Lisa si è appena lasciata scivolare sul divano. È stanca e vorrebbe sprofondare, ma neanche la seduta è tanto morbida. Pensa: proprio come quella giornata.

Così lo sguardo percorre la linea del suo corpo tra il disteso e seduto, si abbassa verso il petto, si ferma alla maglietta sgualcita e alla nauseante macchia di caffè, poi lungo la vita e i jeans stretti, fino alle caviglie e ai piedi, senza più le scarpe. Scomode.

Con la punta di quello destro accarezza il tappeto, cerca di avere a che fare con la morbidezza, oggi le è mancata. Non deve essere proprio giornata: il gioco del piede urta l’imprevisto, c’è una scatola di liquirizia per terra.

Deve esserle scivolata dalla borsa, disordinata e sempre carica. Pensa: come chi rimugina troppo.

L’astuccio è in cartone, tante piccole scritte dicono che contiene liquirizia pura che ha un sapore deciso, è una delizia per il palato, è elegante nel suo colore nero lucido ed è spezzata.

Sì, i caratteri cubitali della scatola la definiscono spezzata, cioè “tagliata in pezzi irregolari e senza zuccheri aggiunti”. Proprio come si sente Lisa.

Pensa: è così che mi sento, spezzata.

Tra la terra e il mare, il mattino e la sera, il caldo e il freddo, il detto e il non detto, l’andare e il venire, il voler parlare e il dover tacere, il sole quando scioglie la neve, lo stupore della consapevolezza quando scopri la verità, la delusione… quando scopri l’altra verità, il dolore per una parola cattiva, il desiderio che sì, dai, l’hai capita male, forse era buona, lo schiaffo invece della carezza, lo sguardo severo anziché d’azzurro, la fretta e la calma, lo sfogo e stai zitta, per favore e comando, le scale a piedi e il respiro dentro l’ascensore, la premura di un messaggio, il gelo nella risposta, la casa ordinata dentro e il mondo tutto confuso di fuori. Spezzata è uno scatolino di liquirizia andato a finire per caso sul tappeto. Dentro c’è il suo significato: “rotta in più punti”. Per assaggiarne un pezzo alla volta.

Pensa: siamo forse tanti piccoli pezzettini? Una volta abbiamo il sapore della preoccupazione e un’altra quello della serenità? Una volta ingoiamo amaro e un’altra volta la delizia? Una volta nutriamo diffidenza e sospetto e l’altra volta piena fiducia?

Una volta pensiamo dal cattivo e l’altra dal buono?

Io non riesco a capire, pensa ancora: perché cerco di tenermi sempre così unita, quando vengo continuamente spezzata.

Io tento di stare ferma dove il sole non può arrivare a sciogliere il bianco della neve. Dove può esserci il tempo migliore di sé. E credo che questo basti, rimanere ferma. Dove è chiaro.

E invece, ogni volta, entra in gioco quel giro di parole che sussurrano che per non sciogliersi bisogna darsi, bisogna che ti spezzi in tante parti, irregolari, di te.

Sciogliere, dedicare, spezzare. Rimanere si, fermi no.

Pensa: bisogna essere disposti ogni giorno a spezzarsi, per poter essere e dare sempre un pezzettino di sé, poi tornare a casa e tenere unito il cuore.

Lisa è sul divano, con la dedica di sé e ingoia un altro pezzetto di liquirizia. Spezzata.

Sassolini, e forse fragili

Bartolini ha lasciato la sua consegna, puntuale. È un pacco, un dado di cartone sigillato da una croce di nastro adesivo. Marrone su marrone. La scritta però è nera e lucida, dice fragile.

Piero è rimasto sull’uscio della porta, firma e ringrazia.

Col suo fisico smilzo e alto, è il sinonimo di fragile, come il contenuto di quel cartone, ma non ha nulla a che fare con ciò che si frantuma.

Non è nemmeno debole. È di certo il contrario di severo, sicuro o duro, parole aspre che non riesce a pronunciare mai, non gli appartengono.

È mitezza, prova a crescere.

Non ha ancora scoperto cosa può trovare dentro a quel pacco che gli hanno consegnato, non sa considerare bene il dentro di sé. Prova a leggerlo, e ogni volta lo fraintende in quel fragile che hanno appiccicato all’esterno.

Si confonde nella debolezza perché non è spregiudicato com’è là fuori. Per questo inciampa nell’incerto.

È ancora sull’uscio della porta, questa volta in procinto di andare. Ha un giubbino leggero, pantaloni sbrodolati, una cascata di riccioli, gli occhi che brillano tra il fresco e l’ingenuo, ecco perché a volte restano spaesati. Si perdono, si stringono.

È fuori posto solo quando gli fanno piombare addosso la cascata delle cose da essere, come si fa a diventare tutto in una volta? A uscire da una scatola senza rompersi, o senza neanche un graffio.

Piero ha in tasca una piccola confezione di sassolini, sono i suoi confetti preferiti, per consistenza e gusto: dentro sono fatti di morbida caramella, fuori è una crosta di zucchero, che però si lascia mordere, s’infrange. Così verrà il sapore.

È vero, pensa: “Il centro è il cuore, è il più debole ma è anche invincibile.

Come chi prova a crescere, a comprendere cosa può esserci dentro ad una scatola dove hanno scritto qualcosa di fragile.

Ma della fragilità, Piero, ha solo quella storia rara della delicatezza.

Dentro la scatola di chi cresce, e Piero ancora non lo sa, invece, c’è sempre il desiderio: quella spinta appassionata a cercare di essere, di avvenire, di assomigliare all’immagine più autentica di sé. Piero, non siamo costruzioni, mattoncini per giocare.

Non dobbiamo lasciare che ci montino. Dobbiamo essere, divenire, assomigliare.
Volere, non dovere.

Siamo un cantico. Crescere è aprire una scatola e dar voce al proprio desiderio di intonarlo.

Desiderio desideravi.

Ho tanto desiderato.

(Luca, 22,15)