È dedicata ad una delle più originali e apprezzate fotografe vissute tra il Novecento e il primo decennio di questo secolo, Vivian Maier (1926-2009) la mostra Vivian Maier, The Self-Portrait and Its Double in corso fino al 22 settembre 2019 al Magazzino delle Idee di Trieste.

Curata da Anne Morin, e organizzata in collaborazione con diChroma photography Madrid, John Maloof Collection e Howard Greenberg Gallery New York, la rassegna triestina presenta 70 autoritratti, di cui 59 in bianco e nero e 11 a colori, questi ultimi mai esposti prima d’ora in Italia, che raccontano la celebre fotografa attraverso i suoi autoritratti scattati quando ancora, da sconosciuta bambinaia, passava il tempo a fotografare senza la consapevolezza di essere destinata a diventare una vera e propria icona della storia della fotografia.

E bambinaia di professione, Vivian Maier lo è stata intensamente fra gli anni '50 e '90, scattando più di 100.000 fotografie in diverse parti del mondo, dalla Francia a New York. Dall'infanzia agli autoritratti, dalla vita di strada ai ritratti fino gli oggetti e al colore, Vivian Maier catturò così, attraverso appostamenti e una forte dedizione, particolari e dettagli straordinariamente evocativi del proprio tempo. Segni che raccontavano la strada, le persone, gli oggetti e i paesaggi.

Il suo occhio immortalò soggetti allora poco considerati, rendendoli invece protagonisti di una cifra stilistica che attingeva proprio dalla strada quale palcoscenico delle storie su cui si cimentava. Ma anche l'azione del fotografare, lo scatto vero e proprio teso a sottolineare l'attorialità dell'autore. Modus operandi dell’artista era scattare tante più immagini possibili conservandole senza mostrarle a nessuno. Anche così Vivian Maier fu una figura all’avanguardia. E di frequente essa stessa fu il soggetto delle sue fotografie, imprimendo il suo riflesso e la sua silhouette nello scatto. Lo testimoniano il gran numero di autoritratti presenti nella sua produzione fotografica. Ma assai rilevante nell'evoluzione visuale della fotografa americana è il passaggio da fotografie in bianco e nero a immagini a colori. Il cambiamento, del resto, non riguardò solo lo stile, ma anche la tecnica: dalla Rolleiflex passò alla Leica, una fotocamera leggera, comoda da trasportare e che dava la possibilità di scattare le foto direttamente all’altezza degli occhi.

La rassegna bolognese si snoda per temi: dall’infanzia, un filo che percorre tutta la sua opera con i bambini protagonisti, spesso ritratti con naturalezza in strada. Ma anche le donne, anziani ed indigenti, quale testimonianza della curiosità della Maier per la vita quotidiana. È nei ritratti che la Maier si avvicina “all’altro”. Vagabondi o umili lavoratori ripresi nel rispetto di una certa distanza; o quasi a far eco i soggetti delle classi più agiate in cui la fotografa sembra intromettersi scortesemente nel loro spazio vitale. In “forme” si assiste all’ossessione della Maier non tanto per l’immagine in sé quanto per l’atto stesso del fotografare. Ma caratteri forti del suo lavoro sono l’inquadratura e l’equilibrio delle sue foto; la maggior parte di esse scattate di fronte, e con un certo pragmatismo. Immagini che sono per la maggior parte strutture, forme o geometrie tese a comporre una specie di minimalismo visivo.

Memorabili gli scatti di strada: dall’architettura alla vita urbana di New York e Chicago: si tratta di foto scattate durante gli anni ’50 e ’60, specialmente nei quartieri più popolari. Del resto Vivian Maier fotografava costantemente la moltitudine anonima nelle strade, le sue incongruenze, le differenze nelle persone, i vestiti, gesti e posture. La strada era il suo teatro. Sconosciuti e anonimi formavano il suo mondo.

Nella rassegna triestina ricorrono alcuni temi forti e noti del suo lavoro come, ad esempio, le scene di strada, ritratti di sconosciuti, il mondo dei bambini – il suo universo per così tanto tempo – e anche una predilezione per gli autoritratti, che abbondano nella produzione di Vivian Maier attraverso una moltitudine di forme e variazioni, al punto da essere quasi un linguaggio all'interno del suo linguaggio. E se l'interesse di Vivian Maier era l'autoritratto, ciò muoveva da una disperata ricerca della sua identità. Ridotta all'invisibilità e ad una sorta di inesistenza a causa dello status sociale, motivo per cui si mise a produrre prove inconfutabili della sua presenza in un mondo che sembrava non avere un posto per lei.

Il suo riflesso in uno specchio, la sua ombra che si estende a terra, o il contorno della sua figura: come in un lungo gioco a nascondino, tra ombre e riflessi, che figurano in mostra, denotano come ogni autoritratto di Vivian Maier sia un'affermazione della sua presenza in quel particolare luogo e in quel particolare momento. Ma, una sua forte impronta ricorrente è l'ombra, diventata una firma inconfondibile nei suoi autoritratti. La sua silhouette, la cui caratteristica principale è il suo attaccamento al corpo, quel duplicato del corpo in negativo "scolpito dalla realtà", ha la capacità di rendere presente ciò che è assente.

Ma inedito, lungo il percorso espositivo, è il nucleo di immagini a colori. Per Vivian Maier, infatti, il passaggio al colore è stato accompagnato da un cambiamento dovuto all’utilizzo di una Leica all'inizio degli anni Settanta. La fotocamera è leggera, facile da portare: le foto sono riprese direttamente a livello dell'occhio, a differenza della Rolleiflex che usava prima. Vivian Maier è così in grado di raccogliere il contatto visivo con gli altri e fotografare il mondo nella sua realtà colorata. Il suo lavoro a colori rimane singolare, libero e anche giocoso. Esplora le caratteristiche specifiche del linguaggio cromatico con una certa casualità, elabora il proprio vocabolario, ma soprattutto si diverte con il reale: sottolineando stridenti dettagli di colore, mostrando le discrepanze multicolore della moda o giocando con brillanti contrappunti.

E ad accompagnare gli scatti fotografici in mostra sono una serie di filmati in super 8mm realizzati dalla stessa Vivian Maier, che ci permettono di seguire il movimento dell'occhio dell’artista. Nel 1960 inizia infatti a filmare scene di strada, eventi e luoghi. Il suo approccio cinematografico è strettamente legato al suo linguaggio da fotografa: è una questione di esperienza visiva, di un’osservazione discreta e silenziosa del mondo che la circonda. Non c'è narrazione, nessun movimento della macchina (l'unico movimento cinematografico è quello della carrozza o della metropolitana in cui si trova). Vivian Maier filma quello che la porta all'immagine fotografica: osserva, si ferma intuitivamente su un soggetto e lo segue. Ingrandisce con la lente per avvicinarsi senza avvicinarsi e concentrarsi su un atteggiamento o un dettaglio (come le gambe e le mani di individui in mezzo alla folla). Il film è sia una documentazione (un uomo mentre viene arrestato dalla polizia, oppure i danni causati da un tornado) sia un oggetto di contemplazione (la strana processione di pecore ai mattatoi di Chicago).

E in chiusura dell’esposizione Vivian Maier The Self-Portait and its Double, in collaborazione con la Casa del Cinema di Trieste, è il film-documentario Finding Vivian Maier, diretto da John Maloof e Charlie Siskel, tra le nomination per il Premio Oscar 2015 come miglior documentario.

La pellicola, che conclude il percorso della rassegna, è stata realizzata dal giovane regista che è anche la persona a cui si deve la scoperta di Vivian Maier: John Maloof. Fu lui, infatti, nel 2007, ad acquistare in un mercatino di Chicago una scatola contenente una decina di negativi di cui non si conosceva né la provenienza e né l’autore. Questa scoperta ha determinato una “caccia al nome” che si concluse solo dopo la morte della fotografa, nel 2009. In questo docu-film il regista racconta una storia avvolta nel mistero, perché l’identità di Vivian Maier fotografa è sì venuta alla luce postuma, senza che lei potesse ricevere alcun riconoscimento in vita, ma la storia della sua vicenda personale si è rivelata intricata, dolorosa e costellata di interrogativi rimasti inevitabilmente senza risposta. Finding Vivian Maier è dunque un omaggio alla figura enigmatica di un’artista vissuta nell’ombra della sua grande passione.

Così l'intenzione dell'esposizione triestina – che ripercorre l'incredibile produzione di una fotografa che per tutta la vita non si è mai considerata tale, e che, anzi, nel mondo è sempre passata inosservata – risulta essere non solo la sorta di un omaggio a questa straordinaria artista, capace non solo di appropriarsi del linguaggio visivo della sua epoca, ma anche la focalizzazione su di uno sguardo sottile e su di un punto di vista particolarmente acuto che ha fatto la storia della fotografia e tradotto il simbolo di una vicenda davvero entusiasmante.