Nel 1973, nel cuore del Parco Sempione a Milano, Alberto Burri realizza il Teatro Continuo, un’opera che sfugge alla categorizzazione tradizionale di scultura, palco o installazione. Costituito da sei quinte in acciaio e cemento, il Teatro non ha platea, né attori designati: è un dispositivo aperto alla città, che mette in scena la vita quotidiana come rappresentazione spontanea e plurale. Il gesto di Burri è radicale: sovverte la gerarchia della scena, democratizza il teatro, lo fa coincidere con lo spazio urbano e ne rinnova il senso. In continuità con la riflessione sul teatro di strada, sull’happening e sull'architettura come scrittura scenica, il Teatro Continuo diventa pretesto per reinterpretare l’intera storia dell’architettura teatrale come narrazione incarnata nello spazio.

L’architettura è sempre stata sceneggiatura urbana. Dalla città ideale del Rinascimento fino alle derive barocche, ogni progetto costruito porta con sé un’ipotesi di vita, una grammatica dello stare insieme, una regia dell’esperienza umana. In questo senso, la città è una rappresentazione della libertà e insieme un collante sociale, un dispositivo di appartenenza. Il teatro, con le sue strutture mobili e permanenti, i suoi rituali collettivi, ha da sempre incarnato questa funzione: fare della realtà una messa in scena simbolica, partecipata e condivisa.

Nel Seicento barocco, l’architettura effimera diventa la forma per eccellenza di questa drammaturgia urbana. Nelle corti europee, artisti e architetti danno vita a un mondo fatto di illusioni prospettiche, apparati di legno e cartapesta, macchine sceniche che sollevano dèi e mostri tra nubi dipinte. L’effimero non è solo decorazione: è potere che si manifesta, fede che si fa spettacolo, comunità che si riconosce in una festa. Nelle cerimonie pubbliche – incoronazioni, matrimoni, processioni – la città si trasforma in teatro, la scenografia diventa architettura politica. A Roma, Bernini e Borromini disegnano apparati per canonizzazioni papali; a Firenze, Buontalenti crea scenografie mobili nei cortili dei Medici; a Parigi, il Palais Royal ospita le macchine di Lully e Molière, mentre a Madrid o Vienna si alzano catafalchi monumentali e fontane di luce per le nozze reali e le vittorie militari.

L’architettura effimera non è mai sola: nasce sempre da un intreccio di arti. Pittori come Caravaggio a Napoli partecipano alla costruzione della scena attraverso dipinti che sono vere e proprie “mise en scène”, come la celebre Giuditta che decapita Oloferne, pensata per una fruizione teatrale, fortemente gestuale e coreografata. I “masques” inglesi, i balletti francesi, gli intermezzi italiani diventano il laboratorio della spettacolarità moderna. I fondali scenografici si moltiplicano, spesso realizzati con prospettive illusionistiche che creano profondità infinite su tele leggerissime. I progettisti si muovono tra le corti come artisti itineranti, veri professionisti del meraviglioso: pittori, scenografi, architetti e ingegneri uniti nel disegno della festa. Lavorano per eventi specifici e temporanei: battesimi dinastici, funerali di Stato, processioni religiose, trionfi militari. Si chiamano Gian Lorenzo Bernini, Giulio Parigi, Ferdinando Galli Bibiena, Ludovico Burnacini. La loro arte è totale, effimera, magniloquente.

Tra questi maestri della scena, spiccano figure come Giacomo Torelli e Nicola Sabbatini, autori di trattati e invenzioni meccaniche che rivoluzionano la scenotecnica. Torelli, detto il "gran stregone", introduce il sistema delle scene mobili a carrello, che permette mutazioni rapide dell’ambiente scenico. Sabbatini, con il suo Pratica di fabricar scene, codifica un’intera grammatica delle macchine teatrali, anticipando la logica ingegneristica dello spettacolo moderno. Le loro invenzioni sono presenti in tutte le corti: il teatro diventa una macchina del mondo, dove lo spazio si trasforma sotto gli occhi stupefatti dello spettatore.

La Commedia dell’Arte nasce in questo contesto, ibrido e mobile. Le prime compagnie sono itineranti, i palcoscenici improvvisati nelle piazze. Le maschere codificate – Arlecchino, Pantalone, Colombina – diventano simboli di una teatralità popolare ma raffinata, capace di improvvisazione e satira sociale. Con il tempo, la Commedia si istituzionalizza e si fonde con il melodramma nascente. Gli attori diventano cantanti, le piazze si trasformano in teatri stabili, l’oralità diventa partitura. A Firenze, Peri e Caccini inventano l’opera; a Mantova, Monteverdi la porta a compimento con L’Orfeo, una narrazione mitologica in musica e scena; a Parigi, Lully la trasforma in grande spettacolo di corte sotto il segno del Re Sole. Il melodramma è la nuova forma della città teatrale: somma di parole, musica, gesto e architettura.

Il teatro barocco non si accontenta più di imitare il reale: lo trasfigura. Le scenografie si allargano oltre il palcoscenico, invadono le strade, i giardini, le chiese. Bernini firma regie teatrali a Palazzo Barberini, ma anche l’apparato per la canonizzazione di Santa Bibiana, una scena totale che unisce scultura, luce, architettura e performance. L’architettura diventa un atto drammatico, una sequenza narrativa costruita per emozionare. Non esistono più confini tra scena e città, tra attori e spettatori.

Questa tradizione, apparentemente superata con l’avvento della modernità, riemerge con forza nel XXI secolo. Tra il 2012 e il 2015, la Los Angeles Philharmonic avvia un progetto visionario: mettere in scena tre opere di Mozart – Così fan tutte, Don Giovanni, Le nozze di Figaro – affidandole a grandi architetti e designer. Il teatro torna ad essere dispositivo di spazio e racconto, e l’opera un laboratorio multidisciplinare. Frank Gehry, progettista della Walt Disney Concert Hall, disegna un Don Giovanni giocato sulla deformazione plastica del fondale, in collaborazione con Rodarte per i costumi. Jean Nouvel firma una Nozze di Figaro immersa in uno spazio onirico, dove le trasparenze architettoniche creano una scena fluida e ambigua. Zaha Hadid, infine, immagina per Così fan tutte un universo liquido e digitale, insieme allo stilista Hussein Chalayan: la scena diventa un ambiente cibernetico, sospeso tra realtà aumentata e performance live.

Ma se il teatro è da sempre dispositivo di narrazione e partecipazione collettiva, la sua origine affonda nel cuore stesso della democrazia. Il teatro greco nasce come spazio di cittadinanza attiva e didattica, all’interno delle festività religiose in onore di Dioniso. Le rappresentazioni tragiche e comiche non erano puro intrattenimento, ma strumenti educativi, luoghi dove la polis si interrogava su sé stessa. L’esperienza teatrale nasce dalla fusione di due impulsi antitetici: l’apollineo e il dionisiaco, come scrive Nietzsche ne La nascita della tragedia. L’apollineo è misura, razionalità, ordine; il dionisiaco è estasi, caos, fusione. La tragedia, sintesi sublime dei due, rappresenta l’abisso della condizione umana: visione estetica e catarsi emotiva.

Ancora oggi, gli antichi teatri all’aperto – come quelli di Epidauro, Siracusa, Agrigento – ospitano rappresentazioni classiche, in una tensione tra memoria e contemporaneità. La pietra antica risuona di parole nuove, la scenografia dialoga con il paesaggio. Ma il teatro contemporaneo deve affrontare nuove sfide: la scarsità dei fondi pubblici, la crescente disaffezione delle nuove generazioni, la concorrenza dei media digitali. In contesti autoritari, il teatro è spesso il primo a essere colpito, perché veicolo critico, corpo vivo, voce libera. Può diventare strumento di propaganda o essere ridotto al silenzio. Eppure, proprio in questi momenti, riafferma la sua funzione più profonda: essere specchio, coscienza, resistenza.

Nel mondo di oggi, molti artisti e istituzioni provano a rilanciare il teatro come spazio di inclusione, immaginazione e cittadinanza. Festival, progetti educativi, sperimentazioni scenotecniche cercano un nuovo pubblico, un nuovo lessico. L’insegnamento che ci viene dal barocco, dai greci, da Burri, è che il teatro vive finché è spazio condiviso. L’architettura, come sceneggiatura della vita collettiva, può restituirci ancora oggi un orizzonte di libertà. E forse proprio da un palco vuoto, da una quinta di cemento e luce come quella di Burri, può ricominciare il racconto.