Riallacciandomi a quanto scritto nell’articolo precedente, dove ci eravamo lasciati col cercar di analizzare il perché di certi comportamenti e il come raffrontarsi da parte dei soldati della Grande Guerra nei confronti della morte e della guerra stessa, cercherò di ampliare i concetti esposti portando ad esempio alcune testimonianze riportate nei diari o in altri scritti da parte di quelli che furono i veri protagonisti di quell’immane carneficina che fu la Prima guerra mondiale, i soldati e gli ufficiali al fronte.

Abbiamo diversi e a volte opposti atteggiamenti nei confronti del concetto di morte in battaglia o davanti l’evento verso terzi. Questa diversità di approccio dipendeva ovviamente da substrato culturale e sociale da cui provenivano i diversi soggetti interessati; diverso era l’atteggiamento degli ufficiali, nella maggior parte studenti e professionisti rispetto a quello dei soldati per lo più provenienti dal mondo contadino, diverso era l’approccio da parte di tutti all’inizio del conflitto e nel suo proseguo quanto più evidente era il massacro a cui si andava incontro, diversa era l’idea di morire per un ideale o unicamente per volontà di chi comandava.

Come abbiamo detto nel precedente articolo, pochi erano i soldati che avevano una cognizione reale del perché si stesse combattendo contro altri uomini di cui non conoscevano niente se non che “erano il nemico”. Troviamo molte testimonianze di soldati che dopo giorni e giorni di trincea, non essendo mai venuti in contatto diretto con questo nemico, al momento di questo contatto, o per un combattimento corpo a corpo o per l’arrivo nelle proprie linee di prigionieri, si accorgono che quelli “dell’altra parte” non sono altro che poveracci come loro, vestiti degli stessi cenci solo di colore diverso, ma con le stesse facce e le stesse storie. E così diventa ancora più drammatica la loro condizione nel vedersi costretti ad ammazzare uomini simili a loro, quando invece il vero nemico forse erano i capi di stato e quei generali, loro si diversi per censo e mentalità, che li mandavano al massacro. Del resto questo era uno dei pilastri dell’opposizione alla guerra da parte del socialismo internazionale. E il concetto di morte di questa varia umanità non aveva certo niente di eroico e sublime come era stato loro raccontato.

Molto diverso invece il rapporto con la morte in battaglia da parte di tutta quella generazione di studenti inquadrati nell’esercito come sottufficiali, sottotenenti e tenenti, che parteciparono alla guerra spinti da un ideale ottocentesco che era ancora molto vivo negli insegnamenti dei professori a scuola e in molte famiglie della borghesia. “Nelle ore di ginnastica (il professore) Kantorek ci tenne tanti e tanti discorsi, finché finimmo col recarci sotto la sua guida, tutta la classe indrappellata, al Comando di presidio, ad arruolarci come volontari (…). Quando ci presentammo al Comando di presidio, eravamo ancora una classe di ventenni scolari che, con grande presunzione, si fecero tutti insieme radere la barba – alcuni per la prima volta – prima di entrare in caserma. Non avevamo progetti determinati per l’avvenire, solo per l’infima minoranza la carriera e la professione erano già idee così precise da significare una forma di vita: in compenso, eravamo pieni di idee indistinte, che ai nostri occhi conferivano alla vita e anche alla guerra un carattere idealistico e quasi romantico”. Così parte per la guerra Paul Börner assieme ai suoi compagni di classe nel celebre Im Westen nichts Neues di E.M. Remarque. Poi sappiamo tutti come andò finire: “Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di Nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi fosse contento di finire così”.

Simile ma diverso per le motivazioni che lo animavano era invece l’atteggiamento nei confronti della guerra e soprattutto della morte sul “campo dell’onore” da parte di quelli che, spinti da varie motivazioni, come ad esempio l’irredentismo in Italia o il senso di appartenenza alla Patria, o la convinzione che combattere il nemico fosse la cosa giusta per difendere la propria libertà, si arruolarono volontari nelle file di tutti gli eserciti. “Anche a noi combattenti, che ogni momento ci troviamo circondati da pericoli, ci sembra un’ingiustizia enorme, quasi un’infamia il dover morire adesso, oltre che nell’ora della redenzione, sulle porte della nostra città. A noi quasi ci sembra di avere un sacrosanto diritto di veder libero il nostro paese, di chiamarlo tutto col nome fatidico d’Italia; dopo poi, anche il morire c’importa fino a un certo punto”. Così scriveva l’irredento Damiano Chiesa nel 1916 poco prima di essere catturato e quindi processato e fucilato come traditore dagli austriaci.

Abbiamo tantissime altre testimonianze, soprattutto tra la fine della guerra e gli anni trenta, farcite di eroismi, ultimi pensieri per la Patria, quel “dulce e decorum est pro Patria mori” che alimentano una retorica della morte in battaglia che soprattutto in Italia dopo la fine della guerra, fu lo strumento maggiore dal fascismo per esaltare le doti guerresche del soldato italiano. Così in “Guerra Nostra 1915-1918” nel 1933, il Cap. Mario Ceola, già direttore del museo della guerra di Rovereto, ci descrive la morte del Colonello Stennio Achille nelle “desolate paludi del Lissert”: “Io muoio, ma la vittoria è nostra. Viva l’Italia!” con queste nobili parole esalò l’ultimo espiro il colonnello Stenno Achille, medaglia d’oro, che una pallottola di mitragliatrice colpì sulla conquistata trincea nemica, mentre bello di ardire e di eroismo dirigeva i suoi nella lotta”.

A volte queste morti “eroiche” venivano montate ad arte o anche per errore da parte degli ufficiali come ci racconta Carlo Salsa nel suo, mai troppo citato, “Trincee, confidenze di un fante” “Improvvisamente il ferito si leva sui gomiti faticando e urla: Se trovo chi grida ancora Viva la Guerra!... Un tracollo lo butta giù, sui suoi stracci inzuppati: “Ah sì, viva la guerra” ansima con gli occhi inferociti di una bestia che tenti invano di riavventarsi (…) Viva la guerra! Delira: sulla sua agonia queste parole sono rimaste con la fissità delle frasi stolte degli allucinati, con la desolazione di un ultimo grido di naufrago. Il tenente colonnello sbuca dalla trincea e s’accosta. Osserva il ferito puntando le mani sulle ginocchia. “Via la guerra” grida ancora il morente. Poi di colpo si accascia e resta lì di schianto. “È morto!” Borbotta Sangiorgi dopo un istante di ascoltazione. Il tenente colonnello si inalbera e dice: “È morto da eroe, gridando Viva la guerra”. Ma quasi sempre l’ultimo pensiero dei moribondi era, come era giusto che fosse, per la propria casa, per i genitori, la madre in particolare e per i figli e le spose.

Altri soldati, anche se motivati politicamente ed idealmente ad entrare in guerra, vedono la morte in battaglia né “bella” né dolorosa, ma con un malcelato distacco, come una tragica fatalità. “Stamani all’alba l’8a compagnia è venuta a darci il cambio. Durante l’operazione, una pallottola sola di una vedetta austriaca ha ucciso due dei nostri: Massari, un richiamato ferrarese dell’84 – un soldato bravo, disciplinato, volonteroso, che era stato con me in trincea sullo Jaworcek – e Manucci. Sono caduti senza un grido, sul margine inferiore del camminamento. Colpiti entrambi alla testa. Dai buchi uscivano fiotti di sangue che invermigliava la neve. Fatalità”. Questo scriveva Benito Mussolini, nel suo Diario di guerra 1915 -1917.

Malcelato distacco che però gli fa scrivere: “Lungo le rive del lago ci sono dei frammenti di membra umane. Nella selletta due cadaveri di austriaci stanno decomponendosi. Poco lungi, un altro morto insepolto. Giungono, col vento della sera, ondate di tanfo di cadaveri. Nella selletta ci sono due cimiteri: uno austriaco e l’altro italiano: ieri una grossa granata disseppellì alcuni morti. Macabro. Ora comprendo come il solo nome di Doberdò terrorizzi gli honved ungheresi – pronto però a riprendere subito quell’atteggiamento stomachevolmente retorico che lo aveva fatto arruolare come volontario - Espugnare quelle rocce: quale meravigliosa pagina di eroismo latino!”

Ad ogni modo per come la si voglia guardare, o per come ci venga raccontata, la realtà era quella che conosciamo tutti. Si moriva senza sapere il perché, e poteva accadere in ogni momento, si era certi del proprio destino come quelle “foglie d’autunno sugli alberi” di ungarettiana memoria. Si moriva tra atroci sofferenze e dopo patimenti infiniti. Si spirava tra le braccia dei commilitoni o di una infermiera, maledicendo Cadorna e il Re che avevano voluto tutto questo. Si moriva anche senza lasciare più alcuna traccia di sé stessi, dissolti nell’aria in seguito ai bombardamenti, affondati con la propria nave in seguito a siluramento o caduti in un crepaccio di qualche ghiacciaio. Di questi ultimi che furono catalogati come “dispersi” perché di essi non restò un solo brandello di carne, né un piccolo lembo di stoffa, nessuno ci raccontò mai nulla, se non che ci sono stati… un numero tra i tanti nei ruolini degli ufficiali. I corpi dei caduti rimanevano a marcire nella terra di nessuno e la convivenza tra vivi e morti diventava di una normalità agghiacciante, come visto nel precedente articolo.

Concludo con le parole scritte da Giuseppe Personeni nel libro La guerra vista da un idiota: “E pensare che tante madri a casa crederanno che i loro figli saranno seppelliti con una croce di legno: Ah! se le madri fossero qui a vedere lo strazio che si fa delle loro membra, quante teste perderebbero la corona e quante corone perderebbero la testa! Luigi XVI sta aspettando con ansietà i suoi colleghi, riderebbe se avesse ancora la testa per ridere”.

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