Banchise polari che si riducono, laghi geologici nei deserti che scompaiono, fonti fossili che si riducono, falde che si impoveriscono. Impianti colabrodo, sprechi insensati in agricoltura e nell’industria, stillicidio nei consumi privati e pubblici. Il quadro e i riferimenti della drammatica situazione della sostanza che ci dà e che consente la vita, sono nella loro immediatezza e crudezza tragici. Se pensiamo che la risorsa idrica di possibile utilizzo, ossia quella potabile per uso umano, costituisce una parte infinitesimale e pure così cruciale del liquido che si trova sulla faccia del pianeta, non possiamo che porci di fronte al probabile scenario dei prossimi decenni, per l’intera umanità: l’oro blu e la guerra “tra poveri” d’acqua! Nel contrasto patente con le acque dei mari che diventano una minaccia per le zone costiere sempre più coinvolte in fenomeni di inaudita potenza fisica dovuti al mutamento climatico globale. Un paradosso, ma soltanto apparente: siamo circondati da acqua ma rischiamo di non poter più bere serenamente e utilizzare in abbondanza il prezioso bene!

Per cercare di capire cosa esattamente ci attende e a che punto siamo, facciamo riferimento al Rapporto Mondiale sullo Sviluppo delle Risorse Idriche presentato lo scorso mese di marzo dalle Nazioni Unite, in occasione della Giornata Internazionale dell’Acqua, il 22 marzo e al termine dei lavori della 40ma sessione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, con la parola d’ordine per così dire: “Nessuno deve restare indietro”.

Che l’acqua sia un bene primario potrebbe apparire un’ovvietà, ma così non è! L’abbondanza in alcune zone del mondo e la totale scarsità in altre ci raccontano senza ipocrisie dove sia il nocciolo della questione. Un bene primario di cui - osserva il Rapporto Onu - ci sarà sempre maggiore richiesta. E un diritto, quello di avervi accesso, troppo spesso negato o peggio violato. E questo per, la solo in apparenza, ovvia considerazione che l’acqua è fondamentale per il benessere economico e sociale, ma è proprio ai più poveri che costa a caro prezzo, mentre i ricchi hanno maggiore facilità di accesso. Un trend tuttavia che potrebbe manifestare in futuro una criticità crescente se si pensa che almeno due miliardi di persone bevono acqua potenzialmente o realmente contaminata. Di qui l’imperativo che riguarda tutti “ricchi” e “poveri”: nessuno sia lasciato indietro.

Tutto questo ci porta a una prima considerazione: l’accesso all’acqua pulita e a servizi igienico-sanitari adeguati è indispensabile per appianare le disuguaglianze socio-economiche, oltre a essere un diritto fondamentale per sostenere la salute delle persone e garantire la loro dignità di esseri umani. Ed è un diritto che: “Non è temporaneo, non può essere revocato e non è soggetto all’approvazione degli Stati”, e che deve poter essere garantito a tutti senza distinzioni, anche in base a quanto sancito dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Come dicevamo più di due miliardi di persone vivono in paesi sottoposti a livelli elevati di stress idrico. Per stress idrico - recita il Rapporto - si intende quello “tra i prelievi totali annui di acqua dolce dei principali settori dell’economia, incluse le necessità idriche ambientali, e il totale delle risorse rinnovabili di acqua dolce”.

Pensiamo ai servizi igienico-sanitari che - anche questa sembrerebbe una cosa ovvia ma non lo è - devono essere “disponibili, fisicamente accessibili, a costi equi e sostenibili, sicuri e culturalmente accettabili”, eppure persistono condizioni che creano iniquità e categorie di “esclusi”. Nel 2015, dunque l’altro ieri, il 29% della popolazione globale, non aveva ancora accesso a servizi di fornitura di acqua potabile gestiti in sicurezza, mentre 844 milioni di persone erano escluse da servizi di base di fornitura dell’acqua potabile.

Questo perché la copertura dei servizi idrici gestiti in sicurezza varia di molto in base alle regioni geografiche: i dati indicano un 24% nell’Africa subsahariana e un 94% di Europa e Nord America, per citare quello che possiamo definire un indicatore eloquente. Aggiungiamo anche che “circa la metà delle persone che consumano acqua proveniente da fonti non protette vive nell’Africa subsahariana. Sei persone su dieci non hanno accesso a servizi igienico-sanitari sicuri e una persona su nove pratica le proprie necessità fisiche all’aperto”. Ma anche all’interno delle stesse aree geografiche, delle stesse comunità, persino delle stesse famiglie, persistono differenze di trattamento nell’accesso all’acqua.

Una seconda considerazione, quasi scontata, ci dice che esiste anche una discriminazione di genere, che assegna principalmente alle donne il compito di reperire acqua per cucinare e lavarsi. Uno studio sul tempo e sulla carenza di acqua in 25 paesi sempre dell’Africa subsahariana rivela che le donne dedicano in complesso alla raccolta di acqua potabile almeno 16 milioni di ore al giorno, mentre gli uomini riservano alla stessa attività 6 milioni di ore e i bambini 4 milioni di ore (i dati sono di OMS/UNICEF, nel 2012). Un tempo che è purtroppo sottratto all’apprendimento, allo studio, e che espone le donne a fatica fisica e pericoli per la loro incolumità.

Da tenere in alta considerazione anche che l’acqua è legata la gestione dell’igiene femminile, un tabù culturale in molti contesti poveri e rurali, che costringe le ragazze ad allontanarsi dalla scuola, emarginandole e ignorando la loro salute sessuale e riproduttiva. Altre condizioni di esclusione dall’accesso all’acqua - secondo il Rapporto - sono la disabilità, la povertà e la mancanza di istruzione, le differenze religiose: le minoranze etniche e linguistiche, le popolazioni indigene, i popoli che hanno dovuto abbandonare le proprie case a causa di guerre e catastrofi climatiche, i rifugiati, i migranti, sono spesso esclusi dall’approvvigionamento di acqua e servizi. A tutto questo va aggiunto che oltre ad avere un accesso inadeguato all’acqua, queste persone sono quelle che pagano il prezzo più alto per averla, mentre chi abita nei Paesi industrializzati dà per scontato la disponibilità di acqua pulita e abbondante dal rubinetto di casa.

Questa forbice sociale si abbatte sulla disponibilità di cibo e sulla possibilità di assicurare un reddito alla famiglia: l’agricoltura è il principale settore consumatore di acqua, con il 69% dei prelievi annui a livello mondiale, e il 60% degli alimenti prodotti sulla Terra che cresce in terreni irrigati da acque piovane (soggetti pertanto a siccità, fenomeno che dal 1995 al 2015 ha interessato 1,1 miliardi di persone).

Strettamente legato a quanto sopra il binomio tra l’acqua e la pace tra i popoli. Alla sua abbondanza o alla sua eccessiva scarsità è legato il 90% dei disastri naturali, con le zone aride e le zone umide che, complici i cambiamenti climatici, vedono inasprirsi le rispettive condizioni di aridità e umidità. Dalla disponibilità di acqua, e di acqua pulita e non contaminata - osserva il Rapporto delle Nazioni Unite - dipendono non solo la salute, ma anche la produttività lavorativa e la continuità dell’istruzione: per queste ragioni l’approvvigionamento idrico è uno strumento di inclusione sociale. E anche questo appare talmente ovvio da sembrare scontato ma così non è!

Come corollario a quanto sopra, dagli anni ‘70 ad oggi, dunque, una prospettiva in qualche modo epocale in relazione ai cambiamenti non solo climatici nel mondo, il rischio di essere sfollati per disastri naturali è raddoppiato e in 9 casi su 10, le catastrofi naturali sono legate all’acqua.

La domanda di acqua, chiarisce il Rapporto, “è in costante aumento per la crescita della popolazione, il cambiamento dei modelli di consumo e lo sviluppo socioeconomico. Dagli anni ‘80 è cresciuta dell’1 per cento all’anno e nel 2050 avrà superato il 20-30 per cento dell’utilizzo attuale. Questa crescita della domanda, insieme ai cambiamenti climatici, contribuiranno ad accrescere i livelli di stress idrico mondiali. Un allarme, dunque, che sarebbe suicida non considerare nella sua gravità: un egoismo autolesionista da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare. Se c’è una cosa che appartiene al mondo e non all’uomo questa è proprio la risorsa idrica e la sua salvaguardia è un valore ineliminabile per tutti, per i poveri di oggi e per gli inevitabili poveri di un domani non molto lontano! Siamo tutti sulla stessa barca, insomma e darsi da fare e subito è un imperativo morale che dovrebbe vedere in prima linea proprio coloro che in questo momento sono privilegiati.

Uno sguardo, infine, alla nostra Italia. Un paese che sembra rappresentare in modo esponenziale la fotografia mondiale appena delineata. Non esistono zone franche sul nostro territorio, anche se il nord è in evidente vantaggio sul Mezzogiorno, ma all’interno di ogni area sono evidenti i segni emergenti dei cambiamenti prodotti dall’impiego umano e anche da mutamenti geologici e fisici. E il modo con il quale si guarda alla futura emergenza è abbastanza sovrapponibile all’attuale condizione mondiale.

Spesso si osserva che in Italia l’acqua c’è in abbondanza ed è buona rispetto agli altri paesi europei in primis e mondiali poi. Un assunto vero e non vero al tempo stesso. Pensiamo alle condizioni di usura e senescenza della maggior parte delle condutture attuali proprio nelle zone più favorite. Un vero scempio che sottrae non meno del 40 per cento (dato largamente ottimista) della risorsa per perdite e malfunzionamenti. E questo, dunque, prima ancora che l’acqua giunga ai rubinetti e sia garantita a tutti. Sovente si sente dire che l’acqua costa e che il suo costo aumenta troppo. Peccato che nessuno si ponga il problema seriamente del perché una relativa abbondanza si tramuti in un’emergenza spesso e volentieri: perché i costi non arrivano alle soluzioni e le soluzioni rischiano di costare sempre di più: un circolo vizioso nel quale nel nostro paese siamo primi della classe con il risultato che problemi in ipotesi governabili divengono incontrollabili.

Altro nodo gordiano la proprietà dell’acqua o meglio il controllo sulle risorse. Verrebbe da dire ma se l’acqua è di tutti non c’è proprietario alcuno! È evidente altresì che da sempre soprattutto (pensiamo al Sud) dove vi è maggior scarsità tendenziale questo è vero solo in apparenza. Tra proprietà pubbliche e private la geografia nazionale è un mosaico vero e proprio. Dunque pubblico o privato, in questa accezione? La risposta non è scontata. Se si deve ritenere il bene acqua di tutti è evidente che la sua natura pubblica va preservata e garantita, ma per far questo occorrono risorse che spesso il pubblico ha solo in parte. Ecco allora che si rende necessaria una visione tecnica e strategica e questo richiede competenze che vanno ricercate anche in campo privato. È solo dalla saldezza di principio e dalla rigorosa programmazione tecnica e imprenditoriale che si può trovare una risposta equilibrata a vantaggio dei cittadini e dell’economia nazionale. Secondo punto, la corretta gestione produce risparmio e consente se ben organizzata una redistribuzione questa sì per così dire “pubblica” della risorsa che a tutti appartiene. Un discorso semplice e intuitivo: lo sarebbe, in realtà non lo è.

Acqua buona, dicevamo. Anche qui la realtà non appare così scontata e così virtuosa. Tranne evidentemente alcune lodevoli situazioni. Basti pensare che una recente ricerca ha stabilito che in più di cento centri urbani nazionali impianti e distribuzione non risultano a norma secondo i canoni stabiliti in accordo con l’Unione Europea che per questo ha aperto due procedure di infrazione contro l’Italia. Ma c’è di più: sono almeno 20 mila i siti nazionali che risultano contaminati e il controllo delle strutture mostra un peggioramento in atto dal 2014. A singolare conferma del sentire nazionale il dato che indica in un altro 29 per cento i connazionali che non usano acqua di rubinetto ma acque confezionate con ciò aumentando l’inquinamento da plastica conseguente.

Un altro elemento su tutti: non esiste quello che si potrebbe definire un bilancio idrico nazionale fondamentale per orientare azioni, investimenti, ricerca organica di soluzioni. A fronte di questo, cresce però la sensibilità dei cittadini e la consapevolezza della rigidità della risorsa e, dunque, della necessità di un uso accorto, prudente, organizzato ed efficiente di essa. Un buon termometro, almeno questo!

In conclusione, una recente indagine realizzata da Utilitalia, Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche, fotografa il vero Sos al quale far fronte dinanzi a mutamenti climatici che impongono scelte strategiche immediate: il fabbisogno di investimenti nel settore idrico nazionale è quantificabile in 7,2 miliardi di euro nei prossimi anni. Di questi 5,4 necessari a trasporto e distribuzione; 1,4 alla captazione, 0,4 al riuso delle acque reflue. Prima si comincia e meglio è, bastano poche idee ma soprattutto .... chiare!