Nel 1924 Marc Bloch, uno dei più importanti storici del Novecento, scrisse “I re taumaturghi”. In quest’opera Bloch indagava sul ruolo quasi sacro che i re medievali avevano all’interno della società del tempo: per loro natura, i monarchi venivano investiti da una funzione sanificatoria per volere divino, e imponendo le loro mani sul corpo dei malati, li guarivano. O meglio, la tradizione popolare socialmente accettata credeva che potessero farlo.

Questo studio implicava un messaggio più profondo, e cioè quello che per la prima volta metteva in evidenza l’importanza di una Storia fatta (e vista) dal popolo e non solo dai potenti, ma soprattutto la necessità di non trascurare quella Storia composta da credenze popolari, culti folcloristici, persino la tradizione più ingenua e comune. La Storia, insomma, non ufficiale ma tuttavia composta da masse che la animano. Una Storia indagata par le dedans (usando una sua stessa espressione) che nella placenta della superstizione trova l’embrione della quotidianità più vera.

Intuizione felicissima, quella di Bloch, e noi italiani dovremmo più che mai prestarvi attenzione dato che la nostra vita è intessuta di usanze e modi di fare che derivano da credenze antiche. Non c’è modo più semplice e diretto per capire quanto il passato dialoghi con noi raccontandoci le nostre origini. A volte basta solo chiedersi il perché di un gesto o di un’espressione tipica per affondare i denti nella Storia. Prendiamo ad esempio il numero diciassette che tutti noi solitamente lo identifichiamo come un numero che porta sfortuna, ma perché? Diamo uno sguardo al passato e vediamo che in numeri romani il diciassette si scrive XVII; anagrammando queste lettere otteniamo “VIXI”, che corrisponde alla prima persona del passato remoto del verbo “vivere”, quindi significa “vissi” e di conseguenza significa che ora, invece, sono morto. Sulla stessa falsariga e ancora più semplice, perché anche il numero tredici porta male? In realtà per la precisione porta male essere in tredici a tavola, e a questo punto pare evidente che il rimando è religioso, vale a dire l’ultima cena di Cristo.

Saliamo di un gradino in questa scala di esempi e giungiamo a Napoli, dove si può incontrare la tradizione del munaciello (in dialetto, il “piccolo monaco”); si tratta di uno spirito domestico, a volte benigno, più frequentemente dispettoso. Sposta le cose, rompe gli oggetti o li fa sparire. Personaggio antico, è diffuso in gran parte del sud Italia e a seconda delle zone geografiche compare con nomi diversi: mazzamauriello (entroterra campano), mazzemarill’ (Molise-Abruzzo), scazzamurrill’ (Foggia), monachicchio o marranghino (Lucania), e tale credenza è talmente articolata che ognuno di questi spiriti può presentare piccoli varianti comportamentali (per esempio il marranghino o maranchino si occupa principalmente di non far dormire le persone). Il perché di questo spirito ha due risposte, una antropologica l’altra storica.

La prima risponde a una delle più antiche esigenze che ha l’uomo, e cioè quella di credere in esistenze intermedie tra la vita reale e quelle di un altro mondo impercepibile con i sensi. Gli spiriti, intesi tanto come fantasmi o come entità celesti, esistono da sempre (si pensi che Socrate stesso affermava di avere un daimon, uno spirito divino, che lo seguiva e guidava). Nascono nel profondo del nostro inconscio e del nostro istinto, e spesso li facciamo crescere con i nostri sensi e il nostro cervello, perché in fondo abbiamo il desiderio nascosto di ritenerli reali.

L’altra risposta, quella storica, è molto più materiale ma non per questo meno interessante. Il sottosuolo della città di Napoli è ricco di pozzi d’acqua (oggi non più attivi) che necessitavano di manutenzione periodica, tuttavia tali pozzi erano talmente stretti che il pozzaro (così era definito chi si occupava di tale manutenzione) doveva essere necessariamente un individuo di bassa statura in modo che le sue piccole dimensioni potessero agevolarlo nella discesa e risalita in questi stretti pozzi. Siccome a loro volta tali pozzi spesso sbucavano nelle case, e in particolar modo nelle case di chi se ne poteva permettere uno – cioè un ricco –, ecco che il pozzaro si improvvisava ladro e ne approfittava per entrare di nascosto e rubare qualche oggetto particolarmente prezioso per poi sparire nuovamente nel sottosuolo. Capitava così che i proprietari vedessero appunto sparire oggetti in casa, vederli spostati o rotti, e non avendo altra spiegazione razionale, niente di più plausibile che quella di uno spirito dispettoso, la cui identificazione con un piccolo monaco era data non solo dalle ridotte dimensioni del pozzaro ma anche dal suo tipico abito da lavoro, una specie di saio spesso e logoro. Ma accanto a questa spiegazione c’è da aggiungerne un’altra ugualmente storica che identificherebbe il munaciello come un bambino nato purtroppo deforme che visse rinchiuso in un convento domenicano assieme alla madre rimasta vedova, e che usasse il saio dei monaci (difatti una certa iconografia lo vuole vestito con la tonaca bianca e nera) per nascondere le proprie deformità.

Saliamo ulteriormente e incontriamo un tipo di esempio ancora più complesso avente un legame maggiore con il passato. Per la tradizione cristiana, la notte del 24 giugno si celebra la nascita di San Giovanni e per usanza vengono accesi falò più o meno grandi in modo da illuminare le tenebre. In questo caso il simbolismo è chiaro: le fiamme intese come luce che scaccia l’oscurità, Dio che scaccia il male. Ma indagando nel profondo della Storia dietro la storia scopriamo una serie di tasselli che ci forniscono risposte più ampie; innanzitutto si noti che la data coincide con quella pagana che sanciva il solstizio d’estate e quindi in generale di un periodo felice per l’agricoltura. Tale idea trova una traslazione all’interno della corrispettiva tradizione cristiana perché infatti durante la notte si usa raccogliere le erbe e piante commestibili in quanto si ritengono particolarmente benefiche e capaci di guarire diversi mali (dalla lebbra alla caduta dei capelli).

Ma le corrispondenze non finiscono qui. Oltre alle erbe, si resta in piedi fino all’alba (ecco il perché pratico dei falò) per raccogliere la prima rugiada del giorno, anch’essa considerata taumaturga; il motivo simbolico è semplice, l’acqua della rugiada ricorda l’acqua con cui il santo battista operava, arrivando a benedire lo stesso Gesù. Ma dall’altro lato della Storia, l’acqua è considerato l’elemento che per i pagani permetteva il contatto con un mondo divino e soprattutto con quel mondo divino specificamente preposto alla guarigione dei mali (argomento interessante che meriterà una trattazione futura), basti già solo pensare a Igea, divinità medica la cui iconografia la rappresenta avente una coppa in mano. E del resto, chi di noi al giorno d’oggi non sa che il primo rimedio per prevenire le malattie è appunto una costante pulizia e igiene – termine che nasce appunto dal nome della divinità?

Acque taumaturgiche, dunque, come i re taumaturghi di Bloch dai quali siamo partiti. E in entrambi i casi vediamo come ci sia molta più razionalità e concretezza rispetto a ciò che queste credenze sembrano mostrare in superficie. E grazie all’intuizione dello storico francese oggi possiamo rileggere tutte queste motivazioni in modo da notarne la concatenazione e complementarità, senza dover ricercare per forza un’unica, insindacabile verità. Questo perché il passato non è mai univoco, ma racconto corale che si presenta come un intreccio tanto intricato quanto logico, e pretende di essere visto da tutte le prospettive perché la Storia è fatta sia dal contadino ignorante che dallo storiografo dotto.

Nessuna regola migliore del “perché” (che ricorda molto il ti estì – ovvero “che cos’è” – del già citato Socrate): il chiedersi continuamente la ragione di un qualcosa che tuttavia non deve limitarsi solo a ciò che è razionale ma deve sapersi adattare anche al bizzarro, all’irreale, al fantasioso.