La fotografia è il nostro sguardo cangiante sul mondo,
e talvolta uno sguardo sul nostro stesso sguardo.

(Hans Belting)

Il percorso artistico di questa giovane fotografa siracusana parte da lontano, addirittura dalle mura domestiche. Attratta irresistibilmente dall'affaccendarsi del padre con la macchina fotografica e dal suo continuo girare intorno a luoghi ed eventi, Chiara Antoci sviluppa molto presto un interesse che non è spirito di emulazione o semplice curiosità infantile, ma autentica vocazione. «Osservavo la sua camera sempre chiusa», racconta lei stessa parlando del genitore, «all'interno della quale sparivano i rullini e come per magia ne uscivano le foto». Ed è proprio questo status di magia concesso in tenera età al mezzo fotografico che determina in lei la volontà di proseguire sulle orme del padre: «Volevo far mio quel processo magico, e quindi iniziai a fargli da assistente, a seguirlo nei suoi spostamenti per imparare da lui il più possibile. In tal modo», continua poi Chiara, «ho intrapreso il mio cammino personale o ho scoperto il mondo attraverso la fotografia».

Il voler interpretare la realtà per mezzo delle immagini è un desiderio che anima l'uomo da tempo immemorabile, tanto più dopo l'avvento della dagherrotipia e dei suoi successivi sviluppi tecnici. Nella raffigurazione del mondo la fotografia copre una piccola porzione cronologica, ma, da quando il mondo può essere fotografato, ha subito ai nostri occhi una profonda trasformazione. Non a caso, come sottolineato giustamente da Hans Belting nel suo fortunato saggio Antropologia delle immagini, al suo apparire la fotografia rappresentò la vera icona della Modernità, poiché permise di strappare le immagini al flusso della vita e di renderle immediatamente tangibili [1]. In seguito, e tanto più negli ultimi decenni, si è provato in tutti i modi ad annullare questa ipoteca, fissando due possibili estremi entro i quali inglobare la “vecchia” e la “nuova” fotografia: da un lato un prodotto documentaristico della realtà e dall'altro un tentativo di superare la realtà per approdare all'immaginario e persino al virtuale. Tuttavia, questa pretesa configurazione diventa improduttiva, tanto più se consideriamo che nemmeno nel passato la fotografia ha mai rappresentato fattualmente il mondo, bensì lo sguardo che un singolo artista riversa di volta in volta sul mondo.

Di fronte agli scatti di Chiara Antoci appare abbastanza palese che un tale sguardo sia consapevolmente personale, e che in esso possano ben coesistere tanto la verità quanto la bellezza della fotografia – in altre parole, tanto l'impressione soggettiva quanto l'espressione oggettiva di ciò che viene catturato dall'obbiettivo. La sua imago mundi ruota intorno al corpo umano, considerato via via nella sua interezza, in singole porzioni o proiettato simbolicamente nello spazio. La storia della rappresentazione umana è sempre stata anche rappresentazione corporea, e di conseguenza al corpo è toccato il ruolo di trasmittente di un'essenza sociale. Ecco che da queste foto scaturisce una sensibilità antropologica che non è mai fine a se stessa, ma che si lega indissolubilmente al nostro contesto storico-sociale.

In Paura del tuo sguardo, ad esempio, o in Agguanta la mia gonna – scatti che provengono da una serie del 2014 intitolata significativamente Diversità e integrazione – la valenza sociale o civile della rappresentazione si fa subito esplicita. In entrambi i casi, un trittico tutto femminile: una coppia omosessuale con la propria figlia. «Sono scatti molto semplici», ci dice Chiara, «ma toccano l'animo dei più sensibili, giacché la diversità spaventa e le difficoltà d'integrazione derivano proprio dalla paura e dall’odio nei confronti del diverso. Si tratta di sentimenti che nascono da retaggi culturali e religiosi, benché negli ultimi anni sia cresciuta l’esigenza di far uscire allo scoperto tale diversità di natura sessuale per spogliarla del suo valore negativo».

Un discorso analogo può essere fatto per Anima e Donna – foto che provengono dalla serie Immigrazione del 2012 – le quali mostrano delle figure femminili coperte dal niqāb, il tipico velo saudita. In accordo con l'unica parte visibile del corpo, l'obbiettivo imprigiona solamente gli occhi di queste donne, mettendone in evidenza un doppio piano concettuale: da una parte l'autenticità e irripetibilità del singolo sguardo, nel caso specifico quello che in Occidente viene percepito appunto come diverso perché proveniente da un contesto culturale lontano dal nostro modello; dall'altra parte l'inefficacia delle tesi volte a favorire la distanza dal diverso, poiché lo sguardo è anche la dimostrazione di ciò che accomuna gli esseri umani – e le creature viventi in genere – e li rende biologicamente simili gli uni agli altri.

In Fuga I e Fuga II, al contrario, ciò che resta precluso all'osservatore è proprio lo sguardo del soggetto rappresentato. «L'intima essenza della vita rimane ignota», afferma ancora una volta la giovane fotografa siciliana, «e tutto ciò che possiamo asserire con certezza è che la vita universale è un continuo alternarsi di trasformazioni, di fenomeni. Ciò che ne consegue è il continuo, eterno bivio di fronte alla vita e alla morte. Questo porta a una fuga, alla fuga della creatura raffigurata nelle mie foto, la quale si contorce si muove si arrampica e si nasconde dietro i suoi lunghi capelli neri, tanto che riusciamo appena a scorgerne il viso. Ha paura di farsi scoprire o cos'altro?»

Luci e ombre sembra proseguire lungo il medesimo filo rosso, mettendo in scena un'altra classica dicotomia, quella fra lux e tenebris. «Per raggiungere la luce occorre attraversare il buio», aggiunge Chiara, «e questi due poli sono rappresentati nell'immagine da un tunnel». Le neuroscienze hanno mostrato come i nostri organi di senso non si siano abbastanza evoluti per rappresentare in toto l’enorme varietà e ricchezza del mondo e coglierlo nelle sue pieghe più recondite. Per questo il processo dell’esperienza cosciente non è tanto un’immagine della realtà quanto piuttosto un tunnel attraverso di essa [2]. «La metafora visuale», conclude lei, «rimanda al travagliato percorso che porta alla meta finale. Ma cosa c'è alla fine? Due figure indistinte, di cui non sappiamo nulla. Possono essere spiriti guida, angeli custodi oppure delle proiezioni di noi stessi».

[1] Cfr. Hans Belting, Antropologia delle immagini, Roma, 2011, p. 258.
[2] Cfr. Thomas Metzinger, *Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto, Milano, 2010.