Capannoni svuotati dalla crisi, villette “geometrili”, outlet disadorni, non luoghi del commercio spregiudicato conducono l’abitante de-localizzato allo spaesamento della “comunicazione interrotta” con il territorio. Cerco tra questa disarmonia di forme mute una traccia di memoria, un lacerto “significante” ma resto ammutolita dall’incombente modernità arrivata come corrente globale che semina detriti apocalittici. I censori del lamento sono intolleranti e dimentichi dei “vissuti primi” [1], del magma filosofico che muove gli intenti e le intuizioni estetiche, abortite dall’interesse di oligarchi bizzarri ed egotisti.

Dal volume 147 della collana La Gaja scienza, anno 1958, Giovanni Comisso, La mia casa di campagna: Il ventinove settembre del 1930 comperai dagli eredi di un pittore una campagna di sette ettari e mezzo, vicino a Treviso, in una località chiamata: Conche di Zero Branco. Era destino che quella terra venisse barattata con l’arte: quel pittore l’aveva comprata coi suoi quadri e io con oltre cinquanta articoli scritti durante il mio viaggio nell’Estremo Oriente.

Comisso, scrittore italiano errante per l’italia, come lui stesso si definisce, avrà una rivelazione, nonostante il fallimento di un’impresa estrema, quella di diventare conoscitore della terra come gli abitanti di Zero Branco, piccolo centro del trevigiano. Il paesaggio gli appare essere umano, la terra respira come gli "humana", ha le sue ossa di roccia, le sue muscolature di ghiaia, tracciate dall’impeto dei torrenti nei primordi, ha la sua carne rossa per antichi boschi distrutti o nera di paludi interrate, e le sue vene d’acqua che fluiscono dai solchi innumerevoli dentro questa carne vegetante e ai fossi verdastri tra i campi [2].

Ma c’è altro ancora, l’entusiasmo ingenuo di fronte all’insediamento armonizzato con l’ambiente, come se il paesaggio originario fosse in una sorta di “attesa dell’umano”; Comisso scrive di un Veneto felice “[...] io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte del mio sangue. Penetra per i miei occhi e mi incrementa di forza. Forse la ragione dei miei viaggi per il mondo non è stata altro che una ricerca di paesaggi, i quali funzionavano come potenti richiami” [3]. E’ un autore che esce dal novero dei grandi scrittori del ‘900 forse perché irregolare nella vita, non schierato nelle correnti nazionalistiche o perché libertino, omosessuale. I suoi testamenti emotivi sono numerosi e sempre ispirati alle ambientazioni di luoghi che nutrono l’ispirazione narrativa.

E si colloca in una regione, quella Veneta, che nel Novecento ha conosciuto una serie di scrittori “esuli”, nomadi più che sedentari, outcast più che abitanti, cronisti e osservatori di un paese che cambia, di un paesaggio da cui allontanarsi per comprenderlo nel suo spaventoso divenire altro. Guido Piovene durante il suo viaggio italiano, da antropologo rabdomante, profetizza un disastro annunciato, e Goffredo Parise lascia il Veneto per un continuo viaggio ispiratore della sua opera letteraria, vi ritornerà per il distacco finale dal mondo. Ma qual è il vero luogo del nostro stare ? si interroga Andrea Zanzotto nel saggio La memoria della lingua, pubblicato nel 1999 [4].

Il distacco fisico o meramente mentale dal luogo di origine, forse troppo amato, è condizione necessaria per una visione da “altri punti prospettici” (A. Zanzotto), per cogliere con uno sguardo indietro un percorso difficoltoso che acquista via via nitidezza solo una volta che ci si è allontanati. Quasi come l’elaborazione di una relazione paterna, complicata e sofferta, che trova la pacificazione e il perdono a posteriori, dopo l’estremo saluto. Quando forse per tornare è ormai tardi e resta una sorta di rimpianto per ciò che non si è fatto o non si è compreso. Come l’esilio obbligato di Calvino dalla casa delle due culture, quella di Sanremo, la punta di Francia: Ora sì, dall’alto degli anni, vedo ogni fascia, ogni sentiero, ora potrei indicare la strada a me che corro tra i filari, ma è tardi, ormai tutti se ne sono andati. Certo adesso avrei potuto pure cercare dei nomi veri, invece di inventarli, magari riscoprire quali erano in realtà le piante che mio padre andava nominandomi; ma sarebbe stato barare al gioco, non accettare la perdita che mi sono io stesso inflitto, le mille perdite che ci infliggiamo e per cui non c’è rivincita [5].

L’esule Zanzotto è invece stanziale fisicamente, avrei molto desiderato viaggiare, come hanno fatto Comisso, Piovene e Parise [6] , e si duole di questa sua stanzialità, attribuita a difficoltà legate alla salute. In realtà in lui è radicata la convinzione che Solo un lungo esercizio di spostamenti, eradicazioni, rotture di ogni accertata prospettiva e abitudine potrebbe forse portarci nelle vicinanze di questi luoghi [7]. I luoghi, come gli dèi, afferma Zanzotto, sono i nostri sogni, citando Yves Bonnefoy.

Affiora un desiderio di “volgersi”, di “smarrirsi”, di defilarsi, tra le righe ritmate da un incessante desiderio di reazione al senso di impotenza mai rassegnata. L’allontanamento dal quotidiano “distratto” e indifferente alla demolizione lenta e inesorabile della natura … sempre più violata, è volontario (per uno sguardo unificante, capace di acquetarsi nella contemplazione del mondo accettato e superato dall’alto, più che dal di dentro) e indotto al tempo stesso, quando la proliferazione urbana e la distruzione delle foreste è incurante al grido scoraggiato del poeta.

Zanzotto sente come Petrarca la spinta a scrivere come un dovere, oltre che una necessità, cui non potevo sottrarmi perché qualcuno stava parlando proprio a me, e mi sembrava di essere partecipe di una verità in atto e quasi sul punto di esclamare anch’io, come Petrarca, ecco finalmente ho detto la verità (anche se era una verità provvisoria e scivolosa, sfaccettata, “mutante”) [8]. Come afferma Stefano Agosti nell’introduzione a una raccolta di poesie di Zanzotto, scritte tra il ‘68 e l’86, nel crollo dei significati autentici, solo la sillabazione grammaticale dell’Io risulta depositaria di verità. In questo scollamento tra mondo ed esperienza, con il sovraccarico della tensione etica e individuale, si configura il terrore quale condizione della consapevolezza storica [9]. Nella Beltà, raccolta di componimenti pubblicati nel 1968, si rompe il rapporto significante/significato (Hölderlin: “siamo un segno senza significato” [10]) nel quadro della sua ricerca di una verità potenzialmente globale in cui origine della natura e origine dell’io si incontrino, il paesaggio non appare più solo come bellezza in sé ma potenza gravitazionale enigmatica. Che sarà della neve/che sarà di noi ? […] Che sarà della neve, del giardino, che sarà del libero arbitrio e del destino e di chi ha perso nella neve il cammino [11].

Nei successivi lamenti tutto poi risulta mutato e mutilato in una vera e propria “strage” pur senza volerlo, dice il poeta, a cui appare tutta intera la desolazione della terra stanca di se stessa, impelagata e stagnante. Bisogna capire - profetizzava nel 1962 – che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi l’abita [12].

La mia povera vita
si fa grande di tante
profonde fantasie di colline

(primavera 1952)

Per strette strade
In labirinti lerci che brucian di commerci
infiltrando di polveri sottili
di ceneri sottili
gli intimi fili
del nihil.

(febbraio 2005)

Note:
[1] Intesi come paesaggi da Zanzotto A. Il paesaggio come eros della terra, in Per un giardino della terra , a cura di Pietrogrande A. , Firenze, Olschki, 2006, pp. 3-7.
[2] Comisso G., La mia casa in campagna, Longanesi, Milano, 1958
[3] Comisso G., a cura di N. Naldini, Veneto felice, Prefazione, pp. IX-X, Longanesi, 2005
[4] Zanzotto A., La memoria della lingua, in Viaggio nelle Venezie, Giuseppe Barbieri (a cura di), Biblos, Cittadella, 1999, pp. 456-459
[5] Calvino I., La strada di San Giovanni, Mondadori, 1995, pag. 12
[6] Zanzotto A., Tra viaggio e fantasia in Venezia e le altre. Scrittori nel mondo del Veneto e scrittori veneti nel mondo, Raoul Bruni (a cura di), Padova, il Notes Magico, pp. 13-20
[7] Zanzotto A., Venezia forse, in Essere Venezia di Roiter F., Udine, Magnus, 1977
[8] Zanzotto A., Verso-dentro il paesaggio, in Luoghi e paesaggi, Bompiani, 2013 pp. 67-68
[9] Zanzotto A., Poesie (1938-1986) , introduzione Agosti S., Mondadori, 1993
[10] Zanzotto A., Si ancora la neve. Da La Beltà, Mondadori, Milano, 1968
[11] Zanzotto A., Si ancora la neve. Op. cit.
[12] Zanzotto A., Architettura e urbanistica informali in Il grigio oltre le siepi, Vallerani F., Varotto M. (a cura di), 2005, Nuova Dimensione, Portogruaro (Ve), pp. 152-157