Una delle frasi più citate, quando si tratta di cercare di capire come affrontare situazioni mutevoli, è:
Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento.
Generalmente attribuita a Darwin – forse perché Darwin lo vediamo come uno che di specie se ne intendeva – fu probabilmente un economista, Leon C. Megginson, che, da buon divulgatore nel campo dell’economia e della gestione, forse ispirandosi al pensiero di Darwin, la “infilò” in qualcuna delle lezioni che teneva tra il 1950 e il 1960, alla Louisiana State University, come professore di management.
Un altro concetto ormai entrato nei nostri modi di dire è quello del Cigno Nero: un’idea che nacque ispirandosi alla sorprendente scoperta appunto di cigni neri avvenuta in Australia nel Seicento – quando si era invece convinti che tutti i cigni non fossero, e non potessero che essere, bianchi.
Così, in tempi molto vicini a noi, il Cigno Nero è diventato l’evento imprevedibile utile a mostrarci che è proprio l’imprevedibile a caratterizzare alcuni momenti della storia: il crollo di Wall Street nel 2008, e, in parte, la pandemia di COVID (che, più che imprevedibile in sé, lo fu per le risposte, molteplici e spesso divergenti, che ne seguirono) sono, appunto, esempi di “cigni neri”.
A inventare questa locuzione è stato un altro economista – ma anche filosofo, matematico, saggista: Nassim Nicholas Taleb, nato in Libano nel 1960 e naturalizzato statunitense.
Che è anche il “padre” del concetto di antifragilità, con il quale offre una risposta a tutti i cigni neri che incontriamo, e incontreremo ancora: nel momento in cui scrivo, ad esempio, una guerra di invasione territoriale in un secolo in cui il territorio era diventato un concetto sostanzialmente solo geografico; o un’azione di annientamento in quello stesso secolo, che si era finora illuso di essersi lasciato alle spalle qualsiasi guerra di “purificazione” – almeno in questa parte del mondo.
Con il saggio Antifragile. Prosperare nel disordine, Taleb suggerisce che è possibile ed anzi necessario superare la dicotomia tra fragile (ossia ciò che si rompe se sottoposto ad adeguata pressione) e robusto (ciò che resiste ma non cambia), per aprirsi al concetto di, appunto, antifragile: qualcosa che migliora anche se in maniera insospettata e forse insospettabile “grazie” e non “nonostante” lo stress e il disordine.
La teoria, nata nel 2012 nell’ambito di un ciclo di libri che Taleb ha significativamente intitolato “Incerto”, è, in estrema sintesi, che esistono cose che migliorano proprio perché vengono scosse, urtate, rotte. Ossia, cose che non resistono al disordine, ma trovano il modo di prosperarci dentro.
In fondo, un’idea analoga sta alla base delle affermazioni fatte da Gilles Clément- ingegnere agronomo, scrittore e filosofo del paesaggio - già nel 2004, e proseguite dopo il 2014 con la riflessione sulla città degli avanzi, dove ciò che Taleb avrebbe poi chiamato antifragilità “lavora” lo spazio urbano degradato o abbandonato, non per rimuovere ciò che è stato scartato, ma usandolo per generare nuove forme.
Così le prospettive apparentemente slegate in tutto ciò che siamo venuti dicendo fin qui rivelano un punto comune: l’attenzione non su ciò che resiste cancellando il disordine, ma su ciò che, adattandosi a circostanze inaspettate, riesce a trasformarle in possibilità.
Alla Biennale di Architettura di Venezia (10 maggio–23 novembre 2025), molte delle riflessioni fin qui evocate prendono forma concreta nell’installazione intitolata Anti‑Ruin: progetto ideato dallo studio londinese OZRUH e sviluppato da Pietro Odaglia (Senior, ETH Zurich), in collaborazione con Danae Polyviou (ingegnera strutturale, fondatrice di formDP), e con il laboratorio di Digital Building Technologies dell’ETH di Zurigo, diretto dal Prof. Benjamin Dillenburger.
A documentare l’intero processo è un cortometraggio, firmato da Troy Edige e Beyza Mese, che segue lo sviluppo dell’opera tra ricerca, fabbricazione e montaggio, mettendo il pubblico davanti a un’architettura che non si spiega, ma si attraversa.
Presentata nel Padiglione della Turchia, Anti-Ruin si compone di dodici grandi blocchi modulari realizzati a partire dalla polvere di marmo, un sottoprodotto delle cave di Lasa, in Alto Adige.
Il materiale è un residuo di lavorazione, normalmente destinato allo smaltimento, che è stato trasformato in modulo architettonico grazie alla tecnologia del binder jetting, sviluppata nel laboratorio dell’ETH dal team guidato da Pietro Odaglia.
Ci troviamo così di fronte a una struttura alta tre metri, aperta, smontabile, ricomponibile: una specie di portale in cui ogni pezzo può essere riutilizzato altrove.
Anti-Ruin è un’opera da ascoltare con calma, se vuoi coglierne i molti suggerimenti. Ad esempio, che si trovi nel Padiglione della Turchia è tutt’altro che secondario: la Turchia è infatti un Paese diviso tra continenti, culture, memorie e potenze — una soglia fragile e al tempo stesso ineludibile tra Oriente e Occidente.
Una soglia, appunto: ferma nel suo essere frontiera, ma fatta per essere attraversata. Proprio come l’installazione, che non si impone come monumento ma si offre come passaggio, spazio aperto, luogo di transito e di senso.
Nello stesso modo, il materiale scelto per realizzarla non solo viene riportato alla vita dopo essere stato consegnato all’inutilità, ma arriva dal paesaggio unico della white marble valley, tra le Alpi dell’Alto Adige, dove la pietra di Lasa è usata da secoli in architettura e scultura.
Storia, e storie, finalità inaspettate e prima mai concepite: la durezza della roccia e la volatilità dell’utilizzo convivono in Anti-Ruin come frammenti di una frase lunga, mobile, imprevedibile — una frase che non chiude, ma apre: all’uso inaspettato, come un Cigno Nero di Taleb, e al rispetto per la memoria e per la natura, come nella “città degli avanzi” di Gilles Clément.
Così, se l’architettura del progetto evita ogni monumentalismo proprio perché pensa sé stessa come processo adattivo, la collocazione nel padiglione della Turchia ne rafforza il significato: costruire non per eternare, ma per attraversare.
E, ancora, qui non c’è nulla che tenti di resistere alla rovina: ogni modulo nasce invece già preparato alla trasformazione, ogni frammento è pensato per vivere nuovi incastri, nuove collocazioni, nuove forme. Non è più l’architettura della permanenza, ma quella del possibile.
Un’architettura che, anche nello spazio della Biennale, si lascia attraversare. Che accetta il proprio tempo, il proprio contesto, e la possibilità di cambiare.
E che sembra dare forma, in modo concreto, a una delle intuizioni più importanti di Miwon Kwon — critica d’arte e teorica della site-specificity, che già vent’anni fa scriveva della necessità di pensare le opere come qualcosa che si adatta, che si muove, che si costruisce attraverso relazioni.
Forse Anti-Ruin potrebbe piacerle. O almeno, potrebbe strapparle un sorriso.