Noi canteremo le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano... i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi… i piroscafi che fiutano l'orizzonte... le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi.

È il 20 febbraio del 1909; deflagra con veemenza sul Figaro di Parigi il Manifesto del Futurismo ed è rivoluzione. Il Futurismo sostituisce agli idoli del passato quelli della contemporaneità. Un’automobile ruggente è più bella della Vittoria di Samotracia; le stazioni ferroviarie affollate di convogli sono più belle di qualunque accademia e di qualunque museo, e la locomotiva diventa emblema dell'energia e della velocità. Due anni dopo Umberto Boccioni dipinge Gli addii: lo spasmo dinamico, che innerva la scena, e la tensione del momento del saluto sono dominati dall'irrequieta energia del treno. Nel gorgo di linee e di volumi in espansione centrifuga, avvolti da volute di fumo, s’intravedono il respingente e il comignolo di una locomotiva che sta per partire, e spicca in primo piano il numero del treno, il 6943, che il quadro ha reso famoso.

È il momento d'oro del treno. Due leggendari convogli attraversano in quegli anni l'Europa: il mitico Orient Express, e la meno celebrata, ma altrettanto gloriosa, Valigia delle Indie. L'Oriente Express, inaugurato nel 1883, univa Parigi a Costantinopoli, attraverso Monaco, Vienna, Budapest, Belgrado. Fu reso celebre da Agata Christie e da Graham Greene e da tantissimi film, che hanno raccontato il mito di fine-inizio secolo del progresso tecnologico e del lungo viaggio di lavoro e di piacere attraverso l'Europa.

La Valigia delle Indie era stata istituita dagli Inglesi dal 1870, per congiungere l'Inghilterra ai propri domini in Oriente. Aveva un percorso lunghissimo e articolato: partiva da Londra, attraversava la manica e da Calais raggiungeva Brindisi attraversando tutta la dorsale adriatica italiana. Di qui s’imbarcava per Alessandria d'Egitto per proseguire, attraverso tratti via terra e via mare, fino a Bombay. Chi ha genitori anziani, che hanno vissuto in Puglia ai primi del Novecento, ha avuto la possibilità di ascoltare il racconto dei ricordi d'infanzia, di ragazzini che al passaggio della Valigia delle Indie andavano ai piedi del rilevato ferroviario per godersi lo spettacolare passaggio di quel lungo convoglio.

Certamente la “Valigia” è meno famosa dell'Orient Express, ma ha vanti letterari di non poco conto. Phileas Fogg e il suo maggiordomo Passepartout, iniziano il loro Giro del mondo in ottanta giorni, irresistibile capolavoro di Jules Verne, salendo sulla Valigia delle Indie la sera del 2 ottobre 1873. Il nome dell'Orient Express evoca l'ovattata e intrigante penombra di uno scompartimento ferroviario soffice di velluti e di tende istoriate e le carrozze ristorante con sfoggio di cappellini di svenevoli dame e d’impettite redingote di facoltosi uomini di mondo. La Valigia delle Indie richiama più concretamente uomini d'affari, dignitari e ufficiali accompagnati dalle loro dame già in abbigliamento adatto al caldo d'Oriente e silenziosi gendarmi coperti dal turbante, che scortano gli illustri viaggiatori in terre pericolose.

Fra i lustrati treni a lunghissima percorrenza e il Manifesto del Futurismo, che celebra la locomotiva dall'ampio petto, c'è l’ostentazione ottimistica della fiducia nel progresso dello sfolgorante Ballo Excelsior di Manzotti e Marenco; la fragorosa coreografia, esordita nel 1881, esalta le grandi invenzioni e le grandi opere: il telegrafo, il piroscafo, il traforo del Moncenisio, il Canale di Suez. Il sogno del Ballo Excelsior e il lusso dei grandi convogli ferroviari sui quali si consumano maliziose relazioni amorose, o si stringono lucrosi affari, mentre “le locomotive dall'ampio petto” trascinano gli affollati vagoni, s’interrompono bruscamente e improvvisamente.

Nel 1914 scoppia la Prima guerra mondiale, cancellando un quarantennio d’illusioni. La Belle Epoque, finisce: non sarebbe più ritornata. Sarebbe invece tornato l'immaginario ferroviario. L'Orient Express sarebbe rinato, di nuovo soppresso e poi rinato ancora, con percorsi diversi e nuovi da est e ovest, sempre con sfrenata esibizione di lusso. La Valigia delle Indie rimaneva invece nella storia delle ferrovie, anche italiane, che sulla tratta adriatica utilizzarono imponenti locomotive di nostra fabbricazione. Ma un altro immaginario ferroviario, ben diverso da quello elegante e mondano di questi convogli, e assai triste avrebbe caratterizzato, dal dopoguerra in poi, i treni della nostra penisola.

È l'immaginario di chi s’imbarca con la valigia di cartone legata con lo spago sui direttissimi per andare a nord con la speranza del lavoro. Sono lunghissimi convogli che uniscono il mezzogiorno al settentrione e che, quasi a dispetto della disperazione di chi li prende, hanno nomi affascinanti. Il Treno del Sole, uno dei più celebri, che da Palermo porta alla città della Fiat, il Conca d'oro, il Treno dell'Etna, e, il più lungo di vagoni, la Freccia del Sud, che congiunge Milano alla Sicilia. Convogli sempre affollati fino all'inverosimile. Nel pieno degli anni Ottanta del secolo scorso, la lentissima Freccia del Sud arrivata in Cilento, nel cuore del sud, nonostante sia trainata da un moderno e potente locomotore Caimano, aveva bisogno, per salire dalla costa tirrenica sulle alture della Lucania, del locomotore di spinta. Un vecchio e mastodontico E 626, di quelli di color cachi, si accodava e spingeva, e i due macchinisti si lanciavano con un codice fatto di fischi i segnali di aggancio e di sgancio.

Chissà se le ferrovie italiane, quando hanno creato le “Frecce”, hanno tenuto presente che una freccia ferroviaria, tutt'altro che fulminea, c'era già stata. Per fortuna, già dagli anni Cinquanta, il viaggio in treno, come ci ricorda qualche allegra canzonetta, si collega all’idea spensierata della vacanza e allora l'immaginario ferroviario riprende il suo fascino. Treni lenti, lentissimi con finestrini praticabili che accendevano la battaglia continua tra noi bambini che avremmo voluto fare il viaggio col vento nei capelli e le mamme che cercavano di farci stare compostamente seduti. Gli scompartimenti, scomodi quanto si vuole, avevano qualcosa che ricordava l'ambiente domestico, con i velluti, le lampade di vetro appese al centro del soffitto, piccoli specchi, il tavolino di legno a ribalta. Si faceva colazione, a volte sproporzionata alla lunghezza del viaggio, si chiacchierava e s’incontravano compagni di viaggio a volte simpaticissimi, a volte straordinari parlatori. Si guardava lo scorrere del paesaggio dal finestrino, di giorno godendoci la vista delle campagne, di sera seguendo i punti luminosi dei paesi. Il rumore era spesso fragoroso.

Oggi i treni sono silenziosi, comodissimi e velocissimi. Non c'è più tempo, o voglia, di chiacchierare, intrappolati come siamo, tutti, nei più svariati auricolari. Non fa freddo d'inverno e non fa caldo d'estate. Non c'è più il paesaggio da guardare di sera perché il vetro a specchio del finestrino ti rimanda la tua faccia. Non c'è più la corsa al posto, perché sono tutti assegnati e prenotati, non si passano più le valige dal finestrino perché sono sigillati. Non si combatte più con i fumatori: tutto più comodo, più funzionale, più veloce. Ma siamo sicuri di non rimpiangere i vecchi scompartimenti di una volta? Sarà per questo rimpianto che le nostre ferrovie stanno recuperando tratte dismesse, vecchi vagoni, e fantastiche locomotive dell'ampio petto che probabilmente sanno ancora scalpitare sulle rotaie?