È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.281 del 3 dicembre 2018 la Legge 1 dicembre 2018, n. 132 recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Delega al Governo in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate”.

Abbiamo parlato nel precedente intervento delle misure disposte in materia di migranti, e oggi ci occuperemo, una volta convertito il decreto Salvini in legge dello Stato, di passare in rassegna quali misure siano state adottate nei confronti dei pericoli per la sicurezza rappresentati da mafia e terrorismo. Prima di entrare in argomento, è utile, quale premessa, fare riferimento alla notizia di cronaca forse passata inosservata, della quale seguirà una sintesi che dia in qualche modo conto della sua importanza.

Il 5 dicembre, gli organi di stampa davano notizia di un’operazione giudiziaria internazionale, denominata in codice “Pollino”, effettuata contemporaneamente dagli investigatori di Italia, Germania, Belgio e Olanda, nei confronti di una vasta organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, con ramificazioni anche in Sud America. L’organizzazione era quella della ‘ndrangheta calabrese, ed in particolare quella che ha le sue basi operative nella Locride, vale a dire nella parte orientale della provincia di Reggio Calabria e in particolare nei comuni di San Luca, Platì, Gioiosa Jonica.

Non è la prima volta che vaste operazioni giudiziarie vengono condotte dalle Direzioni Distrettuali calabresi nell’ambito dell’azione di contrasto al traffico internazionale di droga (soprattutto cocaina) ad opera delle cosche di ‘ndrangheta già citate, che da circa venti anni detengono un ruolo egemone nell’importazione, il trasporto e la distribuzione della cocaina in tutta l’Europa, ma quest’ultima assume particolare rilevanza per alcuni aspetti del tutto originali.

Le indagini erano state avviate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria già da alcuni anni ed erano state delegate a vari organi di polizia specializzati. Il coordinamento sul piano nazionale era assicurato, oltre che dalla procura reggina, anche dalla Direzione Nazionale Antimafia e, a livello europeo, da Eurojust. Veniva costituita, per la prima volta, una Squadra Investigativa Comune (Joint Investigation Team) il 18.10.2016, a L’Aia (NL), presso Eurojust tra Magistratura e Forze di Polizia di Italia, Paesi Bassi e Germania, cui hanno aderito, per l’Italia la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria con il supporto della Procura Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, la Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria con il supporto del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, il Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Catanzaro con il supporto del Servizio Centrale d’Investigazione sulla Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza ed il IV° Gruppo del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza; per la Germania la Procura di Duisburg e il Bundeskriminalamt (B.K.A.) di Wiesbaden, per i Paesi Bassi la Procura di Zwolle e il F.I.O.D. (Corpo olandese di polizia fiscale ed economica) di Eindhoven. Apporti collaborativi sono stati assicurati anche da Belgio e Svizzera, con riguardo alle attività di riciclaggio compiute sul proprio territorio.

In passato, avevano spesso prevalso logiche diverse, dovute ora a diffidenze reciproche, ora a assurde gelosie professionali, o, infine, a prassi investigative e giudiziarie affatto diverse, anche in ragione delle divergenze normative esistenti all’interno della UE. È noto che nei paesi anglosassoni non esiste il reato associativo, e che anche in quelli più vicini al nostro sistema penale prevale la tendenza a non occuparsi del contesto criminale più vasto, dei “fenomeni criminali di tipo mafioso”, quanto piuttosto ai singoli reati posti in essere, di volta in volta accertati. In Italia gli arresti sono stati 70 e per consentire la contemporaneità degli arresti sono state emesse tre ordinanze di misura cautelare, redatte da tre diversi giudici per le indagini preliminari. La polizia federale tedesca (BKA) ha proceduto all’arresto di dieci indagati, quella olandese di sette e quella belga di altri tre.

La svolta segna dunque una novità di grande rilievo ed è auspicabile che essa costituisca un primo importante passo in direzione di un effettivo coordinamento europea in materia di contrasto a mafie, terrorismo, traffici di droga e di armi. Ulteriori novità vanno registrate anche con riguardo agli strumenti investigativi adottati, tra i quali quello che ha consentito di conseguire i risultati più importanti. Si tratta del sistema trojan horse, introdotto nei computer e negli smartphone degli indagati per sottrarre in tempo reale informazioni, conversazioni, localizzazioni. È in sostanza una sorta di intercettazione telematica, ammessa nell’ordinamento italiano per i reati più gravi in materia di mafia e terrorismo.

Non è possibile riferire i particolari dell’operazione, quello che occorre rilevare è che essa ha documentato l’imponente attività di importazione da Colombia e altri paesi produttori di decine di quintali di cocaina verso il vasto mercato europeo. Si aggiunga ancora l’importazione di eroina che era scomparsa dai mercati europei e che ritorna da qualche anno sia pure in forma diversa (non più iniettata ma fumata), e ancora hashish e marijuana. Inutile aggiungere che i proventi sono altissimi e che intensa è l’attività di riciclaggio in tutta Europa, ma soprattutto in Germania.

La ‘ndrangheta si conferma come la mafia più globalizzata, più ricca e potente, Cosa Nostra tenta di riorganizzarsi in Sicilia, la camorra conferma la permanente invasività in materia di droga, contrabbando, contraffazione; tutte insieme proseguono nell’attività di estorsione, di intimidazione e di violenza (ora anche e sempre più spesso nei confronti di giornalisti), all’accaparramento di appalti e subappalti e al riciclaggio, settori questi ultimi nei quali lo strumento della corruzione si dimostra vincente. Tutto questo dà il senso della pericolosità delle mafie italiane per la sicurezza, per l’economia, le regole del mercato, il commercio, la libera iniziativa, la democrazia in Italia, in Europa, nel mondo.

Quanto sin qui sinteticamente riferito impone alcune riflessioni. La prima è la scarsa attenzione dedicata all’operazione dai mezzi di informazione. Dopo le sommarie notizie della prima ora, nessun seguito è stato dato per riprendere i risultati più rilevanti, le novità, i pericoli che emergono dall’operazione, né per una valutazione circa la necessità di rivedere la strumentazione normativa e logistica delle attività di contrasto. Sul piano politico, il silenzio è stato ancora più assordante. Il ministro dell’Interno si è limitato ad un telegrafico messaggio di plauso alle forze di polizia, omettendo di proposito di fare cenno al ruolo della magistratura reggina, della D.N.A. E figurarsi se poteva mai complimentarsi del prezioso coordinamento svolto da Eurojust, in tempi di sovranismo autarchico imperante e di polemica verso le istituzioni europee, nessuna esclusa.

Prevedibile l’obiezione. Quello che conta non sono le dichiarazioni, ma i fatti. Ed i fatti parlano chiaro. La legge sicurezza, nel preambolo fa espresso riferimento alla necessità “di introdurre norme a garanzia della sicurezza pubblica, con particolare riferimento alla minaccia del terrorismo e della criminalità organizzata di tipo mafioso”. E dunque non c’è motivo di dubitare dell’impegno del governo in questa direzione. Non resta che verificare se l’impegno si è tradotto in norme di legge.

Scorrendo l’articolato bisogna arrivare all’art. 25 per rinvenire la norma che inasprisce le sanzioni per subappalti illeciti. È una norma che non può definirsi destinata esclusivamente all’attività di inserimento delle mafie nel settore degli appalti pubblici, dal momento che subappalti illeciti possono essere commessi anche da imprenditori non appartenenti ad organizzazioni mafiose.

Si passa all’art. 28 che prevede interventi del prefetto miranti a porre rimedio a situazioni sintomatiche di condotte illecite, gravi e reiterate, all’interno degli enti locali. Non si fa cenno ad infiltrazioni mafiose all’interno delle amministrazioni, sicché deve concludersi che la previsione ha una portata generale applicabile ad ogni tipo di illecita gestione amministrativa degli enti locali.

All’art. 31 si dispone la possibilità di disporre intercettazioni anche nell’ipotesi di reato di cui all’art. 633 del codice penale, che punisce (con pena ora aggravata dalla legge sicurezza) l’occupazione arbitraria di immobili. Disposizione che colpisce sia i senza casa che hanno bisogno di un ricovero, sia bande criminali che si assicurano il possesso di immobili con la violenza, ipotesi che non sono certo riferibili ad appartenenti ad associazioni mafiose, le cui disponibilità finanziarie consentono ben altre sistemazioni abitative.

Infine, l’art. 36, comma 3, lettera d) prevede la possibilità di vendita di beni confiscati, che per la verità più che una norma di contrasto alle mafie, è stata segnalata da magistrati e operatori sociali come una norma di favore, che consentirebbe di tornare in possesso del bene confiscato attraverso prestanome compiacenti. Né si può certo parlare di contrasto alle mafie solo perché si introducono le pistole elettriche a disposizione della polizia urbana (art. 19) o quando si estendono le sanzioni previste per il blocco ferroviario anche a quello stradale (art. 23).

Le prime possono essere utili per neutralizzare singoli episodi di violenza. Le seconde sono misure utili per controllare manifestazioni sindacali o di contestazioni di massa. Le mafie, a quanto se ne sa, non fanno manifestazioni di piazza né si abbandonano a violenze scomposte… ma neppure i migranti. Tutt’altro. Resta però il fatto che queste norme siano state inserite nel decreto sicurezza tra le disposizioni in materia di sicurezza pubblica e di contrasto al terrorismo, come appendice al tema dell’immigrazione, così da rafforzare la convinzione che i responsabili dell’insicurezza diffusa sono i migranti e contribuire alla realizzazione di quello che è stato definito un nazionalismo autoritario.

Tutto qui? Sì, tutto qui. Se così è, quali siano gli effetti delle norme richiamate sul contrasto alle organizzazioni mafiose non è dato comprendere. Di fatto la materia della criminalità di tipo mafioso non è stata neppure sfiorata. Una spiegazione potrebbe rinvenirsi nei rapporti, non certo conflittuali, che esponenti della Lega hanno intrattenuto in passato e intrattengono tuttora con personaggi contigui alla ‘ndrangheta, in Lombardia, come in Calabria. È un capitolo che merita di essere approfondito. Le recenti foto di Salvini abbracciato ad un pregiudicato appena uscito dal carcere, in quanto legati dalla comune fede calcistica, non è certo rassicurante.

Non molto diversa è la valutazione delle norme in materia di contrasto al terrorismo. Vista, però, l’assenza di attentati che ha sinora caratterizzato il nostro paese, l’introduzione di norme dirette a migliorare lo scambio di informazioni tra amministrazione della giustizia e organismi investigativi e di sicurezza, potrebbe anche essere sufficiente, ma allora bastava dirlo che di questo si trattava.

Le mafie invece ci sono e fanno per intero il loro mestiere. Trafficano droga, merce di contrabbando, sino a qualche anno fa facevano da interfaccia europeo alle mafie islamiche, riciclano decine di miliardi di euro, infiltrano numerose amministrazioni locali, usano la violenza quando necessario. Eppure non sono percepite come pericolo dalla società civile, e dunque una rigorosa e rinnovata azione di contrasto sembra non crea consenso. Al contrario, lo crea il pericolo, assai minore e sopravvalutato, proveniente dai migranti irregolari.
Non è un caso che buona parte del decreto sicurezza si occupi di loro, con spirito decisamente punitivo, che punta non solo a restringere l’area della protezione internazionale, ma a rendere irregolari anche coloro che erano già titolari di misura di protezione umanitaria, privandoli di sistemazione abitativa, assistenza sanitaria, possibilità di inserimento nel mondo del lavoro e di accesso all’istruzione per i figli minori.

Accrescere il numero degli irregolari crea disagio nella popolazione, già condizionata dalla massiccia opera di propaganda di tipo razzista, da qui atteggiamenti aggressivi e discriminatori, segnali di insicurezza e instabilità, ma anche di una sorta di mutazione antropologica profonda che fa riaffiorare istinti repressi di razzismo, intolleranza, rancore. Un recente studio sugli indici di criminalità tra i migranti, ha dimostrato che sono eguali quelli dei cittadini italiani e dei migranti regolarizzati e integrati, mentre sono superiori quelli relativi ai migranti irregolari. Ricacciare e costringere gli irregolari nel mondo dell’illegalità non appare una misura volta ad assicurare sicurezza. Sorge legittimo il dubbio che l’aumento di disagio e insicurezza non è del tutto sgradito a chi questa legge ha voluto, essendo queste le condizioni dalle quali si rafforza la paura, il rancore… il consenso elettorale.