Organizzare concerti in epoca di allarme terrorismo non deve essere proprio uno scherzo. Anche per andarci da semplici spettatori d’altra parte qualche sforzo supplementare rispetto alle nostre abitudini è richiesto.

Prendiamo come esempio il concerto fiorentino dei Radiohead del 14 giugno: le raccomandazioni arrivate per email a chi aveva acquistato il biglietto su internet erano infinite. Il senso più o meno era: non pensate nemmeno di poter parcheggiare vicino alla Visarno Arena, alle Cascine, perché per ragioni di sicurezza chiuderemo il traffico in tutta l’area; non arrivate all’ultimo momento perché vi controlleremo con i metal detector, anzi, vi consigliamo di venire cinque (5!) ore prima dell’inizio dello show principale, quello della band di Oxford.

La leggenda delle settimane precedenti diceva che questi avvisi (tralasciandone altri vagamente comici come il divieto di introdurre aquiloni, lanterne e trombe nautiche…) abbiano spinto un po’ di gente a rivendere i biglietti comprati mesi prima. Sui social è partita una bolla d’ironia, che però è svanita nel nulla quando Thom Yorke e compagni hanno cominciato a suonare: eravamo una moltitudine senz’altro molto vicina ai cinquantamila comunicati ufficialmente dagli organizzatori. Magari quei pochi che hanno effettivamente venduto i biglietti sono dovuti andare al saggio di danza delle figlie, o avevano judo, o chi lo sa. Ma credetemi, esserci ne è valsa la pena, e tra poco proverò a spiegare perché.

Intanto vi dico dei disagi attesi, con la premessa che sono partito con grandissimo anticipo, arrivando come consigliato ai cancelli alle 16,30. Prima ancora avevo lasciato la macchina al nuovo parcheggio scambiatore sulla A1, poco a sud di a Scandicci, da dove si può prendere comodamente la tramvia per il centro, con fermata alle Cascine, poche centinaia di metri dagli ingressi dell’ippodromo. Appena arrivato, non ho fatto nemmeno un metro di fila, nonostante controlli accurati (metal detector, tasche svuotate e apertura dello zaino). Una volta dentro mi è parso scomodo il sistema di pagamento agli stand, che non avviene con il denaro (per facilitare i resti) ma attraverso buoni da 3 euro chiamati token (in vendita solo a multipli di 5). Il che significa che bisogna fare due file invece di una, e quando dentro ci sono cinquantamila persone, stiamo parlando di file lunghe. Queste sono criticità da migliorare, e speriamo che per le prossime date dei festival fiorentini vengano corrette, ma la sostanza non cambia: non è stata una serata di musica bella, è stata memorabile.

Prima dei Radiohead hanno suonato i Junun (con Jonny Greenwood dei Radiohead membro del progetto in pianta stabile) e James Blake: entrambe esibizioni buone e applaudite. Quando alle nove e mezza però si sono spente le luci si è capito subito che si cominciava a fare sul serio. Su Daydreaming, apertura abituale di questo tour, le luci si sono spente così come i maxischermi, e la voce di Yorke ha preso possesso della folla. Quella che ci aspettava era una scaletta al limite della perfezione, con sei pezzi dal capolavoro Ok Computer (Airbag, Paranoid android, Let down, Lucky, Exit music e Karma police) e cinque dall’ultimo album A moon shaped pool del 2016 (Daydreaming, Desert island disk, Ful stop, Identikit e The numbers) a comporre la spina dorsale del concerto, con venticinque brani totali.

È stato un continuo alternarsi tra le atmosfere languide e delicate e i tremori elettrici e percussivi, il che corrisponde bene alle due anime del gruppo. Il pubblico è apparso sempre più rapito man mano che passavano i minuti e le ore (due abbondanti alla fine) e ha chiuso in completa trance quando, nell’ultimo di otto bis, Thom Yorke ha lasciato che fosse la gente a intonare il refrain di Karma police. Il cantante ieri era in forma smagliante: divertito, spiritoso nel suo italiano impacciato e con le sue vocette strane tra un brano e l’altro, ma soprattutto con una voce che non ha conosciuto esitazioni o quasi. L’altro grande protagonista sul palco (detto che è difficile cercare lì in mezzo un musicista meno che strepitoso) è stato senza dubbio Jonny Greenwood, che ha cambiato continuamente strumenti, passando dalle chitarre alle tastiere, dal sintetizzatore alle percussioni, con una semplicità e una naturalezza sbalorditive.

Il resto lo hanno fatto le canzoni: oltre alle citate, siamo andati dal coro di Spirit (Fade out) allo sconquasso delicato di There there, come sempre tra i momenti più trascinanti, passando per una rassegna accurata della discografia. L’uscita è stata un po’ più caotica: gran parte di quelle cinquantamila persone volevano prendere la tramvia, ed è ovvio che tutte insieme su quei trenini non c’entravano. Anche l’uscita dai parcheggi è stata un po’ difficoltosa, per lo stesso motivo, ma tutto sommato sono noie che vanno messe in conto quando si fa a concerti in grandi spazi e con tantissime persone.

La conclusione è questa: a Firenze i Radiohead hanno confermato almeno un paio di cose. Primo che l’ultimo disco conteneva una buona manciata di canzoni che non sfigura accanto alle migliori; secondo che dal vivo non vanno mai persi, tranne se avete il saggio di danza di vostra figlia.