Non sopporto più questa sabbia rovente. E ho fame. Quando Alessia non mi vedrà, capirà. Afferro l’asciugamano e il libro, un deludente Uomini senza donne di Murakami, e me ne torno a casa. Percorro in punta di piedi il breve tratto di spiaggia che mi separa dalla pineta, poi attraverso una zona di dune coperte da cespugli odorosi.

È il luogo che ho più amato da bambino, anche se fa sempre un caldo boia perché non c’è mai vento. Lì il fragore delle onde si placa e si sentono le cicale con il loro concerto assordante. Fortunatamente la casa è a pochi passi di distanza, mi pregusto la piacevole sensazione dei piedi nudi sulle vecchie piastrelle del pavimento e la frescura degli ambienti con gli scuri serrati. Spingo la porta, attraverso il vestibolo che dà accesso alle camere e raggiungo la cucina dove ci sono ancora gli odori del pranzo. Apro il frigorifero e trovo esattamente quello che speravo di trovare: un resto abbondante della caponata di mamma - con sedano crudo e pinoli aggiunti all’ultimo - una trionfante mozzarella - che pensasse di scamparla?- una piccola ciotola con pomodori e basilico pronti da farne bruschette e una porzione generosa di polpo in umido con patate e prezzemolo, che può voler dire due cose, o che zio Franco non è ancora arrivato o che è arrivato ma si è portato la fiamma del momento e quindi si è distratto. Lui adora quel piatto, se l’avesse visto non l’avrebbe lasciato incustodito!

Un mugolìo proveniente dalla camera, seguito dal ritmico battere della testiera del letto contro il muro, mi distrae dal mio inventario ma mi autorizza a tirare fuori il piatto col polpo rompendo gli indugi. Sorrido. In frigo c’è anche un'intrigante bottiglia di vino bianco, opaca di freddo, tutta sola e senza etichetta e vedo anche del melone già pronto a fette. E Alessia?

Apparecchio sul piano di marmo, piatti, bicchieri, posate, tutto è spaiàto e va bene così. Zio Franco non si sente più, da lì a poco, come tradizione, tenterà un secondo round, in compenso ora si sente il russare di babbo dalla stanza accanto mentre il mio appetito non può attendere oltre. Mangio una grossa fetta di melone e non mi fermo e, come preso da un minaccioso presentimento, comincio a sbocconcellare nervosamente un po' di tutto. Per distrarmi decido di caricare la moka.

C’è stato un giorno in cui proprio lì, in quella cucina, mentre stavo facendo quell’operazione, Alessia mi aveva guardato e si era fatta vicina e prima che potessi dire qualcosa mi aveva baciato. Quello era stato l’inizio. Adesso lei è qui, di fronte a me, scivolata in casa come un fantasma, e io mi sento stranamente impacciato, quasi non ci conoscessimo e l’unica cosa che riesco a dire è: “Vuoi mangiare qualcosa?”. Lei mi guarda distrattamente e poi mi dice: “No, sto andando via, vado via con Marco”. “Ma non dovevamo dormire in spiaggia quest’ultima notte?” la incalzo io, notando solo in quel momento che porta al collo una piccola conchiglia a forma di spirale che questa mattina non aveva.

Si apre una porta e appare il faccione beato dello zio Franco mentre dietro di lui fa capolino il viso vermiglio di una ragazza visibilmente felice, che sorride e saluta. La scena finale con il polpo, la mozzarella e le fette di melone che volano in aria e le mie urla incazzate che si mescolano al frastuono di vetri e ceramiche frantumate sul pavimento, implode nella mia immaginazione.

Alessia è già scomparsa, lontana da quella casa, smaterializzata nell’abbagliante luce del primo pomeriggio. Infilzo e mi metto in bocca l'ultima mozzarella, intera.