Sono trascorsi ben trentasei anni dalla pubblicazione de Il nome della rosa: un successo editoriale del 1980, senza precedenti. Riproposto nel 2002 come primo volume nella collana della Biblioteca di Repubblica, rinnova clamorosamente il grande favore del pubblico; a infiammare di nuovo tanto interesse è certamente anche il film tratto dal romanzo, affidato al fascino di uno strepitoso Sean Connery e ad atmosfere cupe e dense di mistero di sicura suggestione. Uscito nel 1986, il film transita dalle sale cinematografiche alla Rai riscuotendo un altissimo gradimento.

Con la scomparsa di Umberto Eco, il libro è ancora una volta nelle edicole insieme alle sue opere più famose: un'occasione per tornare alle pagine di un romanzo tanto venduto, regalato e probabilmente anche letto. Così ci s’immerge di nuovo nel mondo affascinante, a tratti solenne a tratti intrigante, di una grande abbazia benedettina di un imprecisato sito dell'Italia settentrionale intorno all'anno 1321. E rileggendolo, prendendo un po’ le distanze dalla trama avvincente, scopriamo che un luogo governato da preghiera, cultura, operosità, ospitalità, rispetto di regole ferree, dedizione alla salvaguardia delle fede e delle scritture antiche, è sotterraneamente, e spesso invisibilmente, minato da dissidi confessionali che dividono dolorosamente le vie per arrivare al medesimo Dio, da contrasti e gelosie rigorosamente taciute, da inestricabili intrighi.

Nonostante tutto, l'abbazia appare comunque luogo assai protetto e ben difeso dall’esterno di un mondo terribile, dove regnano sopruso, povertà, fame, crudeltà, rapina, assassinio; un mondo dove vagano masse di disperati esposti e pronti al delitto, così come raccontano ai protagonisti l'indagatore Guglielmo di Baskerville e il suo aiutante il giovane Adso, Salvatore, uno strano monaco che, prima di trovare ricovero e riparo nell'abbazia, ha vissuto vicende tragiche che lo hanno fatto girovagare per l'Europa, incrociando un’umanità variegata e disperata, fatta, come scrive Eco di “falsi monaci ciarlatani, pezzenti e straccioni, lebbrosi e storpiati, ambulanti girovaghi, studenti itineranti, bari, giocolieri, cantastorie, chierici senza patria, giudei erranti, scampati dagli infedeli con lo spirito distrutto, folli, fuggitivi colpiti da bando, malfattori con le orecchie mozzate, sodomiti, manigoldi di ogni risma, falsari di bolle e sigilli papali, indovini e chiromanti, falsi questuanti”. Un cosmo nel quale la vita di un uomo conta come quella di un insetto.

Al centro dell'abbazia ci sono spezieria e biblioteca con annesso scriptorium nel quale i monaci sono intenti alla trascrizione dei testi antichi. Spezieria e biblioteca sono accessibili solo agli addetti: allo speziale e al bibliotecario. Guai se tutti avessero dimestichezza con le erbe medicamentose, con la conoscenza dei rimedi ai malanni, con la capacità di creare tisane e creme o con la manipolazione dei veleni! Solo lo speziale può conoscere e custodire segreti che, se svelati e diffusi, metterebbero in pericolo la vita e la salute di tutta comunità. La conoscenza dell'arte medica rappresenterebbe un serio pericolo se uscisse dal chiuso della spezieria per diventare di dominio pubblico.

Guglielmo di Baskerville spiega il perché al suo aiutante Adso: talora è bene che certi segreti restino coperti e difesi da discorsi occulti, non perché debbano sempre rimanere tali, ma perché spetta ai sapienti decidere come e quando svelarli. Non diverso il compito del bibliotecario. “La biblioteca è testimonianza della verità e dell'errore” dice a un certo punto il più arcigno e conservatore dei monaci, il terribile e temibile Jorge la cui cecità sembra acuire la sua possibilità di scrutare nell'animo degli altri. La biblioteca è, come la spezieria, densa di segreti. I suoi libri non sono mai stati dati in lettura ai monaci; sono pericolosi, perché contengono, mescolate insieme, la verità e la menzogna. Perciò può accedervi solo il bibliotecario. Violare il divieto è difficilissimo: gli accessi di notte sono sbarrati e protetti da passaggi segreti che nessuno conosce. E quanto anche fosse scoperto il percorso segreto, come accade ai protagonisti del romanzo, a Guglielmo e ad Adso, ci si troverebbe in un complicato labirinto, di stanze e di corridoi inestricabili. Sicché, una volta addentrativisi rocambolescamente nottetempo, i trasgressori resterebbero fatalmente intrappolati senza via di uscita, scoperti al successivo mattino e severamente puniti per la gravissima trasgressione, sempre che non riescano a trovare, per ingegno e per fortuna, un escamotage come accade ai nostri protagonisti. Libri, manoscritti, bibliotecari, divieti violati sono al centro della corrusca vicenda di delitti che si sviluppa nel romanzo di Eco.

La vita di un'abbazia come quella de Il nome della rosa, in qualche modo, può condizionare un lettore sensibile e portarlo a immaginare che nella pace maestosa di tante abbazie di oggi, sparse nella nostra Europa, possano celarsi tremendi segreti del passato e forse vicende attuali inimmaginabili in luoghi di pace, di religione, di devozione, di cultura. Può insomma sgomentare il lettore di questo straordinario romanzo l'idea che una biblioteca possa essere servita più a controllare e inibire l'accesso ai libri e alla lettura, che non a favorirne la diffusione; potrebbe allora venirgli il sospetto che anche oggi per paura della libertà della lettura o, forse, più concretamente, di ladri di libri, potrebbe ripetersi questo atteggiamento di proibizione.

Oggi, per fortuna, le spezierie monastiche non hanno più segreti da custodire, hanno invece da raccontare la loro storia e da offrire i loro prodotti benefici. E le biblioteche monastiche e religiose? Quando è possibile, e come è possibile, cercano di stare aperte, di ricevere lettori e di promuovere la lettura, ma corrono qualche rischio. La biblioteca dell'abbazia de Il nome della rosa aveva i suoi motivi, discutibili o meno, per chiudersi a riccio a tutti. Non correva perciò il rischio di essere presa di mira da un grande progetto, forte di un grandissimo finanziamento, e dalle fantasie un architetto, sensibile a leggi di mercato, per essere museificata e resa visibile più che consultabile: cosa che accade nei nostri tempi sia all'abbazia di Massombrosa, posto di fantasia del romanzo Il vecchio che parlava alle piante, sia alla gloriosa biblioteca dei Girolamini di Napoli, posto reale e sofferente, sul quale dopo il dolore e la profanazione del saccheggio dei libri, ben noto grazie alla risonanza sulla stampa, si abbatte anche il dolore e il tradimento di una museificazione in atto, che renderà difficilissimo, se riuscita, ottenere e dare i libri in lettura. Un tradimento che potrebbe addirittura far rimpiangere una biblioteca alla quale nessuno può accedere: come quella dell'abbazia de Il nome della rosa.