In tournée con Jova Beach Party Tour, è diventato il braccio destro di Jovanotti. J.P. Bimeni è un artista-umanista orgoglioso della sua Arte, la musica, che considera sua alleata migliore. Esordisce in Spagna e nel retroscena della Londra jazz e blues. Viene notato quasi subito. Il suo percorso artistico è degno di una grande storia d’amore, benché gli ostacoli da superare siano stati tutto fuorché di poco spessore. È opportuno dire che all’Italia proprio mancava una figura del suo calibro. Ironico, colto, poliedrico: J.P. Bimeni è un artista da cui non puoi far marcia indietro. Non a caso, proprio quest’estate, lo vedranno ospite i più importanti palchi italiani. Free Me è il suo nuovo album, uscito in Italia il 15 febbraio di quest’anno e già definito da BBC 6 e UK Live Moko “miglior album dell’anno”.

“La musica è un trattamento lento e può curare il mondo”. Ha cambiato anche la vita di J.P. Bimeni. Attraversiamo la sua storia, le sue motivazioni, i suoi “perché è andata così”. In un’intervista precedente, sosteneva: “A forza di farlo, diventa quasi un automatismo, quello di spiegarmi. Ma mi ci è voluto un po’ di tempo.” Capiamo che non c’è J.P. Bimeni senza la sua musica. E che senza di lui, molto, troppo mancherebbe al jazz e al soul. “Per fare musica devo sapere chi sono, da dove vengo e condividerlo. Faccio molta ricerca, studio con cura gli artisti che amo. Leggo, ascolto interviste su di loro per sapere cosa è successo nelle loro vite. C’è qualcosa dietro la musica, una traiettoria personale” ci dice. Di questa sua traiettoria personale vogliamo approfondire la forma, i risvolti, capire come e dove la musica può portare, vicini o lontani fisicamente dalle proprie origini, vicini e soprattuttolontani “dall’odio e dalla violenza”.

Che cosa può dirci della sua traiettoria personale? Che cosa conserva di questo viaggio, che cosa invece cambierebbe?

Facevo quel che si doveva fare per mangiare, per vivere. Poi ho ottenuto una borsa di studio e mi sono ritrovato a vivere in Europa. Tutti pensavano che perdessi tempo. Viaggiavo molto. Ma pensavo: se voglio fare musica in futuro, devo prima finire il mio compito principale, portare a termini i miei studi, trasmettere fiducia… L’ho fatto con calma, prima da autodidatta, frequentando alcuni corsi durante il mio periodo all’università. Suonavo la chitarra in camera mia, avevo una coinquilina estone che mi diceva che avrei dovuto suonare davanti ad un pubblico. Io però ero titubante, pensavo che, prima, sarebbe stato necessario disporre del cosiddetto “ego” che io non avevo. Mi chiedevo spesso: “Come vorrei che andasse a finire?” E poi, un giorno, mi disse: “Non devi per forza essere bravo, devi solo condividere, fare davanti agli altri, quel che fai, solo, nella tua camera”. La parola “condividere” è tutto un mondo. Ed è proprio questo mondo ad avermi fatto capire cosa significa aprirsi, scrivere canzoni. Le sensazioni che ho provato all’open mic sono state fortissime, così, presto sono diventato “hooked” (rapito, dipendente in inglese, ndr.) di questa esperienza! Esteriorizzare ciò che avevo dentro mi ha regalato sensazioni indescrivibili.

Le capita di nominare uno strumento del Burundi chiamato “inanga tradizionale”, cetra di legno a 6 o 8 corde suonato ugualmente in Rwanda o in Congo e che produce le cosiddette “note blu”. Si dice anche che la sua musica soul sia erede dell’inanga. È quindi presente nel suo blues questo strumento, l’inanga tradizionale? Sono presenti, ad oggi, delle influenze del Burundi nella sua musica?

Non suono questo strumento. Per il momento, la mia musica è più “internazionale”, non penso ci siano in essa delle tracce del Burundi, del mio paese, ma è un mio sogno. Quando avrò risorse sufficienti e potrò farlo, lo farò. Ho già in mente degli artisti con cui mi piacerebbe suonare. In questo periodo, la musica mi interessa in generale, ascolto generi e artisti di ogni tipo.

Nel 2001, si trasferisce a Londra. Ascoltava già i gruppi soul del Burundi, il gruppo burundese anni ’70 Ambano conosciuto precedentemente in Galles, le compilation di musica soul di Ray Charles e Marvin Gaye, ma è a Londra che inizia la sua formazione in canto. Segue lezioni individuali, partecipa ad un open mic all’Asylum, dove per altro si fa invitare sul palco dal toaster giamaicano Roots Manuva, benché egli ignorasse la sua identità. Conosce, tra i tanti, al Jazz Cafè, Amy Winehouse. Si affianca poi a Shingai Shoniwa, cantante dei Noisettes e grazie a lei incontra Adele, che allora era adolescente e non ancora conosciuta. Come ha avuto inizio tutto ciò?

Un giorno, ero con un amico, abbiamo sentito suonare in lontananza e ci siamo chiesti: è una festa o è un live? Abbiamo seguito il suono, le voci, era un piccolo incontro “à la cave” (cantina, ndr). Mi hanno invitato a suonare, ho suonato. È stato “wow!” Da lì in poi, tutti i martedì sera, ho fatto con loro dei jams. E poi…

Free Me è già disponibile in Italia dal 15 febbraio ed è considerato da BBC 6 Music e Uk Vibe Moko il “migliore album dell’anno”. Perché questo titolo, Free Me?

Questa scelta è stata “tight” (difficile, ndr). Free Me rappresenta un nuovo progetto, nuove vibes, qualcosa di nuovo. Era perfetto. Avevo la sensazione di ricominciare qualcosa, di liberarmi finalmente.

Free Me è portatore dello “spirito dell’Africa”. Come descriverebbe questo spirito all’interno dell’album?

Lo spirito è nel ritmo, nella voce. Ma io parlo inglese. Il timing è importante quando si parla di canzone. Riporto lo spirito degli anni ’60 perché da noi, in Africa, la musica anni ‘60 si ascoltava molto. Mi distinguo dagli altri artisti inglesi per la mia voce, per il suo ritmo che, inevitabilmente, parla anche di me, delle mie origini.

In un’intervista per Billboard, diceva una cosa bellissima: che il segreto della musica soul risiede nella sua sincerità. Che cosa c’è di veramente sincero oggi e che cosa invece non lo è abbastanza?

Credo che alcuni artisti conservino ancora uno spirito di sincerità, però, spesso, sono quelli meno conosciuti. I più conosciuti, infatti, entrano a far parte dell’universo folle della commercializzazione. Perdono così molta della propria sincerità. È un mondo difficile da gestire, questo! Il mio, quello musicale, oggi lo è particolarmente.

La musica definita come “amore pieno di grazia” che, essendo “amore”, dona questo “senso di liberazione”: è così che parlavi della musica nella stessa intervista per Billboard. La musica può cambiare il mondo, oltre che l’artista stesso?

Oh, certo che sì! La musica è un segreto che cambia il mondo lentamente. Non si può più cambiare il mondo come quando si diceva “cambiamo il mondo andando in guerra”, bisogna curare il mondo come fosse un malato. E la musica è una medicina. Il mondo va “a destra e sinistra”, la musica lo rincorre, prova a curarlo. Quel che è certo è che la musica non è un trattamento ad effetto immediato. Serve del tempo.

È la prima volta che suona in Italia. Questa che la attende è una tournée importante. Ha suonato il 19 luglio in occasione del Porretta Soul Festival, il 2 agosto a Lecce al Sud Est Indipendente Festival, il 14 agosto al Mamma Blues Festival a Nureci e infine a Roma, il 10 ottobre, per il Roma Europa Festival. Che rapporto ha con il nostro paese? Quale visione, quale idee si è fatto?

Per me, per noi, l’Italia era famosa per i bei vestiti, le scarpe. Le prime immagini che mi venivano in mente erano le spiagge, le barche. Poi ho scoperto Roma e ne sono rimasto incantato: quanta storia, quanta civilizzazione! È un vero e proprio museo.

Questa estate, a partire dal 6 luglio, seguirà l’artista italiano Jovanotti in tournée con Jova Beach Party sui litorali italiani. Come ha conosciuto Jovanotti e che cosa vi avvicina musicalmente?

Ho conosciuto Jovanotti su Instagram, mi ha colpito il suo essere un uomo “di festa” con un grande cuore. Avevo visto un suo video, stupendo, c’erano degli uomini e bambini africani, maschi e femmine, che ballavano. Non capivo le parole, ma il video, la musica mi trasmettevano qualcosa. Ci siamo scritti. Una mia amica italiana, di Roma, mi sosteneva. E poi è arrivato il nostro incontro. Ci siamo trovati, abbiamo deciso di lavorare insieme. La musica, se mi fa stare bene, mi porta a credere che anche chi la fa dev’essere una gran bella persona.

C’è un altro artista con cui sogna di poter collaborare un giorno?

Per ora non ci penso. Jovanotti ama condividere, però! Che sia questo un grande inizio? Penso proprio di sì. Sento che dopo questo lavoro fatto insieme, altre collaborazioni arriveranno.