C’è un momento, all’inizio de La città incantata, in cui tutto si dissolve. La famiglia di Chihiro si ferma in un luogo sospeso, apparentemente abbandonato, in attesa di ricominciare altrove. Ma qualcosa si rompe. I genitori si trasformano in maiali, il tempo si ferma, e Chihiro si ritrova sola in un mondo che non conosce, dove le regole sono misteriose, le presenze ambigue, il linguaggio criptico. In quel mondo, se dimentichi chi sei, smetti di esistere.
Non è un semplice espediente narrativo.
È un’allegoria precisa, feroce. Parla della perdita dell’identità, dell’adattamento forzato, dell’annullamento di sé che spesso accompagna il passaggio all’età adulta. E guardandolo oggi, in una società che ci chiede costantemente di essere flessibili, veloci, produttivi, si riconosce una dinamica fin troppo reale. Ogni giorno, in modo più o meno consapevole, si è chiamati a cedere qualcosa di sé in nome di un equilibrio apparente. Ma quel che si cede, spesso, è proprio la parte più autentica.
Nel mondo incantato governato da Yubaba, ogni individuo deve firmare un contratto per poter restare. Il prezzo è il proprio nome. Si lavora, si ubbidisce, si esegue. E, lentamente, si dimentica. Chihiro diventa Sen. Haku non ricorda più chi è. I lavoratori si muovono come automi, privati della memoria e della volontà. È un sistema che si regge sull’oblio. Anche nel mondo reale, l’identità si consuma sotto il peso dell’efficienza. Il tempo libero si assottiglia, i pensieri vengono interrotti, le emozioni silenziate. Tutto ciò che non produce è ritenuto inutile. La soggettività viene considerata un ostacolo. Bisogna sapersi adattare, essere performanti, imparare a funzionare. In fretta.
La società contemporanea non ruba il nome con la magia, ma con la velocità. Il tempo si frantuma, le giornate scorrono senza respiro. Essere fermi diventa un’anomalia, prendersi del tempo è un atto di lusso. Siamo spinti a dimostrare, a rispondere, a migliorare costantemente, come se bastasse uno sforzo in più per giustificare la propria presenza.
In questo contesto, l’identità non è più qualcosa che si coltiva, ma qualcosa che si negozia. Si cambia a seconda del luogo, della persona, della piattaforma. Ci si mostra, ci si misura, ci si plasma. E se un tempo si aveva un nome, oggi spesso si hanno più profili, più versioni, più facce da indossare a seconda delle circostanze.
Non è colpa dei social. O non soltanto. I social sono uno dei tanti luoghi in cui questa dinamica prende forma, ma non l’unico. La pressione alla visibilità, all’efficienza, all’adattabilità è radicata ovunque. È nella cultura del lavoro, nelle relazioni personali, nella scuola, nella comunicazione. È una società che premia la superficie, che tende a rimuovere la complessità. Il tempo dell’ascolto si è ridotto, quello del confronto autentico è diventato raro.
In questo scenario, ricordarsi chi si è diventa un atto rivoluzionario. Conservare un centro, coltivare una memoria personale, non lasciarsi deformare da ogni richiesta esterna, non è più una banalità. È una forma di resistenza.
La scena in cui Chihiro vola insieme a Haku, e improvvisamente ricorda che lui è il fiume che l’aveva salvata da bambina, è forse il cuore del film. Perché nel momento in cui lei lo riconosce, anche lui si ricorda. E ritrovare il proprio nome significa ritrovare la libertà. Non solo per Haku, ma per entrambi.
La memoria qui non è nostalgia. È identità. È ciò che permette di restare vivi, anche quando tutto attorno cambia. Ed è spesso proprio l’incontro con l’altro, uno sguardo che vede oltre, una presenza che resiste, a renderci possibile questo ritorno.
Essere riconosciuti per ciò che si è, anche nei momenti di debolezza, anche quando non si è nel proprio ruolo, è forse una delle esperienze più profonde che si possano vivere. Non serve che qualcuno ci salvi, ma che ci ricordi. Che ci tenga presenti. Che non ci riduca a ciò che facciamo, a come appariamo, o a quello che stiamo attraversando in un dato momento.
Chiunque abbia vissuto un’esperienza simile, anche solo una volta, sa quanto può fare la differenza. Quando ci si sente visti nel momento giusto, cambia la traiettoria di un giorno intero, a volte anche di una vita. Alla fine del film, Chihiro torna nel suo mondo. I suoi genitori non ricordano nulla. Le loro valigie sono al loro posto. La strada è quella di prima. Ma lei è cambiata. Non si è lasciata annientare da ciò che ha vissuto. Non ha dimenticato il proprio nome. Ha attraversato un sistema che chiedeva obbedienza e cancellazione, e ne è uscita con la propria identità intatta. Non è una favola ingenua. È una visione precisa di ciò che serve per non soccombere: la capacità di ricordare chi si è, anche quando tutto il resto lo nega.
Oggi questa capacità non è scontata. È ostacolata da troppe distrazioni, da troppa pressione, da una cultura che confonde il valore con la produttività. Ma più le condizioni sono difficili, più diventa urgente ritrovare un legame profondo con la propria storia, i propri desideri, la propria voce. Si può attraversare il caos, la stanchezza, l’isolamento, senza perdersi. Non sempre da soli. Spesso grazie a qualcuno che resta, che vede, che nomina. Ma si può. Ritrovare sé stessi, allora, non è tornare indietro. Non è cancellare la fatica. È sapere che, nonostante tutto, la parte più vera di noi può sopravvivere. Può riemergere. E quando lo fa, anche solo per un istante, ricomincia tutto.















