Pochi cineasti abitano le vette dell'estro e della narrazione come Hayao Miyazaki, demiurgo di favole moderne che insegnano come avere la testa tra le nuvole sia virtù irrinunciabile, condizione esistenziale che riverbera oltre la metafora, quasi un prerequisito per accedere alla comprensione più profonda del reale.

Da Il mio vicino Totoro, con la sua innocenza arborea e le sue corse nel vento, a La città incantata, labirinto onirico e specchio dell'anima, il cielo è il suo terreno di gioco prediletto, palcoscenico sconfinato dove il volo trascende la fisica per farsi epifania, trasfigurazione, viaggio iniziatico. I suoi personaggi in volo non si spostano soltanto nello spazio tridimensionale; essi attraversano reami fisici e spirituali in un continuum quasi tangibile, fluttuando tra mondi e stati dell'essere, come ne Il ragazzo e l'airone, dove il volo diviene soglia arcana tra esistenza e aldilà, estremo ponte gettato sull'abisso del non-essere.

Qui emerge la cifra miyazakiana: veicolare la sua etica profonda – ecologista convinto, pacifista irriducibile – con naturalezza organica, rifuggendo il didascalismo pedante. Gli eroi sono spesso invischiati nel conflitto ancestrale tra una natura matrigna e generosa e una società umana incline all'autodistruzione, ma oltre le guerre tra dèi, animali, creature mistiche e uomini accecati dalla hybris, Miyazaki promette quasi sempre un paradiso celeste, un Eden iridescente verso cui librarsi. È destino ineluttabile, unica via di salvezza possibile.

Questa fascinazione affonda nell'infanzia del regista, vissuta all'ombra delle ali prodotte dalla Miyazaki Airplane, azienda di famiglia che costruiva componenti per caccia giapponesi nella Seconda Guerra Mondiale. Questa radice biografica, intrisa del rombo dei motori e dell'odore dell'olio, nutre la lancinante dualità del volo nella sua opera: meraviglia e libertà contro potenziale distruttivo e asservimento bellico, un dialogo interiore che si dipana, sottile ma persistente, per tutta la sua filmografia.

Si pensi a Si alza il vento, dramma malinconico sull'ingegnere Jirō Horikoshi. Il film si apre su un sogno di volo quasi piumato, immagine di purezza edenica, infranto però dalla realtà brutale di una nave da guerra, il leitmotiv: i sogni di Jirō generano velivoli futuri, nutrendosi del dialogo immaginario con l'italiano Caproni e le sue aeronavi da crociera celesti, oasi di piacere sospese. Ma l'immaginazione, pur compensando la vista miope di Jirō con cieli trasognati, dipinti con la delicatezza di un acquerello antico, non può eludere la gravità della storia: il volo è magia per sognatori, ponte tra l'idealismo creativo e la veglia dove le creazioni alate sono inesorabilmente piegate alla guerra.

Il volo significa libertà assoluta, aspirazione primigenia dell'anima, finché l'uomo non lo manipola, non lo storce ai propri fini, trasformando il sogno in incubo meccanico. Anche Marco, il pilota suino di Porco Rosso, e Howl, il mago de Il castello errante di Howl, volano per sfuggire ai conflitti, per tracciare rotte di fuga nell'azzurro. Ma la fuga ha un costo amaro: Jirō assiste impotente alla scia di distruzione dei suoi aerei, creature nate dalla bellezza; il cinismo di Marco è la sua stessa maledizione suina; Howl rischia l'umanità a ogni trasformazione ferina.

Uccelli e umani paiono davvero della stessa stirpe ne Il ragazzo e l'airone, dove Mahito segue un airone mutaforma in un aldilà liminale, popolato da esseri-uccello che mimano gerarchie e vanità umane. Gli eroi miyazakiani nascono in mondi imperfetti, fratturati, eppure anche nelle visioni più cupe, i suoi film restano sogni tenacemente speranzosi, come l'archetipo universale del volo, quel desiderio atavico di leggerezza e ascensione. Volare, suggerisce Miyazaki, è sfiorare una trascendenza laica, un'estasi momentanea di struggente bellezza, che rivela il nostro vero potenziale al di là dei ceppi terreni.

È sentire il vento sulla pelle come Chihiro stretta a Haku, è ridere con Satsuki e Mei sul ventre peloso di Totoro che fluttua sulla foresta. Ma non manca mai il monito severo, la nota grave che increspa l'armonia: ciò che sale deve scendere. Sta a noi scegliere come atterrare, con quale consapevolezza tornare a toccare il suolo. Il volo è onnipresente nel suo universo, e non solo tramite aeroplani. Esiste in forme fantasiose, quasi mitologiche: i castelli volanti di Laputa e Howl, lo spirito Totoro, il drago Haku, la scopa di Kiki.

Il volo trascende la tecnologia, è forza ancestrale legata alla natura, allo spirito, al potenziale umano stesso, capace di manifestarsi con la stessa potenza sia nel ronzio di un motore che nel fruscio di ali magiche. Da sempre il volo affascina l'uomo, creatura terrestre anelante all'aria. L'invenzione dell'aereo ha mutato il mondo, ma nei regni di Miyazaki la capacità di volare, meccanica o magica, simboleggia possibilità infinite, realizzazione, scoperta. Scene come Totoro che sorvola la foresta o Chihiro e Haku che fendono i cieli evocano meraviglia pura, speranza distillata, sfidando la gravità e connettendosi allo stupore infantile, a quel volo istintivo, non mediato dalla macchina, che i bambini sognano più degli adulti. Ma il volo ha la sua ombra ineludibile.

La bellezza utopica di Laputa può diventare arma di distruzione; i cieli adriatici di Porco Rosso sono arena di scontro tra volo buono e predatorio, cavalleresco e fascista. La dicotomia ammonisce alla consapevolezza nell'uso dei poteri, siano essi tecnologici o spirituali. L'amore di Miyazaki per il volo è tema perpetuo, da custodire e temere. È specchio fedele delle contraddizioni umane, capaci di sublimi slanci verso l'infinito come di abissali cadute nel fango della storia. Il suo cielo è un empireo solcato da sogni alati, ma infranto dalla storia e dalla fragilità umana, monito a volare alto con lo sguardo, ma a mantenere i piedi saldi – e coscienti – sulla terra.