Con il titolo, Azzerati, Il giornale dell’arte nell’articolo di fondo - e con altre dieci pagine nell’allegato Vernissage – diede l’estremo salutò a Federico Zeri. Quel “fondo”, che mi si incise nella memoria come spartiacque di un’epoca, pose subito al mondo dell’arte, non solo italiana, una serie di domande, tutte sintetizzate in questa è [1]:

«Il mattino dopo, che cosa in effetti è venuto a mancare? Il vecchio “Professore” che cosa si è portato via di non così facilmente rimediabile? Di quale compensazione o di quale surrogato vi sarà bisogno ora che quel telefono non suonerà più e non risponderà più?

Certo, ci mancheranno gli studi che avrebbe potuto fare e che non ha fatto e che non avrebbe comunque più fatto. E ci mancheranno le puntuali indignazioni per i misfatti (o per i non fatti), veri o paventati, in particolare dei Suoi nemici. […] La perdita vera probabilmente è un'altra. Di fatto, il mondo dell'arte (italiano), e forse ancor più il mondo intorno all'arte, non ha più colui che era abituato a considerare il fondamento della sua certezza, il suo punto fisso di riferimento (persino per coloro che gli erano ostili). Per un mondo pieno di ragionevoli dubbi come di abissali ignoranze, il verdetto di Zeri appariva quasi sempre indiscutibile (e comunque quasi mai discusso): Se lo dice Zeri. A chi si rivolgeranno d'ora in poi giornalisti rimasti senza suggeritore, governanti alla ricerca di consensi, collezionisti e mercanti bisognosi di avalli e banchieri con smanie di fasti culturali? Smarriti, sono ora privi di quel giudizio definitivo, sovrastante, inappellabile e intimidatorio sul qua¬le potevano contare …».

Per me invece quel mattino del 5 ottobre fu una levata dal letto a precipizio; Mario, alle 8, mi chiamò al telefono angosciato: Il Professore sta molto male e chiuse la comunicazione. Mi vestii alla meglio e coprii i cinque chilometri che mi separavano da Casali davvero in un baleno se alle 8 e 35 ero già ai piedi del suo letto: polso lentissimo, pressione sempre più bassa, disperata ricerca del suo cardiologo. Il Professore alle 8 e 45 aprì per un momento gli occhi, mi riconobbe, mi fissò e mi disse: Dottore, muoio. Mi volle evitare pure la fatica della diagnosi.

E venne il dopo-Zeri e l’arte in lutto: nella camera ardente al San Michele fu un pellegrinaggio e negli organi di stampa pagine, pagine, pagine [2], mentre nel momento del commiato, solenne giunse la promessa del Rettore Magnifico dell’Università di Bologna [3], confermata coram populo:

Zeri ha lasciato l’eredità “all’università di Bologna” e io, il rettore Fabio Roversi Monaco, annunzio che il lascito rimarrà intatto lì a Mentana e che l’ateneo farà di tutto per informatizzarla al più presto…

Poi scese un lungo silenzio e si sentirono vari richiami [4]; ma il Rettore dell’Università di Bologna, nell’anno 2000 cambiò e Roversi Monaco dovette aver sospettato qualche inversione di programma se, nel mese di novembre, sentì la necessità di dare alle stampe un segno di rassicurazione [5]. Il nuovo rettore eletto nel 2000 fu però verace “uomo del nord”, Pier Ugo Calzolari di Granarolo dell’Emilia: si vide da subito che l’idea di rispettare gli impegni del suo predecessore non lo convincevano affatto. Cominciò una “melina” che durò a lungo [6], essendo stato confermato nella carica anche nel 2005 [7]. Aspettò il momento favorevole, sino a che ebbe dalla sua parte politica tutti – assolutamente tutti - gli organi costituzionali decisionali, e soprattutto accorse in suo aiuto l’intero apparato mediatico della kultura romana che per mezzo secolo si era attivamente prodigata nel contestare a ogni passo il munifico (e ingenuo ?) Donatore [8]. Oggi un patrimonio importante per il nord-est di Roma e per il centro-meridione dell’Italia è stato delocalizzato: è emigrato al nord… ancora la “questione meridionale” … Chiarificatrice quindi, mi sembra qui porre in evidenza, sull’argomento, una delle tante considerazioni che qua e là ha esternato il Maestro [9]:

Il problema del sud: irresolubile, ma come è nato?

«È molto facile oggi criticare e deplorare la mafia, ma pensiamo al modo in cui è stata trattata la Sicilia. I Borboni a loro modo portavano il loro regno sulla via della vita moderna, mentre ad esempio le acciaierie, i grandi cantieri navali Ansaldo, furono tolti da Palermo e portati a Genova, e il sud è stato privato delle sue industrie. Inoltre l'annessione al Regno del Piemonte ha distrutto le barriere doganali senza tener conto di quelli che erano i problemi dei vari Stati, provocando una terribile crisi economica: il tanto malfamato Regno delle Due Sicilie aveva un reddito superiore a quello di tutto il resto dell'Italia messo insieme. È facile oggi dire che il sud è un problema irresolubile, ma come è stato trattato questo sud? La guerra di liberazione presentata dalla storiografia ufficiale come brigantaggio è stata come quella dell'Algeria, l'hanno persa coloro che si opponevano ai Piemontesi. Faccio solo un esempio: i Mormoni negli anni Trenta del secolo scorso [sec. XIX, n.d.A.] mandarono degli inviati in Europa per cercare delle persone che volessero emigrare in America al loro seguito. Quelli inviati in Italia tornarono dicendo che nessuno voleva emigrare, perché stavano benissimo. Dopo l'unità d'Italia 13 milioni di persone hanno lasciato il paese. Mi sembra che questi siano dati piuttosto significativi [10]».

Il problema di questa nostra bella e sfortunata Nazione è la cronica “Questione meridionale”. Per il Professore era un chiodo fisso: ma riconduceva gran parte delle sventure nazionali non all’Unità d’Italia bensì al modo come era stata fatta l’Italia. Pure questa mia testimonianza non vuole essere una voce di dissenso bensì un ulteriore, pur se flebile, lamento per il modo come il sogno si tramutò in realtà. L’idea profetica dell’unità fu lanciata con vigore - con uno dei più brutti versi endecasillabi della poetica italiana - da Alessandro Manzoni già nel 1815 nel proclama di Rimini: liberi non sarem se non siam uni. Dietro a quella bandiera, molti decenni dopo, una regione dopo l’altra dello Stivale si riconobbe “Italia” [11]. Poi però una certa intelligencija volutamente cancellò – e continua a cancellare - il grido di dolore che da cento cinquant’anni prorompe dalle pagine degli scrittori siciliani, bene evidenziato da Vittorio Spinazzola, docente alla Statale di Milano [12], nella “introduzione” alla riedizione de I Viceré di Federico De Roberto; questi, nato a Matera, come tanti meridionali enucleati, subì il trauma della migrazione interna – sempre a senso unico, da sud a nord – e soffrì in prima persona l’esperienza dell’inserimento in un nuovo contesto sociale, subendo forse pure le umiliazioni dell’iniziazione. La “questione meridionale” – che Spinazzola trattò nell’ottica della Sicilia ma che in nulla cambiò nel contesto dell’intero regno delle Due Sicilie – divenne un atto d’accusa alla borghesia nazionale. Egli infatti scrisse:

Al grande De Roberto spetta il merito di avere impostato un discorso che Pirandello e Lampedusa, suoi emuli, rilanciano a loro modo, perché condividono la persuasione della sua importanza ancora attuale.

La triade De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, sviluppatasi nell’arco dei primi cento anni della Storia d’Italia, urla la stessa indignazione per l’esito truffaldino dell’impresa di portare la Sicilia dall’arretratezza alla modernità (Spinazzola). È quindi in quest’ottica che si spiegano la dura reazione di Pirandello e la cinica (?) filosofia del De Roberto e del Lampedusa: De Roberto mise in bocca al duca di Oragua, deputato della Destra e maestro di clientelismo - parodiando il detto di Massimo D’Azeglio Ora che l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani - la sua versione in Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri; le invettive del narratore Pirandello si concentra[ro]no con una foga allucinata contro un obiettivo ad alto valore simbolico, la Terza Roma, «…», «…» che contamina [!] l’intero paese, in una apocalittica «bancarotta del patriottismo» [13]; Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Il Gattopardo, nel momento storico dello sbarco dei Mille in Sicilia, mise in bocca al giovane aristocratico Tancredi, che stava per arruolarsi nelle file dei garibaldini, l’icastica affermazione passata in proverbio: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. In sintesi, sulla “questione meridionale”, fa ancora purtroppo meditare la riflessione (pessimista) dello Spinazzola:

…E ciò significa revocare in dubbio il valore complessivo dell’epos risorgimentale, proiettandolo in una luce di delusione …[14].

Mentre vergai alcuni brani di questo testo (2011), si svolsero i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia; gli ultimi due Presidenti eletti alla massima carica della Repubblica Italiana, Ciampi e Napolitano, avevano messo il loro impegno nel dare vigore al senso di italianità e ai valori risorgimentali riportando in primo piano il valore simbolico del Tricolore; purtroppo la data era coincisa con la crisi della moneta unica europea: gli animi non erano aperti alla gioia spontanea. Ecco perché mi tornavano, frastornanti alla memoria, le parole di Zeri che non riusciva a vedere un rinnovamento della classe politica:

25 settembre 1981 [15] – …è una élite che governa l'Italia e che finge poi di criticare, di fare la morale ... sono sempre loro ... ce li trova tutti dentro [16]…

Dalla morte del Professore sono ormai trascorsi diciassette anni, dal saggio dello Spinazzola già ventisette e dall’edizione postuma de Il Gattopardo sessanta: e non è cambiato assolutamente nulla. A gestire i destini della Nazione, dietro i personaggi che siedono sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama, ci sono sempre loro, “gli invisibili”. Sono questi che muovono i fili, sempre attivi e con una ragnatela sottile, antica e consolidata ma soprattutto raffinata e limata, una generazione dopo l’altra. Senza venire al presente ancora urticante, credo sia sufficiente citare solo alcune mostruosità da poco consegnate alla storia e che ancora turbano le coscienze popolari: nella cultura, l’ostracismo a Federico Zeri per l’intera vita e del quale ho detto le cento volte; in politica, la tragica fine di Aldo Moro e di Bettino Craxi [17], la pertinace aggressione al presidente Leone [18]; nella finanza o nella gestione della cosa pubblica, gli scandali IOR, Sindona, Gioffrè, Mazzanti o l’allegra ventennale gestione dell’Italcasse [19], sino agli infiniti amichevoli insabbiamenti [20], e poi “mani pulite”, la mafia a Roma, lo scandalo del Mose veneziano.

Tutti drammi nazionali – inspiegabili e non mai spiegati! – al senso di onestà del popolo sovrano che insinuano ancora oggi nell’animo del semplice cittadino l’inutilità di una impalcatura politica “gestita da dietro le quinte”. Mentre urla il suo sdegno la coscienza di quanti nel sentimento del vivere onestamente ancora si riconoscono. Zeri mi disse (relata refero) che dietro a tutto quest’apparato vi era l’armata immediatamente allertabile costituita da migliaia di firmisti pronti all’appello del “padrone” e la cerchia gravitante nell’orbita di una nota rivista e di un notissimo quotidiano sempre tuonanti, mentre gli “invisibili” indossavano il cappuccio con due buchi all’altezza degli occhi e uno al livello della bocca.

Per tornare alla delocalizzazione del lascito Zeri penso ancora che fu un vulnus [21] riconducibile alla casta degli invisibili. È ben nota la volontà del Professore di voler fare della sua casa di Casali di Mentana una scuola di alta specializzazione di storia dell’arte [22]: ma a questa casta non parve vero di potere infierire sul Personaggio, anche dopo la Sua morte tradendo le Sue volontà, ulteriore dimostrazione della potenza della filosofia messa in bocca all’aristocratico gattopardesco Tancredi Falconieri.

La “questione meridionale” si potrà risolvere? Zeri la reputò irresolubile: vorrei che almeno in questo il Maestro si fosse sbagliato. Penso infatti che si potrà risolvere quando il Sud d’Italia non sarà più considerato terreno di preda: continuare a enucleare ogni fonte di lavoro, culturale o industriale, dai tre valli siciliani [23] (Val Demone, Val di Mazzara e Val di Noto) o da qualunque altro sito centro-meridionale posto sotto la “linea gotica”, per ricollocarlo nella “Valle del Po” non potrà che perpetuare questo flagello che nulla di buono potrà mai apportare alla comunità italiana.

La Fondazione Zeri [24], trasportata a Bologna, ha ora una collocazione prestigiosa: non si discute. Ma fra quelle mura manca l’essenzialità della “fondazione”: manca la presenza di Zeri, la simpatia delle Sue rare ore allegre e il canto dei suoi stornelli romaneschi; manca l’urlo della Sua indignazione, la passione della Sua ricerca; manca l’odore della Sua zuppa al brodo di tartaruga degli anni Ottanta, l’attenzione per il Suo roseto, la cura per la collocazione e conservazione della Sua collezione di epigrafi; manca la ricerca continua di volumi che sapeva di avere e che non riusciva a ritrovare con conseguenti Sue invettive; manca l’amore per ogni oggetto del Suo arredamento; mancano le Sue barzellette per le quali prima di tutti ne rideva Lui e poi riversava al mondo intero con le Sue telefonate. Manca soprattutto l’energia che dalle pareti della Sua casa ancora si sprigiona e che, nelle poche occasioni nelle quali vi sono stato accolto dopo la Sua morte, mi ha pervaso ancora sino ai precordi.

Tutto questo nell’edificio storico e monumentale, già convento di Santa Cristina, fra via Santo Stefano e Strada Maggiore a Bologna non c’è, non può esserci, mentre nella casa di via delle Facciate, 38, in località Trèntani a Casali di Mentana, sì, c’è!
Ancora oggi c’è.

Note:
[1] Il giornale dell’arte, a. XVI, n° 171, novembre 1998, p. 1.
[2] Liliana Madeo, Guastatore a fin di bene e Lorenzo Mondo, Una firma speciale, Marco Vallora, Il geniale detective e i suoi maestri e Marco Rosci, Esploratore della Controriforma, la fama internazionale con un libro del ’57, La Stampa, 6 ottobre 1998, pp. 21-23; Anna Ottani Cavina, L’occhio infallibile, Paolo Vagheggi, Trasformò l’arte in spettacolo, Cesare Garboli, Ma amava la pittura senza ardere di passione, la Repubblica, 6 ottobre 1998, pp. 43-45; Paolo Conti, Federico Zeri, Il detective dell’arte italiana e Arturo Carlo Quintavalle, Sulle tracce di Longhi sempre a caccia di capolavori antichi, Corriere della sera, 6 ottobre 1998, p. 33; Daniela Daniele, Quando Zeri passeggiava tra i fulmini, Gianni Vattimo, Il capolavoro si capisce dagli «effetti», Enrico Benedetto, Rosemberg, omaggio francese all’onnivoro che lo stregò, Giulio Einaudi, Il cicerone appassionato, tra invettive e umor nero quarant’anni di intesa, La Stampa, 7 ottobre 1998, p. 23; Carlo Bertelli, Lo sterminato patrimonio dello storico scomparso finirà all’università di Bologna, all’Accademia Carrara di Bergamo e al Poldi Pezzoli di Milano, Corriere della sera, 7 ottobre 1998, p. 33; M.T.R., Con Federico Zeri Mentana ha sbagliato tutto, il ricordo dell’amico Salvatore G. Vicario, Tiburno, 7 ottobre 1998, p. 2; Vittorio Sgarbi, Era il più cattivo, quindi il migliore. L’ex nemico rende onore all’avversario di tante battaglie, Il Giornale, 7 ottobre 1998, p. 28.
[3] Paolo Conti, Addio a Zeri ma non alle sue idee. Tante proposte per raccoglierne l’eredità, Corriere della sera, 8 ottobre 1998, p. 23; Daniela Daniele, Zeri, addio fra le lacrime, «È il padre che tutti avremmo voluto», La Stampa, 8 ottobre 1998, p. 9.
[4] Fra i tanti: Alberto Arbasino, A un mese dalla morte il Centro Pompidou commemora lo storico dell’arte, la Repubblica, 5 novembre 1998, p. 43; Fabio Marricchi, A Mentana la Fondazione Zeri, Il Messaggero, 7 ottobre 1999, p. 43; Fabrizio Lemme, Chi maneggia le foto di Zeri?, Il Sole-24 ore, 20 settembre 2000, p. X.
[5] Fabio Alberto Roversi Monaco: La Fondazione Zeri esiste e presenta i suoi progetti, Il giornale dell’arte, n° 193, novembre 2000, p. 6.
[6] Non reputo necessario ricordare le lunghe battaglie e gli interventi parlamentari; cito, per i tanti, solo due articoli della stampa romana: Fabio Isman, Zeri, l’ultimo schiaffo è l’eredità smembrata, Tradimenti/il grande studioso aveva lasciato la villa-museo di Mentana all’Università di Bologna per farne un centro di alti studi […]; storia di un lascito conteso a colpi di dimissioni e di polemiche, Il Messaggero, 11 gennaio 2003, p. 21; Gabriele Simongini, La Fondazione Zeri e Bologna, Le false promesse del rettore Calzolari, Il Tempo, 6 febbraio 2003, p. 19. Fu tutto inutile. Gli impegni furono traditi! “Quando la forza con la ragion contrasta, la forza vince e la ragion non basta”.
[7] Un puntuale riscontro della mia lunga e – a Mentana – solitaria battaglia, almeno per i primi cinque anni dopo la morte, si può ritrovare sul mio sito, sotto la voce: “Fondazione Zeri”.
[8] Cfr. le opere a cura degli ultimi due allievi di Zeri, Andrea G. De Marchi, Due casi di raccolte recenti (pp. 11-12) e Su Zeri e sulle cose che ha raccolto (pp. 17-24) in Sculture dalle collezioni Santarelli e Zeri, Roma, Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra (14 aprile – 1 luglio 2012) e Andrea Bacchi, Il conoscitore d’arte, Sculture dal XV al XIX secolo della collezione di Federico Zeri, Milano, Museo Poldi Pezzoli (10 marzo-14 maggio 1989) e Bergamo, Accademia Carrara (3 giugno- 23 luglio 1989).
[9] Com’è quest’Italia: breve storia del dopoguerra, Vernissage, cit., novembre 1998.
[10] Credo sia il caso di ricordare che sino all’annessione del regno delle Due Sicilie al regno dei Savoia, tra il Seicento e l’Ottocento - né si vuol qui fare del settarismo – le arti avevano prodotto e tramandato sino ai giorni nostri opere che ancora oggi stupiscono i visitatori del mondo intero. Venne prima alla Soprintendenza di Napoli il ciclone Raffaello Causa, tanto stimato da Zeri, l’ideatore di mostre che sbalordirono il mondo, da Civiltà del Settecento a La pittura da Caravaggio a Luca Giordano, “tappe incalzanti di un trionfo clamoroso dell’arte napoletana”. E scomparso prematuramente Causa, il testimone fu degnamente ereditato da Nicola Spinosa, che continuò, incrementandola, l’opera meritoria del predecessore con le opere Bernardo Cavallino e il suo tempo; Caravaggio e il suo tempo; Il Barocco mediterraneo. Ricordo l’impressione che ebbe sull’opinione pubblica l’inaugurazione della mostra Civiltà del Seicento a Napoli, con un poderoso catalogo in due volumi (Aa. Vv., Civiltà del Seicento a Napoli, 2 voll., Electa Napoli, 1984), dedicato a Raffaello Causa e ne ricordo pure il suo clamore mediatico. Mi disse Zeri che emersero tante opere da ogni angolo del Sud d’Italia da non potere essere ospitate nel solo Museo di Capodimonte e che fu necessario allestire in tutta fretta anche le sale del Museo Pignatelli. Riscontro a questa notizia si ebbe nello stesso catalogo: la mostra fu aperta il 24 ottobre 1984 a Capodimonte e il 6 dicembre 1984 al Pignatelli; si concluse lo stesso giorno: il 14 aprile 1985.
[11] Le ragioni fondanti dell’unificazione nazionale, a partire dal verso di Alessandro Manzoni, liberi non sarem se non siam uni, fu posto emblematicamente a titolo dell’intera manifestazione presso l’Università Cattolica di Milano nell’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Intervennero, nell’ordine, i professori Xenio Toscani, Giuseppe Langella, Pierluigi Pizzamiglio, Guido Lucarno ed Edoardo Barbieri; chiuse il ciclo il professor Mario Taccolini, Direttore del Dipartimento di Scienze Storiche e Filologiche che programmò l’iniziativa. Circa il titolo di questa manifestazione cfr. pure le pp. 108 e 225 34n in Alessandro Manzoni, Tutte le opere, con saggio introduttivo di Francesco De Sanctis, Avanzini e Torraca, Roma 1965.
[12] Vittorio Spinazzola, Federico De Roberto e i suoi emuli, “introduzione” a I Viceré, Oscar Mondadori, Milano 1991, p. VIII.
[13] Credo sia appena il caso di ricordare, per i lettori del futuro, le vergogne che si sono materializzate in questo anno del Signore 2015 nella gestione della Regione Lazio, nella defunta (?) Provincia di Roma, nell’Amministrazione della città di Roma.
[14] “L'antropologia dell'autore de Il Gattopardo è il contrario di quella derobertiana, secondo cui l'umanità è divisa in due razze, dominatori e dominati, predestinati al comando o all'obbedienza: sicché la vecchia stirpe predace degli Uzeda non solo non si estingue ma si ricrea come la Fenice, nel mutare delle contingenze storiche. Ma il punto d'approdo dei due scrittori è il medesimo: la sfiducia in ogni teleologia” (Spinazzola, cit., p. X), la concezione cioè secondo la quale gli eventi, anche quelli non legati all’azione volontaria e consapevole degli uomini, avvengono in funzione di un fine o scopo (Enciclopedia Italiana Treccani).
[15] La data posta avanti a una citazione indica il giorno nel quale riportai la frase nelle mie agende.
[16] Non credo vi sia stato personaggio venuto in contatto con il Professore che non abbia almeno una volta sentito pronunziare la frase: L’Italia non potrà mai rialzarsi perché è guasta sino alle midolla!
[17] Luciano Violante, che già qualche anno fa aveva definito Bettino Craxi un “capro espiatorio”, attirandosi un’orda di attacchi da sinistra, in un’intervista all’Ansa, riprese la sua analisi sul contestato leader socialista: Craxi insistette sulle riforme istituzionali, Berlinguer sulla questione morale. Se Berlinguer e noi con lui avessimo capito l’importanza del tema e Craxi la centralità della questione morale, forse la storia sarebbe stata diversa. La ‘Grande Riforma’ fu uno dei cavalli di battaglia di Craxi presidente del Consiglio e oggi il confronto sulle riforme istituzionali è una sfida che ancora non si sa se andrà in porto. Affermò ancora Violante: Craxi e il Pci rimasero ognuno delle sue posizioni: il Pci sulla questione morale mentre Craxi ritenne prioritaria la Grande Riforma, che non realizzò. Nessuno comprese che entrambe le questioni avevano un loro fondamento”. Un muro di totale incomunicabilità dettato dalle ragioni che divisero sempre i comunisti e i socialisti: “da un lato – sostenne l’ex dirigente comunista – la posizione altezzosa del Pci e dall’altro il revanscismo del Psi verso i comunisti, dovuto al profondo anticomunismo (Gianni Minoli, La storia siamo noi, RAI, 11 gennaio 2010).
[18] La Cederna fu tra i principali accusatori del presidente della Repubblica Giovanni Leone, contro il quale scatenò una campagna diffamatoria feroce a partire dal 1975. La giornalista pubblicò, nel 1978, il libro Giovanni Leone. La carriera di un presidente; vendette svariate migliaia di copie. Risultato: il povero Leone dovette lasciare l’incarico con disonore. Venne riabilitato soltanto molti anni dopo, quando ormai non serviva più. L’unica denuncia fu quella che si prese lei, condannata per diffamazione (da internet: Francesco Borgonovo, Il Corriere ha fatto della Cederna la santa vergine degli anni Settanta, 16 gennaio 2011).
[19] Dossier: La corruzione, L’Europeo, a. XXXVI, n. 12, 20 marzo 1980, pp. 7 – 26.
[20] Vicario, Ciarle di un vecchio medico curioso, Sessantacinque anni di democratica follia, ed. Agemina, Firenze 2013.
[21] Non si può sottacere la dichiarazione pubblica di Fabrizio Lemme in occasione della Presentazione del volume della editrice Allemandi, Venti modi di essere Zeri, presso l’Accademia di S. Luca a Roma: […] Perché allora lasciò all’Università di Bologna la sua biblioteca e la sua fototeca, senza sottoporre la vocazione successoria al c.d. “onere” (latinamente, modus), che avrebbe comportato la risoluzione del lascito ove il chiamato non avesse adempiuto? La risposta è una ed una sola: perché aveva piena fiducia in quanto gli era stato assicurato dal Rettore pro tempore dell’Università, Fabio Roversi Monaco, e da Anna Ottani Cavina, che aveva assunto il ruolo di sponsor dell’operazione (ed ora, lo dico con molto rammarico, è la prima a negare attuazione alla volontà di Federico, nonostante ne avesse diretta e reiterata contezza).
[22] Vicario, Venti modi …, cit., pp. 128 sgg.
[23] Fu la divisione data alla Sicilia araba: "Val" in questo caso non sta per Valle quanto piuttosto per "wilaya / welaya" indicante signoria, prefettura o governo di una Provincia ovvero per "Wali" cioé territorio dipendente da un "Wali" o Governatore (internet).
[24] Aa. Vv., Fondazione Federico Zeri, FMR ed., 2006.