Belva, belve.

Parole che il nostro lessico quotidiano ha ormai quasi dimenticate, tanto che le ritroviamo quasi solo nei titoli di cronaca, e riferite ai comportamenti degli umani.

Invece, all’inizio del Novecento, quando Maurice de Vlaminck dipingeva con la stessa furia con cui si frantuma una vetrata, quella parola esisteva ancora. E gli calzava davvero bene.

I Fauves – le belve, così li chiamò il critico Louis Vauxcelles – non erano solo pittori dal colore sfrenato, ma artisti che trasmettevano un’impressione selvaggia e incontrollata attraverso le loro opere.

Nel 1905, al Salon d’Automne, furono esposti in una sala che aveva al centro una statua rinascimentale, e Vauxcelles commentò ironicamente dicendo che sembrava di vedere “Donatello nella gabbia delle belve”. La battuta passò in secondo piano, ma il nome rimase, e definì per sempre il movimento. Un nome che a prima vista può sembrare poco immediato.

Un quadro che sta appeso nella prigione della sua cornice, o colori che, per essere, devono necessariamente essere imprigionati ad un telaio, possono essere aggressivi, o addirittura mettere in pericolo la vita di chi li osserva?

Dipende da cosa intendiamo per vita – solo respiro, o anche tranquillità; solo mangiare, bere, dormire e ogni tanto socializzare, oppure anche libertà dall’angoscia del domani e a volte anche dell’oggi. In ogni caso, i Fauves volevano ottenere esattamente questo: far vacillare le superficiali sicurezze di chi li guardava.

E nessuno di questo movimento – durato solo cinque anni e scarsamente coeso fin dalla sua nascita – fece della ferocia pittorica un marchio d’identità quanto Vlaminck.

Iniziato all’educazione musicale dai genitori entrambi musicisti, ribelle fin da ragazzo alle strutture e dunque anche alla scuola, Vlaminck - che avrebbe voluto fare il ciclista, non glielo avesse impedito un grave incidente - non cercava di capire, né di interpretare: agiva.

La sua pittura era un gesto puro, un colpo di colore sparato senza esitazioni: un’arte che non nasceva da una scuola, ma da un istinto – tanto che, forse per vezzo più che per amore di informazione precisa, dichiarava di non aver mai messo piede in un museo, prima di cominciare a dipingere.

È pur vero però che non c’è nulla di mediato nei suoi colori puri, nelle pennellate che sembrano sfregi, nella tensione quasi rabbiosa che esplode dalle tele: “Per noi, il colore era dinamite”, scrisse André Derain, suo grande amico e compagno d’arte.

E la dinamite, si sa, non costruisce: esplode – e distrugge tutto quel che colpisce.

Poco attraente, almeno a giudicare dalle rare fotografie che lo ritraggono, Vlaminck non fece mai nulla per rendersi piacevole, o anche solo accettabile, alla società – che non amava, né punto né poco: non cercava di essere amato, né dalla critica né dal pubblico e visse sempre ai margini, quasi abitasse in lui una specie di rancore sordo verso il mondo.

Anarchico nichilista più che un rivoluzionario, durante il regime di Vichy scrisse testi che contenevano posizioni nazionaliste e passaggi che si potevano leggere come antisemiti. Tanto che questo gli valse, dopo la guerra, una temporanea interdizione dall’esporre e un forte ostracismo da parte del mondo dell’arte.

Vlaminck non si giustificò mai, non cercò redenzione: espiò senza dare spiegazioni la ‘pena’ che così gli era stata comminata e visse il resto della sua vita con un’amarezza incancellabile.

E non smise mai di dipingere, anche dopo la guerra, anche quando era ancora più all’indice di quanto forse egli stesso avesse accettato di dovere trovarsi: era dannatamente antipatico. Ma anche dannatamente bravo. Anche quando i suoi paesaggi si fanno più cupi, quasi svuotati, distinti da un tratto che, ormai lontano dall’ardore fauve, può sembrare addirittura zoppicante, il suo segno resta sempre di una concretezza assoluta – la stessa dei colori che stendeva dal tubetto, direttamente sulla tela. Mentre le sue opere di paesaggio, piene di cieli lividi di nubi, e di strade fredde di ghiaccio sporco di carbone, denunciano l’assenza perfino di quella flebile, pessimista speranza di un ordine possibile – per quanto lontano – che appartenne a Sironi.

“Ero un barbaro tenero,” disse di sé stesso Vlaminck.

“Un barbaro tenero e pieno di violenza. Traducevo d’istinto, senza metodo, una verità non artistica, ma umana”: ed è proprio in questo equilibrio tra brutalità e tenerezza che sta il suo fascino. Forse non amava niente e nessuno, se non la violenza stessa del colore.

Nella sua arte, come in una detonazione improvvisa e violenta, c’è già qualcosa che prelude all’Espressionismo, come una particella di ghiaccio solitaria annuncia la valanga.

La sua però è la pura incarnazione di una libertà che si esaurisce nell’atto stesso del suo esprimersi senza mai accettare regole, né, tantomeno, cercare giustificazioni.

Lì lo incontriamo, e lì dobbiamo lasciarlo, Vlaminck: nel suo isolamento scelto e feroce, che non vuole avvicinarsi a te, e non vuole che tu ti avvicini – solo che tu prenda atto della sua esistenza, e la rispetti. Come fosse una belva, incontrata per caso una mattina presto, sul tuo cammino.

E così lo lasciamo lì, Vlaminck, nel suo isolamento scelto e feroce.

Inquieto, e inquietante. Come una belva, che incontri sul tuo cammino.