Una madia con tre ampi cassetti in legno massello finemente intarsiata di motivi floreali, svampiti e sinuosi; color turchese di cobalto. Il quale, essendo uno dei più caldi nella gamma di tonalità a metà strada tra il blu e il verde, mostra picchi di calore e intensità tra i più spigliati del genere; l’effetto che gli conferisce la sua unione al legno, poi, lo impasta e ammorbidisce, proiettandolo in un’atmosfera da sogno e avventura: quello che intendo dire è che, osservando questo mobile, ci si potrebbe inconsultamente ritrovare in una sbarazzina villa rustica degli anni Settanta del Novecento oppure in un elegante appartamento dallo stile scandinavo più minimalista e ricercato; o ancora, in un vecchio magazzino affollato di utensili e suppellettili obsolete e dimenticate, accozzate in un ordine scomposto e arruffato, come qualsiasi cosa di cui non ci si cura più.
A pensarci bene, è proprio in luoghi come questo che spesso se ne stanno nascosti in bella vista gli oggetti più straordinari: come in una wunderkammer rinascimentale, coperta di chincaglierie di ogni sorta, in oro e argento, impreziosite da gemme incastonate e inanellate in svariati ghirigori, si ergeva quel mobile turchese, fiero come un torrione medievale, muto custode di un arcano senza tempo.
Sì, perché oltre a sembrare assurdo che un oggetto simile, con la sua forma rettangolare e vintage e i suoi cassettoni regolari e le sue gambe zoomorfe richiamanti quattro zampe leonine, fosse prepotentemente posizionata al centro di una sala arredata con uno stile completamente diverso. Era chiaro che fosse stata trasportata lì in un secondo momento e che probabilmente quella rappresentasse solo una collocazione temporanea: cosa conteneva? Era un interrogativo a cui rispondere, ma non prima di aver dato ancora una rapida occhiata al caleidoscopio di colori e luci che mi ondeggiava attorno, richiamando insistentemente la mia attenzione come un bambino capriccioso.
Gli impolverati scaffali lignei contornati da tendaggi di seta flessuosi e colorati e un persistente odore di incenso e spezie di ogni sorta mi invadevano le narici e i pensieri; tutto l’ambiente era, poi, perfettamente coerente con l’esterno dell’edificio dall’architettura arabeggiante, in pietra calcarea dorata con enormi arcate simmetriche e speculari e strette finestre bifore, decorate da volute sinuose e mosaici, sorrette da colonnine tortili: davanti a me avevo trovato un portone in ferro dal chiaro stile arabesco, i cui pilastri laterali sorreggevano un imponente arco a sesto acuto contornato da una miriade di tasselli da mosaico, che variavano lungo tutte le tonalità più splendenti del blu. Un fioco barlume di luce proveniente dal portale socchiuso aveva attirato la mia attenzione e decisi di entrare.
Tornando alla stanza arabesca, come dicevo, ero sul punto di svelare quel fastidioso intrigo sul contenuto del comò in turchese di cobalto, quando d’improvviso percepii una presenza ingombrante alle mie spalle, ondeggiante verso di me tramite passi sussurrati e rapidi. Mi nascosi dietro ad una tenda vermiglio.
Dal mio punto di osservazione potevo scorgere vagamente, attraverso una stretta fessura tra i tendaggi, il profilo della persona appena entrata nella stanza: un ragazzino che non avrà avuto più di tredici anni, che fluttuava furtivo sulle sue scarpe da ginnastica quasi come Hermes/Mercurio sui suoi calzari alati. Si accingeva ad aprire uno dei cassettoni turchesi, quando una voce imponente, in arabo, gli si abbatté addosso: “Ahmed! Dove sei?! Torna subito qua!”; fortunatamente i miei studi di arabo, accompagnati da diversi mesi in Marocco, mi hanno illuminato simultaneamente sulla traduzione.
Il giovane, agitatosi al suono di quella voce, ebbe a malapena il tempo di fare qualche movimento brusco, prima di uscire: spalancò un’anta della madia e tirò fuori un libro del quale, dalla mia posizione, non riuscii a leggere il titolo. Lo infilò nello zaino che aveva con sé e si allontanò; nel mentre, però, un foglio ripiegato scivolò giù dal giubbotto del ragazzo che non se ne accorse.
Una volta uscito, aspettai alcuni minuti che il silenzio si impadronisse nuovamente dell’atmosfera impregnata già di incenso e tensione; dopodiché mi tirai fuori dal nascondiglio e raccolsi, con fare rapace, quel biglietto: stavo per leggerlo, quando udii delle voci penetrare dalla finestra alla mia destra. Dall’arabo seppi tradurre, dalla voce di un uomo, che il tale avesse intenzione di entrare nell’edificio; non potevo rischiare una seconda volta di farmi beccare. Imboccai di corsa il corridoio e quindi l’uscita, ripassando dal magico porticato arabeggiante, e mi ritrovai subito all’aria aperta.
All’orizzonte scorgevo il mare; mi diressi velocemente in quella direzione per poi simulare una passeggiata tranquilla sul lungomare della città. La distesa d’acqua era così abbacinante da serrarmi gli occhi che non seppero resistere all’impatto con il suo, di nuovo, turchese di cobalto. Il colore fu un promemoria naturale che mi rammentò di leggere il biglietto che avevo portato via con me per la fretta:
Caro Ahmed,
Quando leggerai la mia lettera sarò già partita per il Marocco. Ti scrivo in Italiano, lingua che ormai conosci bene, per evitare che papà, qualora venga in possesso di questo foglio, possa comprenderne il testo. Ti chiedo di andare al suo magazzino lungo la strada per il mare; nella prima stanza a destra dopo il corridoio troverai un vecchio mobile italiano azzurro, di quelli che la ditta dovrà consegnare tra pochi giorni: in uno dei cassetti c’è il mio libro preferito, Robin Hood. Il Principe dei ladri di Dumas. Prendilo e portalo a Maria; sarà il mio ultimo regalo per ricordarle per sempre il mio amore. Quando lo avrai fatto, e ci sentiremo con la telefonata della sera che tutti insieme a casa mi farete, dimmi solo “Turchese” e io capirò.
La nostra terra, comunque, è ancora più calda di quanto la ricordassi dopo il nostro ultimo viaggio; l’afa e la sabbia mi hanno impastato l’ultima goccia di saliva che avevo per poter esprimere il mio parere e asciugato tutte le lacrime che ho pianto. La vita a volte è più dura di quanto pensiamo e le prove a cui ci sottopone davvero all’apparenza inutili. Un po’ come in Robin Hood, in cui le angherie dello Sceriffo di Nottingham erano infinitamente ingiuste e fatue e prive di senso; il male per il gusto del male. Allah però è più grande di ogni cosa, confido in Lui.
P.S: Se non riesci a capire tutto quello che ho scritto, fattelo tradurre da Maria; non sei mai stato bravo quanto me in Italiano, fratellone! Ancora oggi sono così fiera di aver dedicato molto del mio tempo alla lettura di testi di narrativa; era un esercizio continuo, persino in classe a scuola nelle ore di matematica e scienze, quando il prof. mi sgridava arrabbiatissimo perché non scollavo lo sguardo dal romanzo, piuttosto che dalla lavagna e dai suoi noiosissimi conti! Bei tempi quelli.
Torno al presente: torno in me, nella nuova me adulta che il mondo mi chiede di essere. A breve ci sarà la festa dell’Henné e io desidererei che i disegni mi incidessero fino all’anima per sigillarmi definitivamente il cuore. Forse lo faranno. Non dimenticherò mai tutto l’affetto e la comprensione sovrumana che mi hai dedicato. Ti voglio immensamente bene, fratello mio.
Farida
Le parole mi restarono tappate in gola dallo stupore: non seppi nemmeno pensare per l’emozione. Una testimonianza di vita così viride mi aveva conficcato le unghie fino al midollo del più profondo sentire. Ero del tutto impotente, eppure avrei così tanto desiderato aiutare quella Farida a non rassegnarsi alla mediocrità di un’esistenza vissuta senza sogni. Li avrei dipinti io stessa sulle sue mani con l’Henné, se avessi potuto. Non mi era concesso. Un’azione, però, avrei potuto compiere: eliminare quella prova che, se fosse caduta in mani sbagliate, avrebbe potuto provocare interminabili catastrofi.
Scesi sulla spiaggia; una volta seduto sulla battigia, accarezzato dal roseo calore del tramonto d fine giugno, estrassi dalla tasca il mio secolare accendino verde, appoggiai il foglio su un sasso e gli diedi fuoco: restavo ammirato e divertito ad osservarlo contorcersi nella sua danza pirotecnica. Mi sono sentito di consegnare quella storia al fuoco, come quando si brucia un desiderio soffiando sulle candeline di una torta o, meglio, come quando passa una stella cadente, fenice dei nostri giorni.
Quanto a me, girovago e irrequieto, ringrazio l’universo per la miriade di storie che mi racconta: ognuna di esse mi insegna ogni giorno a restare umano.