C’è una fotografia, geniale come c’era da aspettarsi, fatta da Robert Doisneau a Jean Fautrier nel 1960. Fautrier, allora sessantaduenne, è seduto, le spalle raccolte in avanti ad accompagnare le mani che tengono una sigaretta. Si affaccia quasi interamente da dietro ad una tenda - di quelle un po’ vecchiotte, con le nappine che pendono.

E guarda.

Guarda dritto in macchina, la bocca chiusa ma non serrata, come se stesse chiedendo a sé stesso se dire qualcosa del molto, moltissimo che gli sta dentro, e quello fotografato fosse l’attimo esatto in cui decide che no, non è ancora il tempo, chi vuole ascoltarlo dovrà usare gli occhi, e il cuore, per farlo.

Non è indifferenza, né la superbia di chi pensa che non gli interessa comunicare.

Dietro quello sguardo magro alla continua ricerca di un senso c’è, solo, la consapevolezza che non sempre si hanno a disposizione le parole per dire: spesso, le memorie come la sua, possono solo dipingere. Jean Fautrier nasce a Parigi, due anni prima del nuovo secolo, il 1900.

Sua madre e suo padre non erano sposati, il che a quei tempi era un problema serio, per genitori e figli. Dalle scarne notizie che si trovano, lei sembra essere andata, forse tornata, a Londra, dopo la nascita di suo figlio – che rimane in Francia con la nonna e il padre, fino a che entrambi muoiono, improvvisamente. Altre versioni vogliono che il nucleo sia rimasto insieme e che il trasferimento a Londra, di mamma e figlio, sia avvenuto sempre in dipendenza della morte degli altri congiunti, ma insieme.

Non importa granché - anche se forse, nell’immaginario dei sentimenti, quello sguardo incurabilmente triste e pieno di attesa che caratterizzò Fautrier tutta la sua vita parrebbe adattarsi più a un ragazzo orfano e sballottato come un cucciolo trovato per strada, che a un ragazzino costretto a cambiare casa dalle circostanze.

Sta di fatto che nel 1912, quattordicenne, Jean Fautrier risulta iscritto dapprima alla Royal Academy e poi alla Slade School of Art, entrambe a Londra.

Appena cinque anni dopo torna sul continente, però: nel 1917 è soldato, francese, in prima linea. E l’anno dopo, durante un attacco, viene “gasato”.

Ossia, colpito dalle armi chimiche di allora: iprite - probabilmente, o qualcosa del genere – arrivata con il vento o con bombole e proiettili d’artiglieria.

Soffocava, chi la respirava. E restava ustionato, spesso accecato.

Mentre chi rimaneva vivo si sarebbe portato il ricordo di quel veleno per sempre: difficoltà a respirare, problemi agli occhi, difese immunitarie scaricate e, soprattutto, l’impossibilità di dimenticare quell’aria assassina e dolorosissima che arrivava senza farsi vedere accompagnata da odori acuti e nauseanti.

Fautrier è, ovviamente, tra coloro che sopravvivono. E tra coloro cui quella guerra lascia il sigillo di un corpo intossicato, e una memoria che non può cicatrizzare.

Da lì, forse, nasce quella materia che anni dopo tornerà a colare sulle sue tele: non più immagine, ma carne, crosta, piaga.

La guerra finisce, Fautrier torna a Parigi, e riprende a dipingere con costanza, anche se aveva già ricominciato durante una convalescenza, in Tirolo.

Le sue opere di quel tempo sono nature morte, volti, figure scure: la pittura cura l’anima, ma non può guarirla.

E il peso del dolore che ti arriva addosso senza che tu possa fare nulla per sfuggirgli – sia la morte di persone care, siano i traslochi prima ancora dell’adolescenza, sia una bomba fatta di gas velenoso – rimane sullo sfondo, come un cielo che rimane testardamente grigio, anche quando il sole sembra splendere.

Il mondo, intanto, sta cambiando di nuovo e, come suo solito, non in meglio.

La crisi economica degli anni Trenta morde l’Europa.

Fautrier, ancora una volta, sopravvive: si sposta in Savoia, dove diventa maestro di sci, albergatore, gestore di una sala da ballo. E persino fondatore di una discoteca, La Grande Ourse, a Val-d’Isère.

L’arte, in quel periodo, per lui va altrove – magari, lasciando un’eco di musica.

Forse non smette di dipingere, certo smette di vendere - e con lui tutti gli artisti di quel tempo, che è quello in cui, ad esempio, Giacomo Balla doveva vendere a ricchi statunitensi le proprie opere, se voleva continuare a sostenere sé stesso e la sua famiglia.

Poi, di nuovo Parigi, quella degli anni Quaranta del 1900, la Parigi occupata dai nazisti. Fautrier ha un atelier al 216 di boulevard Raspail. Dipinge, e forse collabora con la Resistenza. Così almeno sospettano i nazisti, che lo arrestano a gennaio del 1943.

Questa volta la tortura non si respira, si subisce con tutto il corpo, senza pietà.

Per quattro giorni, in prima persona.

Poi, viene rilasciato, grazie all’intervento di Jean Paulhan - critico letterario, scrittore, editore e resistente - e dello scultore Arno Breker, ufficialmente vicino al regime, ma dotato di una forte rete di protezioni trasversali.

E decide di rifugiarsi nella Maison de Santé, una clinica psichiatrica, in una cittadina al sud di Parigi e ai margini del Bois de Verrières.

In quella zona verde e tranquilla allestisce il suo nuovo atelier.

Ma proprio vicino alla clinica c’è un bosco, dove si diceva che gli occupanti giustiziassero i prigionieri. Fautrier ne sente arrivare – o forse immagina – gli spari, e i lamenti.

È allora che nasce la sua serie di dipinti più famosa, Les Otages, gli “ostaggi”. Colla, carta, colore come carne viva.

Teste senza volto, bianchi scomposti, ferite che emergono.

Ogni quadro è un frammento di corpo che si rifiuta di sparire: il critico d’arte Michel Tapié racconta di averlo visto lacerare le proprie tele, strappare quelle croste spesse che sembravano pietra.

Per Fautrier la pittura era una ferita, non una carezza – tanto che André Malraux, uno dei suoi sostenitori più fervidi, chiamerà la pittura sua e dei suoi “colleghi in espressione” come Wols, Hartung, Riopelle, Dubuffet, con la straordinaria perifrasi di “geroglifici del dolore”.

I quadri di Fautrier rimangono geroglifici del dolore anche quando, negli anni Cinquanta, i loro titoli diventano nomi jazz come Sweet Baby e I’m Falling in Love, o decisamente “movimentati”, come Juxtapositions.

Chi lo sa, forse, un’eco degli anni in Savoia, tra la neve e la sala da ballo.

In ogni caso – almeno a me sembra così – la sua pittura è e rimane musica blues, stilla sangue, tristezza e realtà proprio come quelle note nude e graffiate, che non consolano, ma dichiarano. E ti incidono l’anima. Nello stesso modo, l’arte di Fautrier non vuole rappresentare, né spiegare. Vuole resistere, almeno facendosi sentire, o guardare.

Michel Tapié chiamò per primo quell’arte autre, un’arte altra - senza figure, senza ornamenti, dove conta solo il segno, la materia, la traccia – quella che poi avrebbe preso, sempre da Tapié, il nome di Art Informel — non un movimento, ma una presa di posizione, il rifiuto di tutto ciò che è forma imposta. Jean Fautrier, di quella Art Informel, fu sicuramente l’anima silenziosa.

E le sue opere rimangono, come i suoi occhi e la sua postura in quella fotografia scattatagli quattro anni prima della sua morte da Doisneau: in silenzioso, strettissimo contatto con te che guardi, e una voce senza parole che ti dice, hai visto cosa è successo?

Tu pensi di fare qualcosa?