Allora disse loro: di chi è questa immagine e l'iscrizione?
Gli risposero: di Cesare

(Vangelo secondo Marco)

Che cos’è il Diritto? Che cos’è la Moneta? Domande socratiche antiche quanto il mondo. Domande filosofiche in quanto si chiedono la natura di realtà che sembrano sfuggire ibride, ambigue, complesse, tanto evidenti in superficie quanto incerte nel loro profondo. Domande che interpellano l’essenza, il concetto, i valori universali.

Amedeo Giovanni Conte, uno dei massimi filosofi del Diritto a livello internazionale (possiamo definirlo il “Wittgenstein della Filosofia del Diritto”) ha speso una vita nell’indagare qualità, distinzioni, paradossi del Diritto quale linguaggio e quale logica del “dover essere”. Chi ama approfondire queste dimensioni non può non rivolgersi alla sua preziosa ed elevata ricerca.

In questa sede ci limitiamo a riflettere su alcuni ragionamenti di Giacinto Auriti (Il valore del diritto, Solfanelli), altro filosofo del Diritto che ha seguito però approcci differenti e che ha riflettuto specialmente in merito alla natura complessiva del Diritto e della Moneta. Auriti accomuna diritto e moneta quali giudizi di valore che attengono a relazioni fra differenti fasi del tempo. Questa forse la sua intuizione più acuta. La moneta e il diritto quali tensioni ideali-valoriali fra un’aspettativa/capacità e il suo compimento/soddisfazione. Situazioni/forme che generano valore. La penna ha valore perché mi serve per scrivere, la casa perché la posso abitare, la moneta perché mi aspetto che venga accettata per acquistare beni, quindi opera quale misura del valore del loro scambio.

Moneta e Diritto quali beni strumentali che dovrebbero servire la persona, non asservirla. Questa la grandezza, ma anche il limite, del suo pensiero, così “occamista” nel ridurre a semplicità il complesso. Per Auriti resta fondamentale la distinzione kantiana fra soggetto e oggetto. Il soggetto viene riformulato quale “momento edonistico” (meglio sarebbe: egoico), cioè di uso-godimento di diritti/beni e l’oggetto quale strumento atto a servire questa dimensione del soggetto. Questa chiarezza semplificatoria risuona dell’etimo originario delle parole: ob-jectum quello che può essere scambiato, “gettato”, e il sub-jectum colui che è chiamato a praticare l’etica e il diritto quali forme di un originario e perenne “dover-essere”; colui che deve adempiere, ma pure colui che regge, sostiene il senso e il valore dell’oggetto. Non c’è bene senza proprietario. Per questo il romanissimo Auriti resta diffidente verso ogni personificazione di “fantasmi giuridici” quali i concetti di “società”, “stato”, “collettività”, che sempre rischiano simmetricamente di ridurre l’uomo, la persona a strumento, in una degradazione di “strumentalizzazione”.

Detto questo restano dubbi e ambiguità. La visione di Auriti rischia di generare un’altra concezione utilitarista e consumista del diritto-moneta a cui il pensatore oppone il suo ideale di un’etica da “diritto naturale”, coessenziale alla natura umana e superiore al diritto positivo. Dopotutto la stessa “etica” delle Costituzioni degli Stati. Auriti si avvicina allo specifico profondo del diritto e della moneta proprio nel coglierli quali giudizi di valore connotati da una particolare declinazione dello spazio e del tempo e nella loro capacità di valutare relazioni di scambio di diritti e di beni. Realtà sia spirituali che simboliche, espressioni di volontà che si traduce in forma. Potremmo dire: meccanismi che mirano a conservare il valore nel tempo e nello spazio, come a garantire un’identità, un “principio di conservazione dell’energia” nelle relazioni sociali.

Lo stesso Aristotele avvicinava il diritto a una sorta di semplice “matematica sociale”, fondata su di un’equazione identitaria 1:1. Incrociando queste intuizioni si potrebbe parlare di diritto quale tensione identitaria che mira all’equilibrio dopo un trauma (le patologie del diritto, e il penale specialmente) oppure a garantire (pre-trauma) una specularità di valore fra sfere personali-relazionali differenti. La moneta scambia beni, il diritto scambia relazioni personali, “diritti/doveri” appunto. L’Equilibrio il valore sommo, centrale. La moneta deve garantire l’identità di valore nella relazione di scambio, come il diritto deve garantire l’equilibrio e il benessere generale nelle relazioni umane-sociali.

Per Auriti sia il diritto che la moneta sono beni comuni immateriali, spirituali, giuridici. I limiti del suo pensiero derivano dal non affrontare il concetto di “funzione”, che permette di approfondire la particolare natura quasi metafisica del diritto/moneta, anche se tale concetto dall’altro lato complica ulteriormente questo tema di riflessione. Il diritto e la moneta appaiono infatti svolgere un’attività quasi circolare, quasi autofondativa, per questo un tempo erano considerati fenomeni sacrali, magici, vicini al tema della religione e della ancestralità dei “costumi degli antichi” (mores majorum). Il diritto scambia poteri, e li misura, la moneta scambia valori, e li misura. Entrambi si pongono quale “valore dei valori”. Mentre il metro e il kilo non escono dalla dimensione che misurano, il diritto e la moneta sembrano tendere a sfuggire al controllo umano individuale-personale (a cui l’idealista Auriti tenta di riportarli) per farsi “realtà in se stesse” sussistenti.

Già Salvatore Satta aveva parlato di “rapporto circolare” nella produzione del diritto tra testo scritto, processo e giudice, tra legge e sentenza. Qui possiamo più ampiamente parlare di circolarità tra essere e “dover essere”. Fin dal Sinai, dove Dio (l’essere) si aliena nella sua Legge dei 10 Comandi (il dover essere) la quale a sua volta serve affinché l’uomo sia favorito nel tornare a vivere nell’Essere. Il diritto come simbolo, cioè come sigillo spezzato che tende all’unità nel suo ricomporsi in un riconoscimento reciproco, biunivoco. L’autorivelazione divina del Sinai fonda e legittima anche il diritto umano in quanto autoposizione del principio di identità: “Io sono Colui che sono”. 1 = 1. Ciò è proprio del concetto di funzione.

Il diritto è il diritto. La moneta è la moneta. Non cambiano funzione logico-pratica. Sono funzioni, cioè forme/necessità vuote ma tutto accoglienti, operanti, superiori ai beni/fenomeni/relazioni di cui si occupano o da cui vengono implicati. Il Giudice deve essere ignorante; deve così poter accogliere tutta la vita che entra nel processo. Il “dover essere” resta se stesso. Il Giudice deve concludere con una sentenza, il contratto o si adempie o non si adempie. La parola genera relazioni, aspettative. Moneta e Diritto sono performativi, funzionali, similmente alla matematica. Non si logora una formula con l’uso dei suoi numeri. Come un acquedotto rispetto all'acqua che veicola la formula non è logorata dei numeri che conduce, come il valore della moneta dal suo essere trafficata. Il Numero resta identico a se stesso. La moneta misura i beni acquistabili, il diritto le possibilità e le conseguenze del vivere sociale. Sia la moneta che il diritto parlano-agiscono per simboli, per forme. La moneta, ci ricorda il Vangelo, reca l’immagine del potere, di un’autorità generale, di un’appartenenza.

Questa la sua specificità rispetto al diritto: l’efficacia idolica, il potere dell’immagine simbolica, la reiterabilità identitaria in serie. Forza e debolezza della moneta quale fatto massimamente giuridico, il più semplice e potente fatto giuridico. Contro i fatti non valgono le teorie! Aspetto spirituale rischioso questo della moneta “funzione metafisica”, quale reiterazione identitaria del valore, in quanto ha permesso alla moneta di divenire da mero strumento di misurazione del valore di scambio delle merci a merce essa stessa, anzi la merce somma, il “sommo bene”. Da sommo strumento a sommo ente, parodiando e scimmiottando la “funzione” auto-ontologica e autorivelativa di Dio stesso! La moneta appare la funzione più universale nelle relazioni sociali, più del linguaggio parlato stesso. Una funzione che si autovalorizza e autoreifica, svalorizzando e sub-reificando ogni altro bene/merce/diritto/persona.

Altro limite del pensiero di Auriti è il suo “convenzionalismo”, riducente tutto il valore a uso, a convenzione sociale, a consuetudine. È vero che la forma richiede l’inveramento nella prassi, per cui è l’uso della moneta, il suo essere accettata che ne conferma (o crea) il valore, come il senso di una frase viene “deciso” da chi l’ascolta, ma non è corretto assumere che il valore non abbia mai rapporto con la res, anche monetaria. Nel caso dell’oro il pensiero di Auriti pecca di cerebralità nominalistica, di contrattualismo, di concettualismo, in quanto l’oro da sempre è un bene prezioso non per una mera astratta convenzione ma pure per le sue qualità intrinseche: lucentezza e purezza, fondibilità, scarsità, durezza e resistenza nel tempo. Fraintendendo la qualità che la forma dà alla materia si può fraintendere una corretta analisi della genesi del valore di una moneta.

Il diritto e la moneta ricevono e trovano la loro forza valoriale anche e proprio nella forma e nel simbolo, cioè nel linguaggio stesso. In questo il diritto non ha perso del tutto la sua sacralità d’origine ed è avvicinabile alla dottrina cattolica dei Sacramenti. Come essi infatti il diritto presenta una forma (modo di produzione e contesto di emersione, linguaggio, simboli) e una materia (titolarità, relazioni, capacità personali). Auriti sembra riflettere con efficacia su aspetti materiali e relazionali del diritto e della moneta (spazio/tempo) ma ha trascurato l’importanza degli aspetti formali. “Chi emette la moneta” e il suo “potere di emissione” sono certamente temi importanti, da trattare non ideologicamente ma da discutere liberamente. Ciò non toglie che il potere di emissione è potere politico-normativo, sovrano (l’unico “potere costituente permanente”, possiamo dire), formale, simbolico, e, quindi, vicino a una capacità di autolegittimazione valoriale, possedendo un suo peso, non del tutto riducibile alla pur importante consuetudine della praxis di accettazione.

Il potere del numero, la malìa dell’enumerazione, il fascino della forma e della ripetizione. Archetipi che vengono dal modello spirituale ed etico-estetico della divina creazione e che contribuiscono a tenere insieme lo stesso uso confermativo, cornice e sigillo generale sia della moneta che del diritto. La funzione genera il suo contesto. I simboli polarizzano. Il diritto è rito. La moneta è rito. Se partecipi a un rito ne subisci l’efficacia conformante. Anche se lo disprezzi. Come i sacramenti. Possiamo riqualificare il diritto e la moneta chiamandoli sacramentali di massa, pur de-sacralizzati, laici. Sacramentali come il segno della croce, le benedizioni, gli esorcismi, le consacrazioni, le sacra ceneri, le investiture cavalleresche: ritualmente efficaci, sussistenti, indipendentemente dalla dignità e dal numero di chi dà e di chi riceve. La magia del diritto risiede nella magia dello specchio, nell’archetipo del “ritorno”. È fatta di somme, sottrazioni ed equivalenze. La magia della moneta risiede nella magia della moltiplicazione e della divisione dell’Uguale, dell’Identico, dell’Uno.