorizza un paesaggio industriale, a cui conferisce risvolti intimi e funzionali, rendendo l’area della Ruhr l’espressione di un’essenza sublime e fredda, pregna di una poesia oltre un tempo.

A far eco in un’analoga prospettiva è Andrè Kertesz (1894 – 1984), autore di origine ungherese, di cui sono le foto che ritraggono una sua campagna pubblicitaria sugli stabilimenti Firestone ad Akron in Ohio, dove si era trasferito negli anni ‘40. Ne scaturisce una sequenza di immagini di grande impatto visivo, in cui l’uomo e l’oggetto sono al centro dell’immagine. E allo stesso modo è suo il lavoro in Pennsylvania, per l’American Viscose Corporation, uno stabilimento per la produzione di tessili sintetici. Kertesz fedele a uno stile molto personale, tratta i dettagli di un filo o una mano su di una macchina come fossero piccoli still life, con un’umanità protesa ai materiali e alle persone.

E altro interprete della scena fotografica, in una veste inedita, è Luigi Ghirri (1943-1992), di cui nei sotterranei di Palazzo Bentivoglio è Prospettive industriali. Un racconto * dentro i luoghi del lavoro. Ghirri già dalla seconda metà degli anni ‘80 collabora con Ferrari, riprendendo tutti i diversi reparti di produzione, i laboratori per la lavorazione del pellame fino ai pezzi di plastica, gomma e acciaio che daranno luogo ad una strabiliante macchina da corsa, in mostra ritratta in un campo da golf con tutta la sua potenza. È la Ferrari F 40. E alla fine degli anni ’80 è il progetto Bulgari - Nature morte, in cui documenta i lavori di preparazione dello showroom di Bulgari a New York nel 1989. Sono così le riprese dello studio dell’architetto Sartogo a Roma, ma anche quelle del marmista a Vicenza di cui riproduce le immagini dalle forme morbide e burrose, spingendosi fino all’officina di Verona in cui vengono forgiate le parti in metallo. Vere e proprie note poetiche, forme astratte e nature morte, immagini preziose che segneranno il passo del fotografo italiano.

Ma il gran tour bolognese presenta molte altre sorprese. Come l’originale lavoro di Lisetta Carmi sul porto di Genova e l’Italsider di cui ritrae gli aspetti più singolari e concreti come le chiatte, le banchine e le gru che compongono un paesaggio portuale intenso e coinvolgente, e con gli operai dediti allo scarico dei fosfati delle stive, alle movimentazioni delle merci a torso nudo, in condizioni di precarietà e difficoltà.

Altro suggestivo e riflessivo sguardo è quello di Armin Linke con Prospecting Ocean sullo sfruttamento dei fondali marini, o dell’artista filippina Stephanie Syjuco che in Spectral City, al Museo MAMbo, ripercorre a San Francisco l’itinerario del “cable car” dei Miles Brothers, ricostruendolo attraverso il software di Google Earth, che utilizza immagini satellitari, fotografie aeree per ottenere un modello tridimensionale del pianeta. O ancora Arquivo urbano dell’angolese Délio Jasse, e di Yosuke Bandai, invece, è il lavoro sul recupero dei rifiuti, mentre di David Claerbout è Olympia, una ricostruzione digitale dello stadio Olimpico di Berlino, realizzato nel 1936, collocata in una dimensione spazio-temporale privata della presenza umana e consegnata ai cicli della natura; e al Mast (prorogata fino al 5 gennaio) è Anthropocene con Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier – come un segno dei tempi e di catastrofi che investono sempre più concretamente gli strati geologici di un Pianeta in difficoltà, in un ambiente sempre più a rischio e su cui l’uomo dovrà ideare e costruire nuove conoscenze per un nuovo possibile futuro.