Una donna dai capelli blu è affacciata a una finestra.
Non sta guardando chi la osserva: i suoi occhi, grandi, quasi infantili nel tratto, sembrano cercare altrove, come se seguissero un movimento invisibile da fuori la scena. Forse la strada sotto di lei, forse qualcosa che sta accadendo al di fuori della nostra visuale. La bocca è riflessiva, stretta nel silenzio. Le mani poggiano sul davanzale, come se cercassero una struttura, una linea dritta a cui aggrapparsi.
Il suo corpo, fatto di lamiere e scarti industriali, è un racconto in sé: ogni pezzo che lo compone ha avuto una storia prima di diventare parte di lei.
Sono frammenti di un mondo che si trasforma, a volte perdendo parti di sé, lasciando dietro tracce che aspettano di essere riscoperte.
E la sua finestra non affaccia su un paesaggio, ma su una realtà frammentata, costruita sui resti di ciò che è stato.
L’opera è Donna Blu di Franco Farina: restauratore, antiquario e artista che si muove lungo i confini sottili tra passato e presente, materia e memoria. La sua arte si inserisce in un ambito sempre più attuale, in cui molti artisti scelgono di lavorare con materiali di recupero. Non solo per una questione estetica o ecologica, ma perché leggono lo scarto come materia prima della memoria.
Ciò che è stato abbandonato, dimenticato, rifiutato, viene così trasformato in narrazione, in testimonianza visiva di un tempo che non vuole, o non può, scomparire.
Se la globalizzazione ha reso le immagini artistiche sempre più interconnesse, uniformando mercati e produzioni, l’arte ha risposto in modi diversi.
Uno di questi modi è lavorare il recupero e la memoria: ossia una via “glocal” – strana commistione di due parole antitetiche in apparenza, globalizzazione e locale – per intendere uno sguardo che parte dalle radici, dai materiali, dalle tracce di un luogo, ma non resta chiuso in un localismo sterile.
Le opere di questo ambito attingono alla storia e alle tradizioni, ma parlano un linguaggio universale. Perché il recupero non è mai solo un gesto materiale: è un atto di resistenza, un modo per rimettere in circolo il tempo.
Il termine glocal in realtà, non nasce nell’ambito artistico, né vi si sviluppa principalmente. La sua culla è nel campo della sociologia e dell’economia – che a loro volta sono il “brodo primordiale” dell’espressione artistica di volta in volta contemporanea – e il suo luogo di nascita è il Giappone dove, negli anni Ottanta del secolo scorso, gli specialisti del marketing lo inventano per descrivere strategie che combinano un approccio globale con un adattamento locale (global + local).
Negli anni Novanta il concetto viene ripreso dal sociologo Roland Robertson per descrivere il modo in cui la globalizzazione non elimina le identità locali, ma le ridefinisce e le rimescola; mentre in campo artistico, il termine glocal viene adottato nei primi anni 2000, quando le biennali internazionali iniziano a evidenziare la tensione tra globalizzazione e identità locali.
E già che abbiamo parlato di culle e di luoghi di nascita, possiamo provare a visualizzare la “famiglia allargata” dell’arte glocal.
Tra le sue “zie” più influenti c’è l’ironia, che prende tutto sul serio solo per rovesciarlo; il citazionismo, che scompone il passato e lo rimonta come un collage; la frantumazione delle certezze, che sparpaglia ogni verità in mille punti di vista.
Tutti elementi caratterizzanti il Postmoderno – alla Andy Warhol o alla Maurizio Cattelan, per intenderci. Insomma, se il Modernismo (il nonno!) aveva creduto ancora nel progresso e nella coerenza dell’arte, il Postmoderno smonta ogni struttura, facendo dell’ambiguità e del relativismo il proprio linguaggio dominante. L’arte glocal, invece, sembra prendere un’altra direzione: un po’ come i figli dei fiori degli anni Settanta, non decostruisce, ma ricostruisce, non si limita a ironizzare sul mondo, ma prova a riconnettere il presente alle sue radici materiali e culturali.
Tra gli artisti glocal più rappresentativi, c’è sicuramente El Anatsui: classe 1944, ghanese, ha insegnato e lavorato per decenni tra il Ghana e la Nigeria.
Oggi è riconosciuto come uno dei più influenti artisti africani contemporanei, capace di raccontare la storia e l’identità culturale attraverso la materia.
Le sue opere parlano di memoria, colonialismo, globalizzazione e consumo: El Anatsui trasforma rifiuti industriali in superficie fluttuanti che evocano i tessuti tradizionali africani, e il suo lavoro è stato esposto nei principali musei del mondo, dal MoMA alla Tate Modern.
Un altro esponente importante di questo tipo di espressione artistica è Ai Weiwei, nato in Cina nel 1957 e costretto a crescere in esilio con la famiglia a causa delle persecuzioni del regime: dunque un artista, ma anche un attivista, che ha fatto della sua opera un mezzo di denuncia politica e sociale.
Dai vasi neolitici dipinti con la Coca-Cola ai milioni di semi di porcellana realizzati per la Turbine Hall della Tate, Ai Weiwei gioca con la contraddizione tra tradizione e modernità, tra globale e locale, portando la sua voce nei più importanti spazi internazionali, dal Guggenheim alla Biennale di Venezia.
La Donna Blu di cui dicevamo all’inizio, con la sua tensione tra recupero della memoria e trasformazione dei materiali, è un tassello in più nel grande mosaico dell’arte glocal.
Franco Farina, infatti e pur con una dimensione più intima e radicata nel contesto italiano, inserisce il proprio lavoro in quella ricerca che vede lo scarto non solo come residuo, ma anche, forse principalmente, come traccia di un passato che può ancora parlare; e se El Anatsui e Ai Weiwei lavorano su larga scala e in un dialogo esplicito con la globalizzazione, Farina opera con una sensibilità che affonda nelle radici della sua terra, trasformando lamiere e materiali di recupero in figure cariche di espressività e significato.
Un significato la cui portata di protesta e contestazione nei confronti della faccia “non umana” della globalizzazione è emersa particolarmente evidente in “Gli Occhi della Terra”, personale di Farina, curata da Craving Art di Alessia Dei, e tenutasi allo Spazio Shield di Palazzo Brancaccio nel dicembre 2023.
Nelle opere esposte il discorso di Farina si è sviluppato nel senso di una memoria che non viene nascosta, ma esaltata, attraverso l’evidenziazione della ruggine, delle imperfezioni, delle saldature a vista.
Nessuna estetizzazione del recupero, ma la scelta consapevole di lasciar parlare la materia per quella che è: come se ogni opera portasse con sé le tracce di chi l’ha toccata, lavorata, perfino scartata, prima che trovasse una nuova forma, e il ferro, la lamiera, i resti di un mondo industriale diventassero strumenti di una narrazione più grande, capace di intrecciare storia, mitologia e attualità.
La Donna Blu, affacciata sulla sua finestra fatta di scarti, non è solo il riflesso di un gesto ecologista. Il suo è uno sguardo che interroga, che sfida, che chiede una risposta. Perché nel recupero non c’è solo il passato che ritorna, ma il tentativo di trattenere ciò che la globalizzazione spesso disperde: la memoria dei luoghi, la stratificazione delle storie, il valore delle cose.
In questo senso, il lavoro di Farina – non solo nelle opere di quella mostra - si inserisce in un movimento più ampio, in cui il recupero diventa non solo un mezzo espressivo, ma una scelta etica e politica. Insomma, un’arte che non rinnega il mondo connesso in cui viviamo, ma lo interroga, lo filtra attraverso le sue radici, lo riporta a una dimensione più umana.
E se i frammenti di lamiera diventano occhi che ci osservano, finestre aperte sul passato e sul futuro, allora l’arte glocal non è solo un’estetica.
È un modo di abitare il mondo.