Quando è triste e ombroso perché la vita incombe pensa a lei che nel 1961 salì sul palcoscenico del Metropolitan e debuttò, senza avere diritto di voto nel suo paese, gli Stati Uniti. A lei che negli anni Cinquanta è stata Pamina in un Flauto magico per il quale Mozart l’avrebbe applaudita e nel Sud del suo paese, gli Stati Uniti, si rifiutarono di riprenderla per la televisione perché era nera. Pensa a Leontyne Price, a quel coraggio, e gli torna subito il suo che è leonino.

Mark Markham è cresciuto a Pensacola, Florida, e ricorda, con ribellione mai placata, l’infanzia vissuta nell’ingiustizia del razzismo. Alto e chiaro di capelli, di carnagione, di occhi: “Quando sono nato i neri non votavano, avevano un altro albergo, un altro bagno, un altro posto in autobus”. Ricorda l’incontro con la soprano del Mississippi, in uno dei concerti che, per primi, catturarono la sua attenzione di giovane pianista. Si presentò come voltapagine, un giorno del 1980, lo ingaggiarono e fu subito avvolto dal mistero, profondamente femminile, di quella voce meravigliosa. Dal potere di seduzione del suono. Leontyne Price.

Mark Markham ha aperto le danze a un anno e mezzo, al ritmo di un 45 giri di Elvis Presley che spingeva in un mangiadischi con manine promettenti, una partenza rock ‘n’roll, ma senza droghe. Anzi, le detesta. A quattro anni strimpellava una tastiera elettrica e per il suo ottavo compleanno disse, perentorio: “Voglio un pianoforte e prendere lezioni”. I genitori lo accontentarono e, dopo una serie di professori troppo modesti, da adolescente incontrò il musicista della svolta che gli impose un anno di tecnica: era suo lo Steinway che Mark suona a New York quando attraversa Central Park e va a trovare l’amica che se l’è comprato. L’unico incontro maschile che ha segnato la sua vita di musicista illuminata dalle donne: dopo Leontyne Price Ann Schein alla quale chiese lezioni mentre frequentava il Peabody Conservatory di Baltimora e che gli disse sì perché lo aveva sentito a Pensacola, nella cittadina natale del Sud, quando lui aveva sedici anni, e le era piaciuto. Una guida preziosa che in un decennio intensissimo gli insegnò soprattutto lo stile, lo stile vero, la continuità con la tradizione e che un bel dì gli presentò un’altra donna del destino. Una primadonna del destino.

Allieva e amica a vita di Arthur Rubinstein, che la invitò a casa sua in Svizzera, dopo averla ascoltata suonare il terzo concerto di Rachmaninov, Ann Schein scrisse di Mark a Jessye Norman, elogiandone la bravura in lettere non frequenti ma costanti. “Ann conosce Jessye da quando Jessye aveva diciotto anni e abitavano entrambe a Washington. Jessye cantò al matrimonio di Ann nel 1969. Ann le disse di me e Jessye rispose, senza scomporsi, che la notizia sembrava molto graziosa, ma quando nel 1995 il pianista Geoffrey Parsons morì, Ann pensò che sarei stato perfetto per Jessye, anche perché, secondo lei, avevo la personalità per fronteggiarla”. Per fronteggiare l’artista superlativa e la donna dal temperamento torrenziale, il mostro sacro indiscusso.

Da allora miss Norman e mister Markham hanno dato insieme centinaia di concerti: negli Stati Uniti, in Europa e in Medio Oriente. Lieder, arie d’opera, gospel, maestri americani. Un sodalizio di ferro. Il rimarcabile Marco (Remarkable Mark), come da un titolo di giornale che nel 1992 ne celebrava il talento dopo un concerto a New York, fu iniziato al mondo dei cantanti dalla moglie del pianista che a Pensacola lo soccorse dalla mediocrità dell’insegnamento, ma lui non si vede come musicista “specializzato”perché ha tre passioni e non rinuncia a nessuna delle tre: l’accompagnamento, la carriera da solista e il vocal coaching. La sua idea è quella dell’artista rinascimentale che si cimentava con l’assoluto.
“La musica non è un qualcosa da fare, ma un modo di essere. Mi oppongo alla sua divisione, alla sua svendita, all’unione di grandi nomi solo per allestire un cartellone più ghiotto anche se non c’è una vera empatia. Il limite degli agenti è che dicono: tu hai già un lavoro come accompagnatore perché dovrei aiutarti a fare concerti da solista?”.

Lui, comunque, non aspetta gli agenti, e i concerti da solista li fa lo stesso, dopo una performance con Jessye Norman a San Francisco il 31 luglio, lo aspettano date in Florida, a Baltimora e Detroit. A gennaio invece sarà a Mosca con il quartetto Glinka. Ama Brahms, Ravel, Bartok, Debussy, Chopin, Liszt, Rachmaninov, Prokofiev: “I grandi compositori che furono grandi pianisti”. E da ascoltatore La Traviata dal vivo di Giulini e Callas. Al Teatro della Pergola, alla prima del Macbeth verdiano del Maggio Musicale Fiorentino, sopraffatto dalla nostra cultura (“ma come fate a essere in crisi, voi che avete tutto questo?”), elegantissimo con una cravatta verde prato doppiata di bianco di inequivocabile fattura italiana, ha detto che vorrebbe suonare in Italia, dove è sconosciuto e quindi libero. Il programma? Chopin, in onore della linea Rubinstein-Schein, gli impressionisti francesi del suonare come dipingere, e gli americani. Poulenc e Debussy, adora il Debussy della fine della vita “quando era completamente folle e diceva posso scrivere quello che voglio, sto morendo”, insieme a Gershwin ed Ellington. E Busoni, la trascrizione per piano della Ciaccona per violino di Bach, eseguito spesso da Rubinstein, per inseguire un’altra memoria: Mieczyslaw Munz, il maestro della sua maestra Ann Schein, a diciannove anni fu assistente di Ferruccio Busoni.

Quando entra in scena Mark è felice: “Puoi dire con la musica cose che non avrebbero la parola. So di avere qualcosa da comunicare. La persona che sei è la tua musica e il massimo è quando chi ascolta dimentica di non essere il performer. Come è successo a me, a teatro in Italia, con Maria Cassi e Alessandro Bergonzoni: mi sono scordato di essere straniero”. E non lo era.