Non si può fare la letteratura
con la letteratura
musica con la musica(Tommaso Landolfi, Rien Va)
La lezione di Pulcinella: si può agire solo al di là o al di qua
dell’azione, si può parlare solo al di là o al di qua della parola.
Si può vivere solo al di là o al di qua della vita.(Giorgio Agamben)
Il labirinto greco antico è una danza, un rito, un corteo simbolico che configura una mappa da vivere con il corpo verso la magia ipnotica e centripeta del Centro. Così l’opera mozzafiato di Ugo Levita per la quale è necessario inventare nuove parole: mitogonico, eidomantico, anastante, parusico perché ci troviamo di fronte a un processo del tutto nuovo, appena obliato dall’efficacia immediata di un’eruzione visiva totalizzante ma operante con leggiadra eleganza.
Possiamo parlarne se già ci siamo lasciati immergere in questo immaginario metamorfico che sembra darsi già prima della sua percezione visiva e non cessare con l’apparente esaurimento di questa esperienza. Così come per il Cantico dei cantici di Salomone: il superamento del dis-corso in una parusìa ritmica continua, musicante, in-corsiva, obliquamente inclusiva, incessante perché non se ne percepisce né are né il concludersi.
La farfalla appare tra una maschera e la sua rimozione come nello squadernamento di una lezione sapiente: l’opera c’è e non c’è, si dà in questo confine fluido borderline per sua natura. Esserci e volare via. Volando passare. Opera pontificale che possiede la stessa forza di un sogno: l’incidere musicale, aggraziatamente necessario e il suo trapassare quale danza incessante.
La nostra capacità percettiva ed immaginativa resta sempre indietro, viene misurata dalla pittura trans-apparente di Ugo. Una grande lezione di umiltà per il nostro sguardo che si insuperbisce atrofizzando in una posa blasè, quando Ugo lo sorprende insegnandoci quanto il reale sia oltre il pensiero e l’esperienza del passato. Tutto torna reale sulle ali dell’utopia. Il reale quale utopia sognabile nel corpo. Il sogno è fatto fisico, concretissimo. Le balaustre di pietra, così rinascimentali, nella pittura di Levita sembrano palpebre nuove che ad ogni battito svelano corporeità mai viste e sogni mai pensati. L’anima è un fiore tra metallo e carne e l’occhio un uovo aureo che ti guarda.
Pittura fluttuante, flautante che annuncia la sua allegra apocalisse soffiando da dentro un gioco di maschere. Di cosa è memento e memoriale se non della vita quale accadimento, irreparabile vitale, irruzione unificante? La pittura quale tensione immaginale che regge gli opposti, “arde di su’ foco”, e allora tutto diventa credibile nell’impossibilità rappresentativa, perché qui finalmente la rap-presentazione evapora, si dissolve nella velocità di una giostra radiante più veloce della luce.
La lenta luce del nostro pigro occhio. La luce pigra di un pensiero che felicemente si schianta. Non c’è più allegoria, né blasone né simbolo ma tutto questo e molto di più ma senza le abituali prigioni concettuali. Si percepisce fisicamente l’ampiezza del simbolo in un busto di Socrate reso casetta per gli uccelli (allusione ad Aristofane?), la grazia di un’allegoria in una bambina che vola su una tartaruga tra numeri che diventano arabeschi. Si coglie la forza del talismano nella donna-uccello con gufo e nella cetra di un Apollo pasoliniano e beniano. Ma tutto ciò s’ondeggia libero da codici appropriativi e d’uso.
Cogliamo o la grammatica o la sintassi musicale ma non entrambe.
Dentro questo iato ecco l’essenza di questa pittura. Nel suo felice sfuggire all’ermeneutica e all’uso percettivo. Qui Icaro non cade, non può cadere perché tutto il mondo è di cera e si muove elastico al fuoco dello sguardo demiurgico del nostro sapiente ed eracliteo artista. L’Angelo non è più rabbioso. Il suo sguardo attraversa i millenni contenuti in un istante ma la spirale dell’uragano si riavvolge. Nessuna potenza maggiore del sognare, essenza del vivere.
I dormienti generano mondi e i svegliati abitano il loro mondo, insegna Eraclito nei suoi frammenti, ma questa pittura abita il dormiveglia, dove tanti mondi iniziano nella loro aurorale e un cuore solo grande palpita, quello che guida il pennello come Achille la sua roteante lancia di frassino. Che grecità appare? Sia silenico-panica che apollinea, finalmente restituite nella loro non scindibile unità organica e vivente dove anche la pietra è morbida come la carne.
Pittura petrogenita, come Mithra. E la mitria allora diventa un toroide spiraleggiante senza inizio e senza fine e i paramenti sono vestiti, cioè estetica cioè le ali di una farfalla. Levita è un grande tessitore dei fili di Ananke, la dea più misteriosa e senza volto perché i suoi intrecci passano ovunque, in ogni maschera e l’accostamento fra forma, numero e vaghezza si offre quale iniziazione a una lingua inesprimibile quanto necessaria e intima dove il “sub-stinere” il cerchio e il quadrato emerge come terapia indispensabile per continuare a sognare, cioè a vivere.
Apollo infatti era nume anche guaritore, purificatore quanto ctonio e tellurico, non solo solare e celeste. La forza della nuvola è la forza del pensiero nella sua aionicità. Ciò che appare passato o proiezione verso il futuro qui ha la medesima consistenza, fisica e carnale, dell’istante che non passa perché ci coglie spesso impreparati, inconsapevoli e se l’uomo è un falco allora il falco è fuoco. Equazioni cosmiche, perfette.
La grandezza del reale nella complessità delle sue apeironiche declinazioni e ricombinazioni. Questo possiamo aggiungere come uno dei molti altri nomi al bellissimo titolo di questa mostra. Un titolo-frase che non finisce perché siamo di fronte a un’arte incontenibile e non misurabile ma misurante le nostre capacità immaginali al confronto con la sua processualità sconfinata. Gli allineamenti sono possibili solo nei corpi che si giocano quali irradiazioni delle loro intime e misteriose strutture. Ecco il “segreto di Pulcinella” ri-secretato: l’essere oltre e al di qua, come i Dioscuri di cui l’eroe bianco è epifania selenita.
Di fronte a questi dipinti piuttosto che parlare o scrivere dovremmo danzare, camminare, compiere riti, cantare. Solo così potremmo reggerne l’intensività che non ci dà scampo, che brucia le mediocrità percettive e i pensieri vili. Si percepisce fisicamente il demiurgo che muove il pennello come il direttore d’orchestra di Paolo Conte (Il maestro è nell’anima), come un rabdomante di terre celesti e infere, di sentieri tra monti magnetici che ardono e cerchi danzanti. I pensieri deformano i corpi e il gesto aggiunge sempre e non chiude perché stiamo sempre giocando e cercando dentro il labirinto di una mente che c’è e non c’è tra la sua carnalità e la sua aionicità non localizzabile.
Se il punto è un luogo infinito che dire della pittura visionante? Cronos non divora più i propri figli ma si moltiplica, mentre l’Uovo dell’origine torna unito nel suo mistero. Ma tutto ciò che ne è uscito è immenso e vive molte vite. Neppure il corallo sembra morto e uno stesso fuoco invisibile anima l’implosione, il collasso quanto i nove mondi delle tre porte del “guerriero siderale”.
La saggezza del corpo totale non sbaglia mai le dinamiche sceniche che qui appaiono nella spontaneità delle reazioni chimiche come l’intrecciarsi sincrono dell’impennarsi del cavallo bianco di una Godiva-Artemide con il sfrangersi della tempesta marina, dei cavalli di Poseidone. La verità viene restituita alla sua radice autentica di ri-velazione emersiva come in Uomini e dei danzano su Pompei dove la verità è nella totalità della percezione-pensiero che fa tornare il senso esperienziale della verità quale immersione in una dynamis colta nel suo passare risonante.
La danza delle immagini che Ugo magicamente mette in essere supera ogni distinzione fra apparenza e rappresentazione. Come nell’opera Odissea sulla terra dove il traboccare visionario non impedisce il cogliere un atto fondativo immaginale dell’artifex: il porre l’occhio rosso di Hal9000 nel centro della divisione fra il vedere fisico-magico e il vedere tecnico-artificiale. Il reperto babilonese indica l’immobilità di chronos quando Aiòn domina la genesi della visione. Ma anche la stasi è duplice perché tutto nel processo mitogonico appare unico quanto molteplice.
Nell’opera La danzatrice marziana cade sulla terra possiamo invece cogliere quattro livelli di epifania immaginale: la danza degli astri nella loro finta lontanissima stasi, la danza della rappresentazione data dal putto sul “fondale di Maya” del teatro cosmico, e le due danze sulla terra: una catabatica e una anagogica. Fra queste due polarità ecco la fuga del ricordo e l’onda che slancia l’illuminazione. Un occhio solo si vede nella danzatrice viola, colore di trasmutazione e un occhio solo nella danzatrice/polena elevata dal mare afroditico. Perché è una sola danza colta nelle sue polarità complementari in azione.
Nel Giglio di Nola ritorna trionfante il segno cosmico del Labirinto, processo a sua volta labirintico e flusso sonoro-immaginale come gli studi di Emilio Villa dimostrano. Il Lab-rin-inthus indica il ritorno indietro nel flusso del tempo, l’aprirsi della porta che dà sul dentro, sul centro e non sulle tenebre esteriori. Perché la luce splende dall’abisso, dall’intus. Queste ultime opere di Ugo mostrano con particolare evidenza e onirica facilità come la sua opera superi definitivamente la distinzione platonica fra ikastico e fantasmatico quale emerge nel Timeo e nel Sofista. E la supera ribaltandola e spiazzandola: ogni visione di Ugo veicola la stessa credibile densità della vita in corso di svolgimento quando la medesima potenza epifanica del sogno.
Si ricompone magicamente la terribile scissione antinaturale fra modello e imitazione introdotta proprio da Platone in quanto la presenzialità lirica e organica dei mondi di Ugo non lascia spazio ad alcuna rappresentatività alienante. La pictura ut philosophia di Levita svuota il dogma del “modello” a favore della potenza della “manifestazione” e non a caso il termine greco apo-kalittico parusìa indica sia una presenza intensa che una manifestazione solenne. Carismi sempre presenti in felice congiunzione nel flusso sapiente a cui Ugo ci inizia ogni volta, liberandoci dal Reale proprio dall’interno: liberando il Reale nel senso del suo olos.
Ora le parole, sempre tarde e limitate, sono finite. Quindi in esse mi taccio, tornando a contemplare.